Salvatore Paolo Garufi |
Le feste patronali nella città bellicosa |
Racconti |
Proprietà letteraria riservata
ISBN: 978-88-97966-25-8
Dedica
Ho scritto queste pagine, pensando a una Militello che vorrei rivedere.
Un luogo dove potevi incontrare un uomo come Giovanni Garufi, mio padre, che possedette un negozio di generi alimentari, riuscendo a fallire, perché se aveva voglia di leggere il suo giornale, leggeva e non dava conto ai clienti, o se voleva sognare ricchezze, coltivando la campagna, chiudeva tutto e con la sua bicicletta attrezzata come un camion portava in casa pomodori a forma di cuore, o le fragole che tanto piacevano a mia madre.
Quando si ritrovò pieno di debiti e in un ambiente di famelici usurai, senza pianti, senza strepiti, senza furberie, senza cercare raccomandazioni, aumentò i debiti, comprò un’ape e divenne venditore ambulante.
Da Noto, dove portò il magazzino, girava e vendeva varecchina in tutto il siracusano, annunciando con fatica la merce, perché si vergognava della volgarità.
Ma pagò fino all’ultima lira, non svendendo le sue idee politiche e mantenendo la schiena dritta.
In quello stesso luogo potevi incontrare pure chi in politica militava sul fronte opposto e della politica aveva fatto la sua vita.
Era l’on. Francesco Basso, per tutti Ciccio Basso, che conobbe le galere padronali, ai tempi dell’occupazione contadina delle terre.
Eletto nel parlamento siciliano, ne uscì più povero di quando ci entrò. Fece il sindaco in maniera gentile, pensando all’arte qualche volta e non soltanto agli appalti. Alla fine rimase solo e gli restarono intatti i sogni, l’intelligenza creativa degli antichi, il generoso amore per il confronto delle idee.
Erano due uomini che tra il 1943 e il 1945 si sarebbero sparati addosso, se si fossero incontrati sulle montagne del Nord. Era questo il loro modo di essere fratelli nella dignità. Come i campanilisti di Militello in eterna guerra, erano capaci di rompere un’amicizia, per una questione di principio. Esattamente al contrario di quella accomodante Sicilia degli amici, che piace tanto ai servi e alla mafia.
L’averli conosciuti è un buon motivo per sentirmi orgoglioso della mia terra.
Ricami fra le stelle
In verità, l’idea di scrivere dei racconti sulle feste patronali e le lotte politiche di Militello ce l’avevo in testa da tempo. Ma, mi decisi in una notte di dicembre, quando insegnavo a Cortemilia, provincia di Cuneo, parlando con un’amica della mia gioventù.
Volevo definire per lei la mia identità strapaesana, secondo gli insegnamenti degli scrittori delle Langhe – Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Nuto Revelli –, per me, a quei tempi, i maestri a cui guardare.
Non c’era – non c’è mai stata – antropologia nella mia testa, quindi. C’era soltanto letteratura, cioè ragione più sentimento, qualcosa di meglio della mera e pretenziosa ricerca scientifica dei cattedratici.
Letteratura a meno venti sotto zero, purtroppo. E non è un particolare da poco, perché, se lasci perdere la retorica e le frasi fatte, scopri che il cuore della Sicilia – ed, in particolare, dei paesi della Piana di Catania – lo puoi cogliere soltanto se parli dal freddo, cioè da lontano. Con questo, voglio dire che la Patria non indica la terra in cui si abita, ma è un modo di vivere d’accordo con sé stessi.
La migliore Sicilia è la proiezione mentale di chi ne sta lontano. E’ la Sicilia di Ibn Hamdis, il grande poeta siculo-arabo, la Sicilia di Verga e di Pirandello, la Sicilia che io stesso ho raccontato in Piemonte.
Quella notte la neve era una spessa crosta, opaca come un muro. Di fronte a casa mia, il fiume Bormida, nero di acido fenico, pareva il corvo di Edgar Allan Poe, mentre gracchia nevermore alla natura.
Nella cucina, sotto la luce del neon, c’eravamo io e lei… la mia bionda, alta, irresistibilmente nordica, amica.
“Fra poco sarà Natale” le dissi. “Domenica ti porto a Ginevra. Mi piacciono i suoi alberi addobbati lungo le strade.”
“Parlami del tuo paese, invece.”
“Militello?… E’ famoso perché c’è nato Pippo Baudo!”
“Soltanto?”
“Anche altri… I Majorana per esempio… il cantastorie Franco Tringale…”
“No, non è di questi che voglio sapere, ma della gente comune…”
Nel dirlo prese un’aria sognante. Da quando stavamo insieme non s’era persa un film dove si sentiva l’accento siciliano. Ella conosceva tutte le smorfie mafiose di Giancarlo Giannini ed io avevo appena ventiquattro anni e una gran voglia di far colpo.
Fuori, il paesaggio mi dava bianco su bianco (tranne la striscia nera del Bormida). Lì il freddo era immobile come la morte, non aveva il fragore dei nostri temporali. Era senz’anima e senza storia, quel freddo. Chissà perché, guardandolo, mi ricordava il nostro caldo, le nostre sieste, quando, madidi di sudore, ce ne stiamo chiusi nella cagnola – cioè, come i cani che si sdraiano a terra, stremati -.
Ecco, cominciai a dire alla mia amica, l’anima di Militello dorme sotto il peso del torpore estivo, nella silente penombra di una stanza piena di sogni erotici. A Militello siamo tutti dei velleitari. Aspiriamo all’Assoluto ed, aspettandolo, non facciamo nulla.
Però, ci misuriamo in grande, convinti che siamo i più bravi e che gli altri non fanno altro che congiurare contro di noi, per invidia o per interesse. Il che, forse, è vero. Ma, congiurando tutti contro tutti, ognuno non fa altro che combattere – in fin dei conti, da solo – contro tutti. Per questo, in città ci si conosce soltanto attraverso lo scontro e la sconfitta ce la portiamo nel DNA.
Siamo tanti secoli manzoniani, i militellesi, l’un contro l’altro armati. E non lasciamo fuori né Terra né Cielo. Se Gesù scese in Terra a dividere i figli dai padri, noi siamo saliti in Paradiso ed abbiamo diviso il figlio dalla madre. Così, con la benevolenza dei Santi, come gli eroi omerici, il nostro pulviscolo di guerrieri – un po’ massoni da una parte, un po’ spacconi dall’altra – si affronta annualmente nella Grande Guerra che spacca in due il paese.
Più del calcio, infatti, più della politica, ci appassiona la gara dei festeggiamenti tra mariani e nicolesi. E i nicolesi, da noi, mia cara e bionda amica, non sono mica per San Nicolò. Una volta sì, ma ora hanno ingaggiato direttamente il capo, il Divinissimo Salvatore.
Se, perciò, verrai qui, non troverai pii devoti, ma partigiani incazzosi, pronti a rompere un’amicizia – e, se necessario, anche una testa – per questioni di dottrina teologica.
Bisogna anche dire, però, che in questo molle tempo di edonismo piccolo-borghese non ci sono più i lager, i gulag e le bombe atomiche di una volta. L’armamentario guerriero, oggi, ha lasciato il posto alle droghe, al totalitarismo del privato, alla perdita dei valori cristiani… a tutto ciò, insomma, che possa renderci degli imbecilli.
Perciò, ormai, la guerra è esclusivamente sotterranea, appiccicosa, tradimentosa. Ormai ci si batte prevalentemente col gioco delle intelligence, con le amicizie partitiche, coi voti di scambio, con le spiate, con le calunnie, coi sabotaggi … il tutto per ottenere l’elemosina di un finanziamento, o almeno per godere del gusto perverso di farlo perdere all’avversario.
Resta, ovviamente, la parte più bella: la competizione, tutta concentrata sugli addobbi luminosi, sulle sguaiataggini sonore in piazza e, soprattutto, sui fuochi d’artificio!
La gara più affascinante è quest’ultima. A sentir parlare i capi delle due fazioni, par che ci voglia la cultura di Pico della Mirandola. Nei fuochi d’artificio l’egualitarismo è un non senso, su di essi si stabilisco gerarchie onnipotenti, anche se momentanee. Ecco perché io, che, come Luigi Tenco, non so far niente in un mondo che sa tutto, mi scoraggio di brutto, guardando i competenti fedeli col naso all’insù, mentre contano nel cielo ripetizioni, spaccate e napoletane.
Pare che anche le condizioni climatiche vadano messe in conto nel giudizio. Un rumore più o meno secco, rivelatore della qualità di una bomba, è oggetto di mille sottili discussioni, tali che farebbero impallidire i bizantini più pignoli. Tipi serissimi – di quelli che ridono soltanto quando si siedono a tavola o intascano soldi – saltano di gioia e battono le mani, come tifosi di calcio, o gli scimuniti nei comizi elettorali. Ogni botto è un goal ed un po’… anche una bella coltellata al cuore dei nemici!
Per questo, credo che sia sbagliato parlare di due Militello. Lo spirito di competizione è uno, in tutti i cittadini. Le bandiere sono diverse – bianco-rossa quella dei nicolesi, bianco-azzurra quella dei mariani -, ma il cuore è lo stesso. Vincere oggi, aspettando di rivincere domani.
Bombe è mortaretti sono le armi ideali. Il loro rumore fragoroso e provvisorio è lo specchio del nostro impegno. E’ un grido labile, che per un istante copre ed illumina l’intero universo… e subito si spegne e ci fa rivedere il buio più buio. E’ un ricamo fra le stelle, come ogni opera dell’uomo, di questo schiavo della sua intelligenza e della sua paura della morte.
***
Qualche burla di lampo col fracasso breve
dei fuochi non scalfisce il buio notturno.
I più non moriranno certo eroi:
sciolto un grido strozzato
– questo sembrano i fuochi –
in cima ad un’esistenza senza dramma,
li troncherà la morte sul traguardo
e tornerà il silenzio.
Amarti, forse. Sei grande e sulle spalle
tieni il peso del mondo!
La perfezione è nella vita. Cosa
importa il prima, il dopo?
Quando finii di recitare i versi da me scritti in altra occasione – ma, che spacciai come ispiratimi sul momento dalla bionda amica -, andai alla finestra.
La neve scintillava sotto le luci della strada. Da dietro l’angolo vidi spuntare i fari di un’auto, che presto passò, lasciando due scie di sporco.
Mi volsi verso la mia speranza nell’immediato.
“Charmant!” ella mi disse, pronta a regalarmi un altro straordinario ricordo.
La città bellicosa di Ludovico Fazio
Ancora oggi, fatta la tara di una sicilianissima scarsa propensione ai comportamenti teutonici, Militello appare una città spaccata in due, come se vi convivessero due etnie balcaniche.
Nei secoli passati era peggio.
Da un lato c’erano i parrocchiani della Chiesa del Santissimo Salvatore, riuniti attorno al primo potere della città, la famiglia dei Majorana Cocuzzella. Prevalentemente, si trattava di contadini, di popolani, di personale di servizio.
Dall’altro militava – ed il verbo non è casuale, data la sua vocazione rivoluzionaria – la setta del quartiere dell’Immacolata Concezione, in realtà della Madonna della Stella. Era composta, soprattutto, da artigiani, nuovi possidenti, professionisti. Le famiglie più in vista erano i Natale, i Reina, i Reforgiato.
Sulla locale guerra fra campanili lo storico secentesco Pietro Carrera aveva già scritto. Fino al 1500, egli narrava, l’unica parrocchia funzionante della città era la chiesa di San Nicolò. Santa Maria della Stella, invece, prima di quella data, era la cappella privata dei Barresi e dei Branciforte, cioè dei Signori della Terra di Militello.
Il titolo di parrocchia, perciò, le fu dato soltanto ai tempi di Blasco II Barresi e del nipote Giovan Battista Barresi. La conseguenza fu che si aprì una lotta per la preminenza, che portò a un’autentica guerra per bande.
Nel 1710, per superare la diatriba, che aveva già provocato l’esodo di più di cinquecento famiglie, si pensò di unire le due chiese in una collegiata. Se non che, quando le cose sembravano aver preso la giusta piega, su delazione del canonico don Giuseppe Malacrìa, la collegiata venne denunciata come illegittima.
Avvennero, poi, fatti davvero brutti, il più grave dei quali fu l’assalto all’arciprete di San Nicolò, don Paolo Sciacca, nel giorno del Corpus domini del 1781.
Di conseguenza, il viceré Caramanico non tardò a considerare la situazione militellese una sopravvivenza medievale da eliminare, per cui:
Informato il re dei continui scandalosi litigi tra le Chiese di San Nicolò e di Santa Maria la Stella di Militello Val di Noto, indipendenti tra loro, determinò con Reale Dispaccio del 28 luglio 1787 che le dette Chiese si sopprimano, e che delle due se ne formi una […], con sopprimersi ed estinguersi i titoli d’ambe le Chiese ora esistenti, per togliersi alla radice ogni fomento dell’antica divisione di Parrocchiani, dovendosi denominare la Chiesa del SS. Salvatore quella che sarà designata per Matrice ed unica Parrocchiale e l’altra la Chiesa dell’Immacolata Concezione che dovrà rimanere in qualità di Chiesa privata.
Va chiarito subito, ad onore dell’intelligenza dei lettori, che nell’intervento del viceré c’era qualcosa di più sostanzioso della determinazione di porre fine a una lotta per il patronato della città, fatto assolutamente diffuso e banale. L’occasione era perfetta, invece, per dare una mano alla massoneria locale, il cui capo, l’avvocato don Alfio Natale, qualche anno dopo raggiunse una certa notorietà, vincendo una causa che portava all’abolizione dei privilegi baronali.
Con la chiusura delle due parrocchie, insomma, si dispiegava l’attacco degli illuministi alle rendite parassitarie della Chiesa e la corona poteva tranquillamente incamerarsene i beni e metterli in vendita.
Purtroppo, lungi dal raffreddarlo, questa decisione surriscaldò il fronte di guerra, perché ci fu lo sgradevole particolare di scegliere la vecchia San Nicolò come chiesa principale, anche se ora intitolata al SS. Salvatore – scelta, in sé, razionalmente ineccepibile, dato che l’edificio era il più grande di Militello e si trovava in un quartiere centrale -.
Infatti, da quella soluzione scaturirono due risultati, ambedue pessimi. Il primo fu quello di cambiare i devoti di San Nicolò in devoti del SS. Salvatore – probabilmente, il loro interesse era più per l’edificio che per il suo Titolare -. Il secondo fu che i mariani diventarono ancor più mariani, pronti a ogni congiura eversiva. Nelle questioni religiose – soprattutto se ingigantite ad arte – non è detto che la razionalità sia la scelta migliore.
“Ci sono ragioni che la ragione non può capire…” disse ai posteri un ispirato Biagio Pascal. “Capisci a me!”
Da qui il fiorire di altri disordini e di vivaci libelli, che si leggono con divertimento, tanto che con divertimento, oggi, si può provare a scriverne.
***
Nella bellicosa città di Militello, esistente nella Valle di Noto, tra il Regno di Sicilia, siccome ritrovansi due Chiese Parrocchiali, così vi sono sempre state due fazioni: dei Nicolaisi, ovver dei Nicolani,, così chiamata da S. Nicolò di Bari, titolare della loro Chiesa Maggiore; dei Mariani nominata l’altra, così detta da Santa Maria, sotto il titolo della Stella, parimenti titolare della loro propria Chiesa Parrocchiale.
Ma, la prima di queste, perché amante di novità e non so qual nuovo prurito di disputare, da non molto gran tempo godette allontanarsi dalla vetustissima e mai interrotta tradizione, con la quale ha sempre fermamente tenuto Santa Maria, sotto titolo della Stella, di detta Città Unica e Principale Padrona. Ed, intorbidando l’antico possesso e la quiete della seconda, senza aver riguardo veruno a tradizione e ai Dottori, si ha persuaso, sol perché l’ha piaciuto, sostenere S. Nicolò il Grande di Militello Patrono Principale…
A questo punto della mia trascrizione, mi venne incontro l’ombra del Maestro, quell’Alessandro Manzoni che la becera supponenza contemporanea non legge più.
“Ma, quando avrai durato la fatica di copiare una tale accozzaglia di involute disquisizioni” mi disse l’Ombra, “ci sarà mai qualcuno che durerà la fatica di leggerla?”
“Si vede che non siete siciliano, maestro!” risposi, sicuro del fatto mio. “E, soprattutto, che non siete di Militello… Per noi, queste, sono cose importanti. A causa della Guerra dei Santi, come la chiamò Giovanni Verga, è successo di tutto, perfino sommosse popolari, persino coltellate! Il grande Leonardo Sciascia cominciò la sua carriera di scrittore con un libro dal titolo Feste religiose in Sicilia; un antropologo contemporaneo ci ha cucinato un saggio grosso come un grosso mattone, dove solo nella prefazione si viaggia a dieci citazioni a riga…”
“Un vero e proprio fuoco di sbarramento!” commentò l’Ombra. “Come per intimare al lettore di non andare avanti!”
“Non è finita, maestro!” continuai. “Nello Musumeci, l’unico politico popolare da queste parti, su questa diatriba ha prodotto conferenze e saggi storici. Per non parlare di Pippo Baudo, che si è sempre dimostrato mariano sfegatato…”
“La gente è davvero strana! Ma, in fondo, Dio ha inventato gli scrittori perché così va il mondo…” commentò l’Ombra.
Sorrise, assumendo quell’espressione inquietante, che la critica chiama ironia manzoniana e aggiunse:
“O, almeno, così andava a Militello nel Vallo di Catania!”
Dopo queste sue parole, capii che, visto l’interesse del contenuto, non era il caso di deporre lo scartafaccio – o, per meglio dire, il quaderno manoscritto – su cui mi affaticavo, anche se, già per il titolo, nonostante qualche aggiustata alla punteggiatura, una persona sana di mente mi avrebbe sconsigliato di insistere:
La Verità in Trionfo
Ovvero
Ragioni storiche con le quali si sostiene Santa Maria,
sotto il titolo della Stella, Unica e Singolare Padrona
della Città di Militello Valle di Noto.
Raccolta e disposta da un devoto nato a Militello e
battezzato nella Chiesa di San Nicolò, a 25 Settembre dello anno 1707, Padre Ludovico Fazio dell’ordina dei
Venerandi Padri Conventuali di S. Francesco d’Assisi.
Dedicato al Santo dei Miracoli e Miracolo dei Santi
S. Nicolò il Grande, Arcivescovo di Mira.
Beneficiale Sacerdote Giuseppe Ragusa Falcone da
Militello Valle di Catania copiò, addì 1 Novembre 1895.
Una vistosa e ripetuta variante ortografica attirò la mia attenzione. Fra’ Ludovico Fazio indicava la Madonna, non come Patrona, ma come Padrona di Militello.
Con questo titolo, pensai, Ella non era e non appariva una Presenza Celeste, verso cui provare devozione, e neppure una madre a cui rivolgersi; ma, diventava un feudatario qualsiasi, davanti a cui ci si inchina per avere in cambio protezione.
Esagerando, si poteva dire che l’imprudente canonico, come qualche volta accade al clero, travisava la Dottrina.
Per fortuna, Dio perdona quelli che non sanno quel che fanno… Vuoi che si metta a spaccare il capello in quattro per gente che non sa quel che scrive?
Però, il lapsus restava interessante, perché confermava un passo del libro di Leonardo Sciascia:
Ma una festa religiosa – che cosa è una festa religiosa in Sicilia?
Sarebbe facile rispondere che è tutto tranne che una festa religiosa […] E’, innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di “uomo solo”, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io (stiamo impiegando con approssimazione i termini della psicanalisi), per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città.
***
Realizzare un omaggio ad Alessandro Manzoni – e, perché no?… anche a Leonardo Sciascia -, fu questo, insomma, il motivo per cui lo scritto del Fazio mi parve bello lo stesso, tanto che il perderlo sarebbe stato un peccato.
Ad ogni buon conto, non c’era alcun dubbio che anche il grande don Lisander era arrivato ad una scelta simile, dopo un attimo di sbandamento per il periodare sgangherato del suo Anonimo.
Così, decisi di dare all’opera una lingua un po’ più urbana, senza pretendere di essere uno storico, ma con la superbia di recuperare almeno le intenzioni della migliore prosa italiana moderna.
Non essendo un professore universitario, ma un semplice narratore, me lo posso permettere. Gli scrittori – almeno quelli che non sono grigi burocrati della scrittura – non sopportano i canoni ope legis. In fondo, la loro intelligenza serve per scovare negli interstizi del particolare inediti scampoli dell’universale.
A proposito di particolare ed universale… Sarebbe ora di rileggere Benedetto Croce, anche perché, ultimamente, in quanto a preparazione degli operatori culturali, la quantità la vince sulla qualità. Nel sistema scolastico, nelle università, nelle sovrintendenze, nei conservatori, nei musei, nelle mille e mille commissioni culturali, urbanistiche, ricreative, paesaggistiche e vattelappesca che altro… meglio coprire pudicamente le vergogne.
Ovviamente, prima che gli amici nicolesi facciano giustamente cadere le loro ire su di me, dico subito che gli aggettivi forti espressi sono da attribuirsi solo e soltanto a Ludovico Fazio, uomo ferocemente mariano, anche se di lingua un po’ gesuitica.
D’altra parte, citazione per citazione, il prete settecentesco don Antonino Scirè, nicolese inossidabile, aveva anche lui scritto un libello sull’argomento.
Si intitolava La perfidia mariana.
***
Tutti sanno, attacca il Fazio, che un modo convincente di sostenere le proprie ragioni è quello di cercare autorevoli testimonianze a proprio favore… o, almeno, testimonianze antiche. Ciò vale, in particolar modo, nella pubblicistica sulla disputa che oppone mariani e nicolesi, dove a niuno è lecito discorrere di proprio capo.
Non mancherebbe, a questo punto, chi potrebbe obiettare:
“Dipende da che punto di vista si guardano le carte antiche. E poi, chi l’ha detto che l’antico sia veritiero solo perché è antico? Le bugie, come la morte, sono eterne!”
Le testimonianze antiche, infatti, di solito sono la voce di chi comandava. Se il Fazio, perciò, trovò i mandati di pagamento, dal 1601 al 1645, per la festa della Madonna della Stella a spese dell’Università (il municipio di allora), ciò potrebbe essere sì un omaggio alla fede popolare; ma, lo si può guardare pure come uno sforzo del potere per vivacizzare la vita di un popolo, che aveva molti motivi per essere furioso nei suoi riguardi. Il Seicento fu un secolo pieno di ribellioni popolari, come ci narrano le cronache siciliane.
Molto più interessanti, quindi, risultano le tecniche della festa, come da quei mandati ci arrivano. In due, specialmente, spediti l’otto settembre 12 indizione 1628:
Don Ioseppi Romano Depositario della Università di questa terra di Militello V. N: dati e pagati a Giuseppe Pitradilo di Palazzolo onza una tarì diciotto diciamo 1.18 quali si ci pagano per aviri andatu sulla corda corda, ed aviri vulatu a lu Campanaru di S. Maria della Stella, insinu allu Pianu, e questo disbrio è stato fatto per solennizzarsi detta Festa, acciò tanto lu populu di questa terra, quanto li Forasteri insieme solennizzare la Festa di la nostra Padrona, acciò anche aversi fatto altri fiati in ditta Festa.
Infatti, lo stesso Depositario in un altro mandato:
Dati e pagati a M.ro Vincenzo Baudanza onze dodeci diciamo 12, quali si pagano per accordio di farsi un Giuoco di fuoco con boni forgarelli ad affetto spararsi per questa festa di Santa Maria della Stella nostra Padrona, quale festa si celebra all’otto di Settembre misi presenti, d’accordio è solita farsi festa a spese di questa Università, come antica consuetudine a Padrona di questa terra di Militello V. N.
Altra, ancor più interessante, notizia sulla cura con cui il potere costruiva la festa, la si può desumere quando il nostro Ludovico Fazio, nel fervore delle sue innamorate e febbricitanti argomentazioni, si appoggia all’autorità dello storico Pietro Carrera:
Ma si permette pure (quello che mai si concede) che l’addotte ragioni siano d’autorità negativa, non so però come possono resistere senza piegare il Capo i Nicolaisi a quello che si cava da colui, quale con esattezza ci descrive le circostanze del fatto, per cui si conchiude con evidenza positiva Pietro Carrera, inclito rampollo di Militello […] dopo d’aver investigato da per se stesso tutte le memorie dell’antichità di sua patria, raccolte principalmente dalle antiche pubbliche scritture, come egli medesimo afferma che, tra le altre cose parlando della Chiesa di Santa Maria sotto titolo della Stella, le tramanda alla notizia dei posteri suoi concittadini ciò che siegue:
“La Chiesa di Santa Maria della Stella della quale ha preso il nome il quartiere situato nel basso fuor della terra è ricordata nel suddetto testamento che citiamo di Blasco primo fatto in Catania agli undici di Agosto dell’anno 1390, per quello egli lascia un legato alla suddetta Chiesa…”
La memoria è del semplice nome di Santa Maria, sicché allora forse non avea quel titolo che è oggi della Stella, e dopo una lunga descrizione della Chiesa siegue a dire:
“La festa è quella della Università, si celebra del Nascimento di Maria Vergine nostra Padrona a dì otto settembre, si conduce una devotissima statua della Madonna composta di stucco, dentro una grande e ricca bara, e questa si serba in un tabernacolo adorno di belle immagini dorato, vi si fa la fiera, e si corre il palio a spese del pubblico, e dal primo di settembre, insino ai quindici la fiera franca.”
Fiera franca, appunto, cioè senza i soliti pesi fiscali e burocratici, meglio di quel che accade oggi con le tante bruttissime sagre che involgariscono i nostri prodotti tipici.
In ogni caso, l’importanza di detassare i commerci nella fiera della festività mariana venne ribadita nella legislazione fiscale di don Carlo Maria Caraffa, Principe di Butera e Marchese di Militello:
Neanche si intende derogata l’antica consuetudine e libertà delli primi predetti giorni di settembre della fiera per la festività di nostra Signora Santa Maria della Stella Padrona di detta Città.
***
E’ ovvio che ci sono stati tempi in cui chiese e manifestazioni religiose erano cosa ben più importante di ciò che sono oggi. Il che non era, in sé, un fatto negativo. La mentalità e la vita di ognuno si strutturava al loro interno e, tutto sommato, c’era un controllo sociale – restando, ovviamente, la condanna per le guerre, le persecuzioni, le varie inquisizioni… cose che rimangono tutte nella individualistica e polverizzata società occidentale contemporanea-.
Lo stretto legame tra il culto della Madonna e la politica arrivò in Sicilia con Ruggiero il Normanno nell’XI secolo. Fu la sua alternativa ideologica agli arabi, ai bizantini, ai regni barbarici.
Se Militello, come è probabile, magari dopo aver massacrato gli abitanti della vicina città di Catalfaro, fu fondata proprio dai normanni – militum tellus, terra di soldati, può benissimo riferirsi a loro, dato che furono loro a reintrodurre il latino nell’isola -, è automatico pensare che l’otto settembre fosse la festa dell’aristocrazia guerriera e feudale.
Con l’eterno girare della ruota della storia, sotto la monarchia spagnola del XVI e XVII secolo, crebbe – in polemica verso un potere in agonia – la devozione per San Nicolò. Oltre ai popolani, ora c’erano i membri della burocrazia – gabelloti e funzionari, nuovi nobili, cioè la cosiddetta nobiltà di toga -.
La famiglia dei Majorana ne fu la principale esponente. Piuttosto elastica verso i valori morali e le leggi – come tutti, nel momento dell’ascesa al potere -, essa, anche facendo ricorso alla violenza e all’abigeato, tolse il feudo della Nicchiara ai legittimi titolari, la famiglia Russo, e per molti anni restò la vera padrona della città.
A contrastarla, questa volta a parti rovesciate, naturalmente accorsero i mariani – a cui si aggiunsero, prevalentemente, artigiani, liberi professionisti, possidenti -. La massoneria prima e la carboneria dopo, per loro, fu lo sbocco più naturale.
***
A saper leggere fra le righe, perciò, lo stesso Ludovico Fazio ci ha consegnato la giusta chiave interpretativa della lotta fra i campanili che ha dilaniato tanti paesi siciliani.
Egli, probabilmente, si riferiva al sottoproletariato ed ai nobili senza storia – todos caballeros aveva decretato l’iniziatore di quella rivoluzione sociale, Carlo V -, scrivendo:
Or sinora i Nicolaisi non mostrano altri storici coetanei o vicini al fatto contrarii a quello da me citato; anzi mostrar non possono neppure i susseguenti, alla riserva di puochi vagabondi (per non dir birbi) d’animo sedizioso, i quali di non molto gran tempo godettero d’allontanarsi dalla tradizione universale e costante, per più secoli custodita dai loro Maggiori, e l’hanno avanzato a seminare, non senza rossore, nel cieco ed ignorante Volgo novità zizaniose e non mai udite, e perciò non sono d’alcuna autorità, non essendo mai costume, neppure dalle genti più insulte, decidere le controversie per le testimonianze sospettissime di coloro i quali godettero suscitarle.
Non è vero, anzi falsissimo, che quello vocabulo di Padrona debbasi prendere in senso abusivo e non in senso proprio, rigoroso; è scritto soltanto perché nel registrare i mandati lo scriba servivasi del titolo or di Nostra Signora, or di nostra Avvocata, or di nostra Padrona, con ciò che sia cosa che, se per ogni variazione che nelle antiche scritture troviamo di circostanze, vorremmo negare la fede alla sostanza dei fatti narrati.
Per la verità, la vera sostanza riscontrabile in un’epoca disincantata come la contemporanea, qualsiasi cosa ne dica il Fazio, sarebbe che le feste in generale, a quei tempi, come oggi, erano e sono: 1) Funzionali al prestigio delle classi dominanti; 2) un’occasione di circolazione monetaria; 3) un modo per dare falsi bersagli all’aggressività dei dominati.
Paradossalmente, questo si è sempre saputo, dato che i nicolesi, alle argomentazioni del nostro polemista, opponevano un’osservazione piena di buon senso.
La Madonna, infatti:
Dall’anno 15 Indizione 1601 sino all’anno 3 indizione 1620 vien chiamata col titolo di nostra Signora, dall’anno suddetto 1620 sino all’anno 7 Indizione 1624 nella spedizione del mandato non si fa menzione del titolo di nostra Signora o di nostra Padrona, nell’anno 9 Indizione 1625 vien detta nostra Avvocata, la quale variazione di titoli segno è che se qualche volta si scorgesse il titolo di Padrona, questo vocabulo non debba pigliarsi in senso proprio e rigoroso, ma in senso abusivo; e soggiungono che il farsi la festa a spese della Università non è prova che la Gran Vergine Maria, sotto il titolo della Stella, sia l’Unica e Principal Padrona, altrimenti molti sarebbero i Principali Padroni, come molte erano in quei tempi le feste, che si solennizzavano a spese del Pubblico, come ad evidenza si vede nel registro dei mandati spediti a tal fine.
***
In conclusione, dietro il rumore dei fuochi di artificio, nelle feste patronali non c’è un’espressione di fede – e questo, alla fin fine, lo sanno tutti -. Esse sono, piuttosto, il vestito del potere – ed, in fondo, anche questo lo sanno tutti -.
Qualche volta c’è stata pure la pirandelliana lotta fra vecchi e giovani. Qualche altra volta, francamente, una lotta fra perdenti.
Don Alfio Natale e la massoneria
Le prime logge massoniche di cui si ha notizia risalgono al 1754. Esse operavano sotto l’autorità della Loggia di Marsiglia, anche se poi, nel 1760, ottennero una nuova Costituzione dalla Gran Loggia d’Olanda.
Appena sette anni dopo, la massoneria sbarcò nel Regno di Napoli, seguendo il rito inglese, finché non si deliberò di costituire nella capitale una Gran Loggia Nazionale dello Zelo.
Questa, a sua volta, costituì quattro nuove Logge: della Vittoria, dell’Uguaglianza, della Pace e dell’Amicizia. Confermò, inoltre, due Logge siciliane dipendenti, una a Messina e l’altra a Caltagirone. In seguito, nacquero anche le logge di Catania e di Gaeta.
Da subito, però, la storia della massoneria incontrò la diffidenza governativa, tanto che, il 10 ottobre 1775, fu emesso un editto contro le logge, che ne richiamava un precedente del 1751, ispirato dal primo ministro Bernardo Tanucci, dove si voleva
procedere come nei delitti di lesa Maestà, anche ex officio, e colla particolare delegazione e facoltà ordinaria e straordinaria “ad modum belli”.
Ma, siccome a quei tempi, tutto sommato, il Regno di Napoli era già psicologicamente italiano – cioè, col potere che tratta e traccheggia con chi in teoria dovrebbe rovesciarlo – la minaccia non ebbe seguito. I capi della massoneria erano collocati troppo in alto nella gerarchia di corte, arrivando alla stessa Regina Maria Carolina.
Infatti, alla guida della Gran Loggia Nazionale dello Zelo, ci stava proprio il principe di Caramanico, molto vicino alla sovrana.
Per i suoi intrighi di corte, quindi, la regina poteva contare sui massoni guidati dal Caramanico e dal Duca di Sandemetrio Pignatelli, mentre contro di lei erano nate altre Logge. Leggiamo, così, in un manifesto del 7 dicembre 1775:
Precisiamo ancora che in questa città si trovano anche due Logge irregolari, che non sono state da noi mai riconosciute. La ragione è d’una parte perché non sono state costituite in concordanza con i veri principi dell’Ordine, volendo essere governate da Superiori esteri, d’altra parte perché nel nostro paese sono atte piuttosto ad ostacolare i veri scopi, i loro membri essendo esclusivamente delle persone che consideriamo indegne di essere da noi accettate.
Oltre a queste due, vi è in quest’Oriente ancora una Loggia piccolissima e completamente degradata, sotto la guida del Principe di Ottajano, il quale, pur essendo stato iniziato da noi, in seguito si è lasciato trascinare dal falso orgoglio di voler essere alla guida di una Loggia.
Attraverso diversi maneggi egli ha carpito una Patente dal Duca di Lussemburgo, il quale alcun tempo fà era qui presente, quale Grand Administrateur Général delle Logge francesi.
Egli ha cominciato i suoi lavori irregolari con alcuni Francesi e Napoletani, e persiste tuttora, malgrado il fatto che il Duca di Lussemburgo stesso, dopo aver avuto conoscenza della vera natura delle circostanze, ha riconosciuto la nostra autorità, ritirando la Costituzione da lui concessa.
In conseguenza consideriamo la sua Associazione come una Loggia irregolare.
In un clima simile, per mettere nei guai i massoni vicini alla Regina, il 2 marzo 1776 si organizzò nella villetta Marselli di Capodimonte la finta iniziazione di un nobile polacco (in realtà un servo, al quale era stato promesso un compenso di 200 ducati).
Sul posto si ritrovarono dieci persone, due delle quali non massoni, sei massoni irregolari e due massoni regolari (il professore di matematica Felice Piccinini ed il grecista Pasquale Baffi).
Al cominciare dei travagli, la dimora fu circondata dalla sbirraglia, al grido di Viva il Re! ed i convenuti furono arrestati e portati nella Casa del Salvatore.
Veniva, poi, redatto un curioso conto delle spese dell’operazione, destinato al primo ministro Tanucci, datato 30 marzo 1776:
Per l’incarico comunicatomi da V. E. à voce, rapporto a’ Liberi Muratori, dalli 28. del mese di Gennaio à tutto li 2. Marzo cadente, giorno della sorpresa della Loggia sopra Capodimonte, si sono spesi Docati trecento cinquanta Sette, e grana 40.
E successivamente dalli 3. Marzo a tutto li 29. detto per mantenimento de’ soldati destinati alla custodia de’ Carcerati nella Casa del Salvatore, e per spese diverse, come di carboni, olio, maniglie di ferro alle stanze, funi, cati, ed altro, per mano di Carlantonio Vittoria Capitano della Giunta di Stato, come dalle note, si sono spese Docati Sessantasei e grana 92.
E per vito (sic) ai Carcerati, che sono al numero di nove, dal di 3. Marzo per tutto li 19. detto, si son pagati al Trattore Docati sessantadue e grana 89.
Nel processo contro gli arrestati il Principe di Caramanico e Diego Naselli – altro personaggio vicino alla Regina – usarono le loro amicizie per arrivare ad una sentenza mite.
La difesa, perciò, venne affidata al brillante avvocato Felice Lioy, della Gran Loggia Nazionale.
Grazie alla sua abilità dialettica, la causa prese una svolta sorprendente: l’accusatore, un certo Pallante (quello della sopra riportata nota delle spese) fu incriminato di messa in scena e, 1’11 marzo 1777, i prigionieri furono lasciati liberi.
Pallante cadde in disgrazia, ed il ministro Tanucci fu messo in pensione.
Lioy raccolse i frutti della sua bravura, scappando misteriosamente. Si recò, poi, a Vicenza, dove sposò la figlia del Gran Cerimoniere massone Francesco Modena.
Da parte sua, il gran maestro principe di Caramanico fece una formale abiura della massoneria, cosa per lo meno poco credibile, per uno che aveva avuto tale nomina a vita.
Infatti, nel 1791, mentre era viceré di Sicilia, il suo nome compariva nella lista dei sospetti, insieme a quello di due dei suoi figli.
In quegli anni, purtroppo per lui, la regina Maria Carolina era ormai diventata reazionaria e fisicamente vicina a un nemico di Caramanico, il mercenario inglese, ministro della guerra, lord Acton.
***
Lungi dall’essere un’unica collezione di fanatici incappucciati, la massoneria si presentò da subito come la frammentata – e, per sua stessa natura, rissosa – portatrice dell’ideologia individualistica del sorgente capitalismo. Venivano con essa scardinati i vecchi valori su cui si erano retti i vecchi regimi aristocratico-assolutistici.
La storia della massoneria, in altre parole, è storia di adoratori del successo personale, molto tolleranti dal punto di vista morale e cinici quanto basta per cercare nei rivolgimenti sociali soltanto il guadagno. Al centro come in periferia.
Una parabola esemplare, in questo senso, fu la carriera di don Alfio Natale di Militello, abitante nel quartiere dell’Immacolata Concezione, o di Santa Maria della Stella (come popolarmente si chiamava).
Egli, indiscusso capo della massoneria locale ed efficace braccio armato del riformismo di Caramanico, rimase orfano di padre a tre anni e perciò su di lui ebbe un’influenza notevole l’energico esempio della madre, donna Giuseppa Di Castro.
Grazie al vivo ingegno, però, ben presto lasciò il paese, per andare a fare i primi studi nel seminario vescovile di Catania, scuola su cui allora si rifletteva il prestigio del vescovo, mons. Salvatore Ventimiglia.
Già in quei primi anni evidenziò la tendenza ad analizzare nella loro specificità i problemi, caratteristica che poi trasmise al più famoso figlio, Vincenzo, che fu straordinario storico e spregiudicato politico.
Si iscrisse, in seguito, il nostro Alfio, alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Catania, laureandosi a diciotto anni. Da qui si trasferì a Palermo, per approfondire la sua preparazione ed esercitare la professione di avvocato.
Passati appena due anni dal suo arrivo nella capitale del Regno di Sicilia – allora diviso dal Regno di Napoli, anche se sotto la stessa corona -, ricevette una lettera dalla madre.
“Lascia tutto e torna a Militello” ordinava donna Giuseppa.
Non era personaggio a cui si potessero chiedere ulteriori spiegazioni, né tanto meno disobbedire. Alfio, perciò, partì.
“I Majorana hanno messo gli occhi sul nostro patrimonio” gli disse la madre, quando fu giunto a casa. “Vogliono farci fare la fine di Russo, quando gli rubarono anche la pelle di dosso!”
Per accoglierlo, lei gli aveva preparato il suo pranzo preferito, pasta con la mollica ed i finocchi selvatici. Gliela servì fumante e strabordante dal piatto. Mise, quindi, al centro della tavola una zuppiera piena di altra pasta e si sedette, servendosene un paio di forchettate appena. Aveva un gran sorriso compiaciuto, vedendogli la gioia negli occhi.
Gli porse la ciotola col pecorino. “Non mettercene troppo, se no sa solo di formaggio!”
Alfio eseguì l’operazione secondo le indicazioni materne, mischiò il tutto ed addentò la prima forchettata.
“E che fanno di tanto terribile?” chiese.
“Fanno i ladri, come sempre! Con le loro mandrie, vanno pigliandosi i confini della nostra terra, a pezzetti e a bocconi. Pensano che con me sia facile, povera donna come sono.”
“Credo che a Militello, una sciocchezza del genere, non la pensi nessuno.”
“Peccato che quello che credi tu non lo credono i Majorana. Sei avvocato, o no?… Perciò, resta qui e difendi i tuoi interessi!”
Il tono non ammetteva repliche.
Alfio Natale si versò nel bicchiere il vino aspro dei loro vigneti in contrada Santa Barbara e bevve, con tutto l’orgoglio del padrone.
Nacque così la guerra che avrebbe spaccato il paese per due secoli: da un lato il potere storico dei Majorana Cocuzzella – legato all’antica oligarchia dei funzionari e dei gabelloti – e dall’altro il potere eversivo dei professionisti – legato alle nuove dinamiche sociali -.
Opposti in tutto, i due, avevano in comune l’idea che la ricchezza – la felicità – viene dalla quantità di terra che si possiede.
***
Gli impegni familiari di don Alfio Natale, oltre a salvargli il patrimonio, lo impegnarono ad ingrandirlo per mezzo di una carriera prestigiosa.
Fece parte della magistratura ad appena ventuno anni, prima dell’età richiesta. Gli furono viatico le simpatie del viceré di Sicilia, il gran maestro della massoneria Francesco Maria d’Aquino, principe di Caramanico, che al suo arrivo in Sicilia aveva trovato una situazione, a dir poco, turbolenta.
Il nostro giovane, infatti, fu iniziato nella loggia dell’ardore di Catania nel 1779, quando la Gran Loggia Nazionale di Napoli era guidata da Diego Naselli e aderiva al rito dei riformati di Lione.
Dopo avere incorporato la loggia degli intraprendenti di Caltagirone, quella di Catania contava diciotto membri. Altre logge in Sicilia erano quella della Vittoria di Trapani (quindici membri), quella della Concordia di Palermo (ventisei membri) e quella de’ Costanti o della Riconciliazione di Messina (quindici membri).
Inoltre, per fortuna dei giovani professionisti, l’isola era ormai pronta alle riforme, grazie all’opera del predecessore di Caramanico, il viceré Domenico Caracciolo. Di ciò, lo stesso Natale – ormai diventato abilissimo nei maneggi e più influente di quanto si credeva – era perfettamente consapevole.
“Non è un mistero…” disse, infatti, a suo figlio Vincenzo, quando si decise di iniziarlo. “il vero motivo della venuta del Caracciolo, che non aveva alcuna voglia di lasciare Parigi.”
“Volevano sbarrare la strada al Caramanico?” si azzardò a chiedere Vincenzo.
Il colloquio avveniva nella biblioteca di casa, per cui, per tutta risposta, don Alfio trasse fuori dallo scaffale un volume. Era un Seneca. Vincenzo lo riconobbe dalla rilegatura in marocchino rosso con le scritte dorate.
“Pensa…” continuò don Alfio. “Le resistenze furono tali che Caracciolo si decise a lasciare Parigi un anno dopo la sua nomina. Giunse a Napoli soltanto nel giugno dell’ottantuno, proprio mentre nascevi tu, sbarcando a Palermo in ottobre.”
Trasse fuori dal libro una serie di fogli, alcuni dei quali ingialliti dal tempo. “Senti come si esprimeva col mio amico Ferdinando Galliano. Sono parole ch’egli mi ha trascritto, per permettermi di portare a termine una Storia delle riforme in Sicilia…”
Si aggiustò i fogli sotto gli occhi e cominciò a leggere:
Eccomi, caro amico, relegato sur des arides bords de la sauvage Sicilie, e sono occupato “toto marte” a procurare il bene pubblico. Ma incontro difficoltà grandi e des entraves ad ogni passo, forse le più forti derivano da un vizio di governo.
Posò i fogli sul tavolo. “Il vizio di governo, figlio mio! Capisci perché è nata la massoneria? Bisogna superare il vizio di governo, mettendo finalmente al posto giusto gli uomini giusti. Da principe dei lumi qual era, Caracciolo si diede subito da fare per abbattere gli antichi simboli della superstizione, a partire dal tribunale della inquisizione. Così, meno di un anno dopo poté comunicare le sue novità a D’Alembert, come, ancora, l’amico Galliano ha trascritto dal Mercure de France…”
Riprese in mano i fogli e uno lo mise in cima agli altri:
Je me riserve à la fin, pour la bonne bouche, de vous dire, avec un peu de vanité de ma part, l’abolition de l’Inquisition: le jour 27 du mois de mars, mercedi saint, jour mémorable à jamais dans ce pays, pour le roi Ferdinando IV, on a abattu ce terrible monstres.
Si avvicinò al figlio, solennemente. “E così, finalmente, passò al denunciato vizio di governo. Mise mano allo smantellamento del regime feudale. Cercò, in pratica, di levare quanta più terra poteva al clero ed al baronaggio… ed oggi, per favorire l’agricoltura di Militello, tanto per citare qualcosa che ci riguarda da vicino, cosa ci sarebbe di meglio del mettere a disposizione dei possidenti e dei massari nuove terre da coltivare?”
“Le terre delle nostre parrocchie di Santa Maria della Stella e di San Nicolò…” convenne Vincenzo, “sono tutte coltivate male…”
“I preti la voltano in bisticci su Patroni e privilegi… fomentano la guerra tra famiglie per tenersi strette le rendite… mentre il solo feudo di Francello basterebbe a farci contare fra i primari possidenti dell’isola.”
“Temo che sarà un’impresa delicata… difficile… rognosa…”
“La si affronta con la politica, figliuolo! La politica è nata per questo!… Purtroppo, Caracciolo poté avvalersi soltanto di collaboratori napoletani. Ora è venuto il momento dei siciliani, col principe di Caramanico.”
***
Il nuovo clima, fra l’altro, favorì l’ascesa a Palermo di un altro militellese, Giuseppe Tineo, figlio di un dottore in legge e con una lunga sequela di zii preti, piuttosto reputati per la loro dottrina.
In quegli anni si pensava di far nascere istituzioni di pubblica utilità: il Camposanto, l’osservatorio, le scuole normali, l’orto botanico. Perciò, Tineo, oltre a diventare cattedratico all’università, fu il primo direttore dell’Orto Botanico.
Ovviamente, il prestigio gli derivò da quest’ultima incombenza. Essa era davvero importante, se si considera che, per metterlo in condizione di svolgerla, Caramanico lo mandò nelle scuole di Pavia, a spese pubbliche.
Poi, siccome il buon sangue massone non mente, da vecchio egli lascerà l’incarico in famiglia. Lo passerà, cioè, al figlio Vincenzo, che a sua volta adotterà come figlio il figlio del custode dell’orto – per le malelingue suo figlio naturale -, personaggio che diventerà un architetto di fama nazionale, Giambattista Filippo Basile. Da Giambattista, poi, nascerà un indiscusso maestro del liberty, Ernesto Basile.
In verità, il lavoro sostanzioso nella creazione dell’orto botanico lo svolse un padre Bernardino, fraticello di Ucria, nominato professore in sostituzione di Tineo, mentre questi soggiornava a Pavia.
Fu il religioso ad elaborare un’accurata catalogazione di tutte le piante, secondo il sistema del Linneo. Tineo ebbe soprattutto la sfrontatezza di copiarla, senza neppure citare la fonte a cui aveva attinto.
Tanta arroganza gli veniva dalla copertura della massoneria palermitana, nella quale era stato introdotto da don Euticchio Barone. Ciò lo aveva reso ben visto ai componenti della Deputazione degli Studi e principalmente al principe di Caramanico.
Il giorno dell’inaugurazione del nuovo orto botanico, perciò, nonostante l’inverno precoce (si era appena al 9 dicembre), tutta Palermo si riversò dalle parti di Porta Castrofilippo e di Porta Reale.
Era un variopinto via vai di persone vestite a festa e di vetture di gala. Tutti convergevano sulla spianata dove sorgeva l’edificio centrale dell’Orto. I soldati facevano fatica a mantenere libere le vie di accesso.
“E’ uno spettacolo nuovo in questi luoghi solitari” disse il principe di Caramanico alla buona amica che gli sedeva accanto nella carrozza, la baronessa Matilde Carrano di Sorrento.
“La moltitudine di curiosi si ingrossa sempre più” osservò la donna.
Guardò negli occhi il principe, nascondendo male dietro il fazzoletto profumato un sorriso di complice ammirazione. “E’ la sua vittoria finale, caro principe.”
“Già! La piazza è diventata uno scintillio d’armi, di bottoni, di mazze dorate, di decorazioni… un brulicare di teste incipriate e imparruccate, di abiti, di toghe, di pastrani, di uniformi.”
Mentre il principe dispensava saluti e inchini a destra ed a manca, dietro avanzavano i cocchi del Senato palermitano e dell’Arcivescovo Lopez. Seguivano le vetture dei nobili, dei prelati e degli alti dignitari. Tra la folla, molti erano professori, dottori, speziali.
Il corteo si fermò dinanzi al grande scalone del ginnasio dell’Orto botanico. Un’immensa tela copriva la facciata… tutti gli sguardi vi erano rivolti.
Ci fu un suono di tamburi e la tela cadde. Scrosciò un applauso all’apparire di uno sventolio di fazzoletti e di cappelli.
“Viva il Re!” si gridò. “Viva Palermo!”
L’arcivescovo Lopez benedisse gli edifici e la folla si sparse per le sale e per i viali.
Si ammirarono le piante più rare, con sul volto un’espressione di orgoglio per quel nuovo prestigio che veniva alla città.
In mezzo a tanta gente, non cercato da nessuno, c’era padre Bernardino, a vedere come il frutto del suo impegno veniva colto da altri.
Poche settimane dopo, il frate morì di crepacuore.
***
L’alleanza tra Giuseppe Tineo e don Alfio Natale avvenne proprio un 8 settembre, festa della Madonna della Stella.
Tineo aveva approfittato del viaggio per assaggiare qualche buon grappolo d’uva e, soprattutto, i rinomati fichi di Francello. Anzi, l’ultima sera in cui cenò nella casa dei Natale, il famoso botanico quasi non mangiò altro.
“Mio caro amico” disse Tineo, “l’oscurantismo della guerra tra due parrocchie non può appartenere alla civilissima Epoca del Lumi verso la quale andiamo… Parlerò col Caramanico!… I disordini accaduti a Militello, nati da barbare superstioni, sono imperdonabili e troppi!… L’ideale sarebbe istituire un unico culto per un unico Dio Salvatore… e dare a galantuomini come voi le tante terre che le parrocchie non sanno far fruttare… I Santi devono fare solo il loro mestiere di Santi, senza procurare eredità ai preti e, soprattutto, senza impedire il progresso!”
“Anche il nostro Divin Salvatore ci ha dotati di ragione, creandoci a sua immagine e somiglianza!”
“Ci sono tanti libri nuovi, che promettono di cambiare le teste ed i cuori!” continuò Tineo. “Oggi la scienza è culo e camicia con la politica. A patto, ovviamente, che non si faccia madre di inganni e di violenze, come è accaduto in Francia.”
“Anche a Catania” confermò don Alfio, “non mancano gli scrittori impegnati nel combattere l’irragionevolezza, senza pensare a tagliare teste. Avete mai avuto notizia delle utili e piacevoli invenzioni del canonico Martino Zappalà?”
“Io non dovrei saperne nulla. Lei forse sì” disse Tineo, con un sorriso malizioso.
“Diciamo, allora, che io so che lei non dovrebbe sapere.”
“E’ un bell’omaggio a Socrate, il suo.”
“Piuttosto, invece, è un omaggio al valoroso avvocato Lioy…”
“Ah, il difensore dei frammassoni di Napoli?”
“Degli ingiustamente accusati galantuomini napoletani. Non suona meglio così?”
“Direi di sì.”
“Il cavalier Lioy ha dato incarico a don Zappalà di formare un modello di filanda economica, compito ch’egli ha eseguito felicemente. Esso consiste in un tavolino bilatere, a cui siedono quattro donne che somministrano, o il canape, o il lino, o il cotone. La macchina, poi, coll’aiuto di pochissima acqua, fila da sé, avvolge, passa i fili nelle matasse e numera le legature in centinaia o migliaia. Poi, l’acqua stessa cadendo in basso involge il filo delle matasse. Un’oncia d’acqua alta due palmi, può fare agire quattro di queste macchinette e dar lavoro a sedici donne.”
“I nobili letterati, però, certamente non son da meno degli inventori di macchinari” commentò Tineo. “Quel Lioy comincia a darmi qualche perplessità… E’ diventato un po’ troppo… imprenditore. Ma certamente forse questo non è neppure un male! Sbaglio di sicuro, ma a Catania i miei elogi vanno al cavaliere gerolosimitano Giuseppe Gioeni de’ duchi di Angiò, professore di storia naturale all’università. Si è applicato e si applica giornalmente a scoprire tutte le vulcaniche produzioni dei monti del Regno. Perciò, mi sa che riuscirà a regalare ai posteri un museo ricco e singolare.”
“Lo conosco bene anch’io” disse Natale. “Nella mia biblioteca, con dedica di suo pugno, c’è la relazione di una nuova pioggia vulcanica dell’Etna, che mi mandò nel 1781, con gli auguri per la nascita di mio figlio Vincenzo. Però, mi permetto di aggiungere, pronta per la sua ammirazione, anche la figura del signor abate catanese Francesco Ferrara, professore primario di fisica nell’università, che ha stampato un’opera intitolata Campi Fleghei della Sicilia, e delle isole, che le sono intorno.”
“Che epoca splendida, la nostra, per chi odia la superstizione!” esclamò Tineo.
“Sia nella scienza, che nella politica” disse, finalmente, Natale. “Legga Ragionamento sopra la tortura di Vincenzo Malerba. Il sistema di potere feudale viene messo in discussione e minato dalle fondamenta. Emendare il codice penale è il primo passo per condurre il suddito verso l’affrancamento dal dispotismo.”
***
Alfio Natale ricoprì le cariche di capitano giustiziere e di giudice civile, criminale e fiscale. Finì, ancora, per fare parte di tutte le deputazioni amministrative e fu giudice consultore a Scordia.
Ma, la fratellanza massonica fu addirittura determinante per la sua più prestigiosa vittoria come avvocato.
Si trattò della controversia che oppose il barone Alfio Corbino al principe di Butera e marchese di Militello, don Salvatore Branciforti e Pignatelli.
Come si sa, nella Sicilia feudale v’era una lunga serie di angarie e di privative (di fatto, monopoli baronali), che soffocava ogni libera imprenditoria. Si ricordano, per esempio, la gabella della dogana, accompagnata dalla privativa di aggiustare pesi e misure (catapanato); la stadera sulla vendita dei formaggi e delle carni, che gravava, sia sugli allevamenti in città, sia su quelli fuori dalle mura; la linusa sull’olio di lino con l’unita privativa di estrarlo privatamente (parallela alla gabella dell’oliveto e relativa privativa sui trappeti); la aratati, ch’era un’imposta sulle giornate d’aratro; la bardaria, una privativa sulle bardature degli animali; la baglia, che regolava i diritti sull’attività dei ministri e delle forze di pubblica giustizia; La quartarunata, infine, era l’imposizione di sei tomoli di frumento e due di orzo per ogni bue, od altro animale, che arava dentro, o fuori, il territorio.
Sulla quartarunata, appunto, scoppiò la lite tra il barone Corbino ed il principe di Butera. Secondo il secentesco codice del principe Branciforti, infatti, i primari cittadini ne andavano esenti. Perciò, il barone si affidò ad Alfio Natale, per opporsi al pignoramento ordinato dal segretario (allora chiamato segreto) del principe.
Don Alfio non era tipo da pensare che una causa tanto importante si potesse vincere soltanto nel foro. Andò, perciò, a chiedere i giusti consigli al massone Giannagostino De Cosmi, uomo attorno a cui si raccoglievano le figure dominanti del giacobinismo e del democraticismo catanese.
Per don Alfio, inoltre, quell’uomo era colui che aveva condiviso e pubblicamente difeso la politica anti-feudale del viceré Domenico Caracciolo.
“Troppe carte stanno inesplorate negli archivi” gli disse De Cosmi. “Caro Natale, lei è giovane ed ha il dovere di non dare le cose per scontate.”
“Nel nostro caso basterebbe il codice Branciforte e la consuetudine, professore. Il principe di Butera è nel torto, anche limitandoci alle leggi conosciute.”
“Il mondo che sogniamo non si accontenta di applicare le leggi che ci sono; ma, pretende di capirle, per magari cambiarle. Esercita la ragione per spiegarne l’origine ed i motivi che le hanno determinate. Soprattutto, si studia di vedere se quei motivi valgono ancora ai giorni nostri. Ascolti il mio consiglio, Natale. Non limiti la sua indagine alla quartarunata. Veda di rimettere in discussione il principio stesso dei privilegi feudali, svelandone i moventi di rapina.”
“Come farò, da solo, a svolgere la mole di lavoro che lei mi chiede?”
“Non ho detto che debba fare tutto da solo. Ho l’impressione che questa causa risulterà molto più importante di quanto lei stesso non crede. Conosce Emanuele Rossi?”
“Certamente. E’ il più valoroso avvocato del foro di Catania.”
“E’ una testa calda. Pronto a prendere fuoco come la paglia, con tutte quelle idee di rivoluzione che gli frullano dentro. Ma, il cervello ce l’ha fino. Col suo, il migliore che c’è in questa parte della Sicilia. Se lo metta al fianco, amico mio. Magari si cercherà anche un altro giovane giurista. In mente ho già diversi nomi. Insieme potrete portare alla luce quanto basta per vincere, non soltanto il principe di Butera, ma l’intero baronaggio, che è quello che tutti noi speriamo.”
Su consiglio del De Cosmi, quindi, Alfio Natale si unì all’avvocato e politico populista Emanuele Rossi di Catania ed all’avvocato Antonio Ciraulo di Patti. Tutt’e tre fecero accurate ricerche d’archivio ed il risultato fu una sentenza del 1795, favorevole al barone Corbino.
In essa, per di più, venne anticipata l’idea dell’abolizione della giurisdizione feudale in Sicilia – che, poi, avvenne nel 1812, segretario del Parlamento Siciliano: l’avvocato Vincenzo Natale, figlio di Alfio -.
***
Pochi giorni dopo la sentenza sfavorevole, il principe di Butera convocò Alfio Natale nel suo palazzo vicino al Duomo di Catania.
“So che ama i libri” gli disse, andandogli incontro sul portone d’entrata, segno di particolare rispetto. “Ha curiosità di vederne qualcuno dei miei?”
“Ne avrei enorme piacere” rispose don Alfio.
Attraversarono il cortile pavimentato con nera pietra lavica e bianca pietra calcarea, disposte a formare decorazioni geometriche. Salirono quindi al primo piano, camminarono per il portico che si affacciava sul cortile ed entrarono nel salone della biblioteca.
Poggiato sul tavolo, c’era una pregiata edizione di Diodoro siculo, che attirò molti sguardi ammirati di don Alfio.
“Vedo che ha interesse per la nostra storia antica” disse il principe. “Ho pure la trascrizione di un codice arabo. Ha mai sentito parlare delle imprese di Gohar Al-Sichilli?”
“La mia cultura non è pari alla mia passione e resta mediocre. Anche se qualcosa ho sentito dire di questo condottiero islamico.”
“Anch’io coltivo soprattutto interessi scientifici” disse il principe, prelevando un manoscritto da un cassetto dello scaffale. “Ma, mi affascina un uomo, che nel 970 era caid, cioè capo supremo dell’armata araba ed aggiungeva orgogliosamente al suo nome l’appellativo al-sichilli, il siciliano. Sapeva che è stato lui a fondare Il Cairo?”
“Mi pare che la parola Al-Caihira voglia dire La Vittoriosa.”
Il principe di Butera fece un gesto che poteva sembrare di impazienza.
“Per me, purtroppo” disse, “in questo manoscritto ci sono soltanto pagine mute. Non conosco l’arabo.”
“Però lo ama ugualmente, a quanto pare.”
“Diciamo che ne amo le verità nascoste.”
Posò sul tavolo il manoscritto e prese un foglio già scritto che stava sopra la scrivania. Lo firmò e lo porse a don Alfio.
“L’ho nominata mio segreto a Militello” disse. “Delle sue capacità, ahimè, ho avuto modo di rendermene conto di persona. Della sua discrezione, mi ha detto un gran bene il mio amico principe di Castelnuovo, che ha saputo convincermi della bontà delle idee del Caramanico.”
Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, apparteneva alla massoneria palermitana ed era molto legato a Giannagostino De Cosmi.
Don Alfio, perciò, fece due più due e colse il messaggio del principe. Quella non era un’offerta di lavoro, era un preciso ordine di De Cosmi.
“Non posso che giurarvi l’eterna fedeltà che meritate, per voi e per le vostre amicizie” disse, quindi, accettando la nomina.
“Prendete pure il manoscritto” gli sorrise il principe. “Le verità nascoste vanno prima o poi disvelate… da mani elette, naturalmente.”
“Neanch’io conosco l’arabo.”
“Potete sempre impararlo.”
A don Alfio non rimase altro che inchinarsi e ringraziare del dono.
“Ormai, il tempo appartiene a voi” disse il principe, mentre lo accompagnava all’uscita. “Spero che sappiate fare meglio di noi.”
Quando don Alfio fu sulla porta, come ricordandosi di una cosa di poca importanza, il principe aggiunse:
“Ah, per quel vergognoso scanna scanna fra parrocchiani che c’è a Militello… Il viceré è determinato a trattare l’affare con la massima severità… Ma, si dovrebbe fare il frazionamento delle terre espropriate… Voi che ne dite?”
“Il principe di Caramanico è persona troppo illuminata, per poter avere, io, un pensiero diverso dal suo…” rispose asciutto don Alfio.
Ducezio e Napoleone
Nel 1802, dopo che la Repubblica partenopea fu sconfitta dalle bande del cardinale Ruffo, i sovrani tornarono a Napoli. Cosa grave perché, ad ulteriore scorno dei mariani di Militello, che da tempo brigavano coi vari ministri per ottenere la riapertura della loro chiesa, Ferdinando di Borbone non mantenne la promessa di tenere una corte stabile a Palermo, motivo per il quale aveva persino ottenuto un donativo di centocinquantamila onze.
Quello stesso anno, alla morte del padre, Carlo Cottone – futuro capo del governo nel Regno di Sicilia e protettore della famiglia militellese dei Natale, longa manus della massoneria nel catanese -, entrato a far parte del braccio baronale del parlamento siciliano, sposò Giuseppina Bonanno dei Duchi di Castellana e intraprese un lungo viaggio all’estero.
Fu così che nel 1805 in un ricevimento Cottone conobbe di persona Napoleone Bonaparte – si scrisse a Roma, ma l’incontro fu a Parigi, dato che l’imperatore a Roma non venne mai -.
“La vostra Sicilia” gli disse questi in italiano, dopo le presentazioni, “ha dato i natali al magnifico Ducezio. Ora, però, le sue ossa, je pense… non sanno più se piangere o ridere, vedendo la sua patria governata da un re lazzarone,”
Non era stata una gran cortesia, quella di insultare un Sovrano. Ma, Napoleone, come tutti gli uomini nuovi, si compiaceva di mostrare una certa brutalità. E, poi, il grand’uomo aveva il sogno di diventare il legittimo padrone dell’Europa con due capitali, Parigi e Roma. Era naturale, quindi, considerare i Borboni un ostacolo sulla sua strada.
“Sono contento che l’eccellenza vostra ammiri il condottiero della Sunteleia sicula” rispose Cottone, trascurando abilmente gli apprezzamenti su Ferdinando.
“Diodoro di Siciliaè uno scrittore magnifico!” sancì Bonaparte.
Guardò poi, uno per uno, quelli che gli facevano contorno e tornò a rivolgersi a Cottone, questa volta con un sorriso affabile.
“Dicono che siete uno studioso di questo ammirevole generale” disse.
“Più che altro, mi onoro dell’amicizia con un bravo scrittore, suo conterraneo…”
“Ah!” fece Bonaparte, già in guardia.
“Egli” continuò Cottone, “promette di andare oltre le conoscenze dateci da Diodoro… Porta avanti, infatti, l’idea di dare una nuova centralità, questa volta cattolica, a una chiesetta sorta dalle rovine dell’antico tempio fondato da Ducezio, a Paliké.”
“I soliti piccoli orgogli municipali, credo!”
“Un po’ sì… Ma, nel mio amico c’è pure la volontà di cercare un riscatto dalla tirannide feudale, ritrovando i simboli di un grande passato, quando la Sicilia era il cuore dei commerci nel Mediterraneo.”
“Dove si troverebbe questo posto sacro?”
“Poco più a sud di Catania, a Militello… Si tratta dell’antica chiesa di Santa Maria della Stella, che fu quasi distrutta da un terribile terremoto nel 1693… Il mio amico si chiama Alfio Natale. Se l’eccellenza vostra lo desidera, posso scrivergli per farvi arrivare una dettagliata relazione.”
“Ducezio…” disse Bonaparte, seguendo soltanto il filo dei suoi pensieri, evidentemente poco interessato alla relazione. “Se fosse vivo, combatterebbe per la rivoluzione! Anche gli antichi tiranni di Siracusa, come gli aristocratici francesi, avevano, diremmo noi… oublié le peuple!”
Quelli del contorno approvarono convintissimi; anche se nessuno di loro aveva mai sentito parlare prima, né di Ducezio, né di Tiranni siracusani, né di siculi.
“Capisco” disse Cottone, “che l’eccellenza vostra è troppo bene informata e troppo fine stratega… Ma, secondo il mio amico, Ducezio ebbe qualità che non furono soltanto militari.”
Bonaparte lo guardò, un po’ dall’alto in basso.
“E’ un consiglio?” chiese.
“Non ho né i titoli né le competenze… Mi anima soltanto una grande passione per la storia.”
“Vedo che siete un ottimo diplomatico” sorrise Bonaparte. “Ditemi perciò il punto di vista di tanto straordinario autore.”
“Ducezio era un politico, prima di essere un condottiero… O, meglio, in qualche modo vi somiglia… Come voi, egli fu un grande condottiero nella misura in cui seppe essere un politico scaltro.”
“Spero che sia un tentativo di adularmi” sorrise ancora Napoleone, con un po’ di compiacenza. Non aveva il pregio della modestia.
“Se non tradirete voi stesso, certamente è una lusinga… al contrario sarebbe un’occasione perduta” disse Cottone, questa volta fieramente. “Come voi nella vostra Corsica, Ducezio nacque lontano dal potere costituito. La nativa Menai allora era abitata soltanto da siculi poveri, sottomessi ai greci. Ma, Ducezio fu capace di raccogliere intorno a sé tutti quei disperati, diventando il campione del loro riscatto nazionale. Per realizzare i suoi scopi, quattro secoli e mezzo prima che nascesse Cristo, capì l’importanza dei valori religiosi. Trovò, infatti, un motivo di unità nel culto di due deità sicule, i Palici. Pose il Tempio dove vi ho detto e lo elevò al rango di Santuario, abbellendolo del témenos. Accanto vi costruì una città fortificata. Da quel momento nacque una formidabile macchina da guerra, la Sunteleia, cioè la sacra alleanza dei siculi.”
“Un Machiavelli ante-litteram, a quanto pare!” ironizzò Napoleone.
Cottone non fece alcun commento e Napoleone ritenne di passare ad altri argomenti, con altre persone.
Parve ricordarsi di Cottone soltanto più di un’ora dopo, osservandolo da lontano.
“Merde sicilienne…” disse piano a chi gli stava accanto. “Questa gente la massoneria ce l’ha nel sangue!”
Subito dopo, parlò d’altro.
Il demonio tra la folla
Il 10 luglio 1814 a Militello si pensava finita l’ondata napoleonica, dopo che era arrivata la notizia che re Ferdinando di Borbone era di nuovo nella pienezza dei suoi poteri.
Purtroppo, i fatti contraddissero le intenzioni, perché la città cadde in preda alla violenza ed al saccheggio. Vittima principale ne fu il capitano di giustizia Giuseppe Russo e Scirè, che aveva convocato il consiglio civico per disporre tre giorni di festeggiamenti.
“E’ volere del Santissimo e Divinissimo Salvatore” disse Russo, davanti ai primari cittadini, “che il nostro Regno ritrovi pace ed ordine, ora che è di nuovo sotto la sapiente guida della Reale Maestà di Ferdinando.”
“Il volere di Maria Santissima della Stella, invece” ruggì il barone Vincenzo Reforgiato, “è che, prima di festeggiare, siano tolti gli ingiusti dazi della rendita nazionale! D’altra parte, il re ha già deciso di abolirli!”
Troppe teste approvarono senza nascondersi, per cui Russo volle gettare acqua sul fuoco e finse di non aver colto il tono minaccioso.
“So dei disagi che travagliano i galantuomini di questa città” riprese Russo, tutto miele. “Già ieri, quando convocai il Consiglio Civico, ne ero consapevole e solidale interprete. Vorrei venirle incontro, mio caro barone. Ma che volete, amici? Dura lex, sed lex. I dazi non posso toglierli, se non mi arriva un esplicito ordine superiore.”
Il barone Reforgiato si alzò in piedi. “Ho paura che proprio lei, quei dazi, non potrà né toglierli… e né metterli!”
“E’ una minaccia?” sbottò Russo, scurendosi in faccia, cioè tornando capitano di giustizia, pronto ad impugnare la scimitarra e a buttare alle ortiche il fioretto della diplomazia.
“Per saperlo, è sufficiente che lei continui a comportarsi come si comporta.”
“Signori!” interloquì don Alfio Natale. “Mio figlio Vincenzo mi racconta spesso della vivacità dei discorsi nel parlamento di Palermo. Ma, voi promettete di farne una replica assai più violenta. Lei, caro barone Reforgiato, non può usare il venerato nome della Madonna della Stella, per trattare le miserie della politica. E lei, capitano, non deve restare sordo a uno sdegno che accomuna tutti i presenti.”
“Sono loro che hanno mischiato il nome della nostra patrona alle mene politiche” disse Reforgiato, additando Russo. “Loro hanno chiuso la chiesa per decreto regio!”
Non era vero – anzi, era vero il contrario -. Tutto questo il capitano di giustizia Giuseppe Russo e Scirè lo sapeva benissimo. Quindi, ormai stufo di quel clima incandescente, si alzò.
“Vedremo domani, quando l’oratore del municipio leggerà il mio bando, come andrà a finire!” disse ed uscì.
***
Era un pomeriggio in cui il caldo ed il vento di scirocco avrebbero dovuto mangiarsi ogni energia. Nella piazza della Matrice il capitano Russo ed il prosegreto della città stavano circondati da impiegati e guardie in armi ed avevano dato inizio alla solenne lettura dell’avviso sulla ritrovata salure della Sacra Maestà Reale.
Disgraziatamente, di fronte non c’erano facce sorridenti e mani plaudenti di cittadini. Si vedeva, invece, un via vai di sguardi esaltati, di brutti ceffi, di gente che il coltello e la pistola li portavano impressi in fronte.
Era una folla di cinque/seicento individui, che non prometteva nulla di buono. Ben presto, come ebbe a scrivere lo stesso capitano nella sua relazione, molti tirarono fuori brogni, ossi di bue, tamburi, campani di bue e armi.
“Assassini del popolo!” si gridò dal fondo.
“Sanguisughe!” fece eco una voce nel mucchio.
Don Alfio Natale ed il barone Vincenzo Reforgiato, spalleggiati dalla folla, stavano in prima fila, mostrando facce preoccupate.
“Bisognerà rimetter mano al patibolo” esclamò, a un certo punto, Reforgiato.
“Per chi?” chiese il capitano, visibilmente nervoso.
“Per chi affama il popolo!” urlò il farmacista don Alfio Campisi, da dietro.
“Per chi non rispetta il volere di re Ferdinando” corresse Alfio Natale, col tono di voler mettere pace.
“Infatti io, don Alfio, ne eseguo fedelmente gli ordini!” fece piccato Russo.
“Già!” sghignazzò Reforgiato. “Voi e quell’altro barattiere del prosegreto!”
Si voltò verso la folla, nero in viso, col sorriso di uno squalo. “Peccato, però, che, come sanno tutti, il re ha già deciso di abolire i dazi che questi signori pretendono.”
“Non mi è arrivato alcun ordine esplicito” insistette Russo, guardando in faccia Alfio Natale e ignorando ostentatamente il barone Reforgiato.
“Basta con le chiacchiere!” esclamò il farmacista Campisi. “A morte il capitano ed il prosegreto! Viva il re!”
Fu il segnale per l’inizio del linciaggio. Prima vennero fischi e suoni di campane di bue e tamburi. Poi, cominciò una sassaiola, che ben presto si fece fitta e scrosciante, come la grandine agostana. Né Russo, né il prosegreto, allora, persero tempo per cercare la salvezza. Si trincerarono dietro le poche guardie e, armi in pugno, arretrarono fino ai margini della piazza, dal lato che dava sulle viuzze che portavano verso i ruderi di Santa Maria la Vetere.
Si trattava di un vero e proprio dedalo di scale, casette e cortili, per cui non fu difficile per le forze dell’ordine scomparirvi dentro.
I rivoltosi diventarono subito un branco di cani scatenati e cominciarono gli inseguimenti. Ma, per fortuna, sia il capitano che il prosegreto, anche se con fatica, riuscirono a rifugiarsi in casa. Il capitano, però, dopo essersi chiuso dentro, cadde svenuto per più di un’ora.
Purtroppo, non era finita.
***
Calata la notte, sentendosi sfuggire dalle grinfie le prede, la folla dei dimostranti si impadronì delle vie cittadine. Catturò l’esattore, il collettore ed il messo municipale e li portò in giro, al seguito di una carrozza piena di uomini vocianti, frustandoli e deridendoli sguaiatamente.
“Eccovi pagato anche l’anticipo per l’anno prossimo!” diceva uno, colpendoli con un lungo bastone.
“Chiamate l’aiuto del capitano, carogne!” aggiungeva un altro, che aveva preso la frusta del vetturino e la faceva roteare, senza badare troppo a dove colpiva.
Qualche altro dava calci e molti usavano i pugni. I poveretti si trascinavano sotto la pioggia di botte e guaivano come cagnolini.
“Sono padre di cinque figli!” ripeteva l’esattore.
“Santissimo Salvatore aiutami tu!” implorò il messo.
“La Madonna della Stella devi chiamare, scemo!” gli urlò il calzolaio Greco, fervente mariano.
“Madonna mia bella, io che ti feci?” gli chiese prontamente il messo.
Ci fu una risata generale.
“Viva Maria!” urlò il messo e, approfittando della momentanea allegria, scomparì in un lampo.
La furia della gente, però, ben presto tornò a chiamare sangue. Così, tutti si ritrovarono davanti alla casa dell’oratore, che altra colpa non aveva, se non quella di aver letto il bando. Però, c’era l’aggravante che era il fratello del prosegreto – vatti a fidare delle raccomandazioni, per avere un posto al comune… -.
I rivoltosi, quindi, cercarono di buttare a terra la porta a spallate, in mezzo ad un inferno di fischi, schiamazzi e suoni.
“Non c’è nessuno in quella casa!” urlarono alcuni vicini, sperando di allontanare quell’orda feroce.
“Ci sono, invece! Eccome se ci sono!” rispondevano dal mucchio.
Volarono le pietre, a fracassare i vetri delle finestre. Tirarono pietre pure sul tetto, rompendo alcune tegole. Un certo Salvatore Borrello, un villano che tutti chiamavano Malusangu, spuntò addirittura con una scure e cominciò a menare dei gran colpi.
Dentro la casa il poveretto e la moglie incinta cercavano di nascondersi da qualche parte. Ogni lume era spento ed il buio pesto della notte sembrava l’anticipo di un’imminente fine. Lo spavento fu tale che la donna abortì, perse i sensi e poi morì per l’abbondante emorragia.
Non bastò. I rancori erano troppi, per fermarsi davanti ad una sola morte.
A distrarli da quella casa, ci fu la novità che dietro una cantonata – sudato, con gli occhi dilatati dal terrore, tremante come una lepre – trovarono il figlio ventenne del capitano di giustizia, mentre spiava l’evolversi degli eventi.
Cento e cento mani, allora, lo gettarono a terra, riempiendolo di calci.
“Tuo papà verrà presto a trovarti!” disse infine Malusangu, calando la sua scure sulla fronte del giovane.
Si diressero, poi, verso l’abitazione del padre, che però riuscì a respingere l’attacco, sparando all’impazzata da una finestra.
Furono, perciò, costretti a cambiare direzione e andarono dal prosegreto.
La porta fu presto buttata a terra a colpi di scure. Ma, l’uomo era riuscito a fuggire dal balcone sul retro.
Dapprima, il poveretto tentò di entrare nella chiesa dell’Immacolata Concezione, o Santa Maria della Stella che dir si voglia. Vi rinunciò per il sopraggiungere dei suoi potenziali assassini, che per sicurezza malmenarono il sacrestano, per dissuaderlo da ogni intenzione di aprire il tempio al fuggiasco.
Fortunatamente per il prosegreto, quella momentanea diversione gli fu sufficiente per scappare nella vicina campagna, oltre il quartiere detto Tripunti, ricca di grotte ed incavi, dove potersi nascondere.
Dalla cima del monte Caruso, che di recente aveva cambiato il suo nome in monte Calvario, proprio all’entrata sud-ovest del paese, un uomo lo vide e lo riconobbe. Sorrideva, mentre con andatura agile si affrettava a raggiungerlo.
Gli insorti, nel frattempo, tornarono davanti alla casa dell’oratore, al seguito del muratore Nunzio Adamo, detto Cacasicchia, che teneva in mano una cantarella piena di pece. Giuntivi, Cacasicchia spalmò di pece i brandelli di porta sopravvissuti al precedente attacco e vi appiccò il fuoco.
Entrarono in massa, mentre da qualche parte arrivavano una decina di uomini, portando un cataletto ed una croce.
L’intenzione era che, una volta uccisolo, l’odiato oratore venisse portato in processione per la città. Giunsero davanti ad una porta, che immetteva su una sala, dove il disgraziato s’era rinserrato. Partirono i colpi di scure e volarono le schegge di legno.
L’oratore, vedendosi perduto, con un bastone allargò un’apertura che nel primo assalto s’era fatta sul tetto, per la rottura delle tegole causata dalle sassate.
Scappò da lì, saltando di tetto in tetto, fino ad arrivare in una viuzza della Curdarìa, dietro il convento di Sant’Agata.
***
Dal buio di un portone spuntarono tre ombre, che immobilizzarono il fuggitivo. Una mano gli tappò la bocca.
“Non faccia strepiti” s’udì la voce di don Alfio Natale. “Altrimenti non garantisco sulla sua salvezza.”
L’oratore assentì con la testa, per quel poco che gli permettevano le braccia che lo tenevano stretto.
“Lasciatelo libero!” ordinò Natale ai compagni.
“Mi vogliono uccidere” seppe dire soltanto l’oratore.
“Lo so, purtroppo” disse Natale. “E non c’è nulla di peggio della plebaglia scatenata. E’ giusto abolire dei dazi che ci soffocano… ma, la rivoluzione no! Quella non la vuole nessuno! Bisognerà che lei si metta in salvo. Ci sarà tempo per far pagare agli assassini i loro atroci delitti.”
“Ma, quelli che mi perseguitano sono tutti amici suoi!” esclamò l’oratore, che ricominciava a ritrovare un po’ di coraggio. “Ho lasciato mia moglie in un lago di sangue. Non so neppure se è morta.”
“Speriamo di no” disse Natale. Si volse ad una delle ombre. “Corri a vedere, Peppino! E, se sarà il caso, cerca di portare aiuto.”
Quegli partì subito.
“Non sono amici miei” continuò Natale. “Sono i miei peggiori nemici! Il mio ideale politico è un governo di galantuomini, giusto e ordinato. E la folla omicida è la negazione dell’ordine!”
Tese le orecchie. Da lontano cominciavano a sentirsi rumori e schiamazzi. “Ma, non c’è più tempo per le discussioni… venga con me.”
Si volse verso i compagni. “Voi tornate in paese. Se vi sarà possibile, fate in modo che non si compiano altri delitti.”
***
S’inoltrarono in un fitto uliveto.
“Penseranno che lei voglia fuggire a Scordia” disse Natale. “Noi, invece, andremo a Palagonia. Raggiungerà così suo fratello. Ho mandato il barone Reforgiato a metterlo in salvo ed a portarlo lì.”
“Quell’infame incendiario!?” esclamò l’oratore.
“Ha la lingua un po’ vivace” concesse Natale. “Ma, è un galantuomo ed odia i disordini almeno quanto me. Vedrà che suo fratello non poteva capitare in mani migliori.”
I calcoli di Alfio Natale, però, si rivelarono sbagliati. Infatti, superato Francello, nella discesa che portava a Palagonia, videro numerose torce macchiettare il buio. Si resero subito conto che le luci correvano in loro direzione. Si nascosero, allora, in un fichidindieto che rivestiva i fianchi della vallata sottostante.
Gli inseguitori passarono senza vederli.
Quando tornò il silenzio, ormai, mancava poco all’aurora. Poterono, quindi, a stento beneficiare degli ultimi minuti di buio per entrare non visti a Palagonia.
Alfio Natale andò subito a bussare al portone del medico Giuseppe Tutino, fidato ed antico fratello della loggia massonica catanese.
In quella casa i due trovarono ad attenderli, arrivati almeno tre ore prima, il barone Reforgiato e un prosegreto che ancora tremava tutto.
“Bisognerà che domani notte partiate per Palermo, a far relazione al governo di ciò che è successo” disse Natale ai due fratelli.
“L’avevo già previsto” disse Tutino. “Il mio servo preparerà la carrozza stasera.”
“Bene” sorrise don Alfio Natale. “Anche questa è fatta. Accetterei, adesso, un buon bicchiere di vino, se il nostro ospite avrà la compiacenza di offrircelo.”
Quando arrivarono i bicchieri colmi, guardò il prosegreto. “Voglio che nella relazione non ci sia alcun cenno del ruolo che io ed il barone Reforgiato abbiamo avuto nella vostra fuga. Parlatene soltanto a voce.”
“Perché?” chiese il prosegreto.
“Diciamo che, se vi abbiamo dimostrato di essere sinceri amici, non vogliamo mostrare di essere nemici dei vostri nemici.”
Bevve e posò il bicchiere con l’aria di chi non intendeva tornare più su quell’argomento.
Francesco Laganà Campisi, il martire
Di che pasta fosse fatto il giovane Francesco Laganà Campisi, lo si vide chiaramente in quella scura mattina del gennaio 1869, con l’acqua che lacrimava sui vetri della chiesa di San Nicolò.
Si celebravano i funerali di Nicolò Portuso, uno dei suoi migliori amici, membro prestigioso del partito dei cavallacci, ucciso da una mano che, se restava nascosta, non poteva certamente dirsi sconosciuta. E la vendetta non avrebbe tardato. Era bene annunciarlo.
– Sulla tua bara prendiamo il solenne impegno di vendicarci! – aveva gridato Francesco, dimenticando il luogo dove si trovava.
I tempi stringevano, quindi. Il sangue sgorgato dalle ferite di Portuso chiamava altro sangue. Eppoi, la lotta tra mariani liberali (dei quali i cavallacci erano espressione) e i nicolesi filo-borbonici era precipitata nella violenza già l’anno prima, durante le elezioni amministrative.
Per questo, poco tempo dopo, nella casina che Giuseppe Calatabiano possedeva in contrada Madonna del Franco, alla presenza del loro capo riconosciuto, il deputato Salvatore Majorana Calatabiano, i carbonari avevano fatto giuramento:
– Morte al prepotente ed ai suoi ricottari!
Il prepotente, ovviamente, era la colonna del partito dei nicolesi, il vecchio barone Salvatore Majorana Cocuzzella.
Così, anche se molti pensavano che Nicolò Portuso fosse stato ammazzato dal padre di un bambino ucciso dai cavallacci (perché involontario testimone di uno dei loro tanti delitti), Francesco Laganà Campisi indirizzò subito (e neppure tanto velatamente) l’odio dei compagni contro il barone, trasformando il funerale in una manifestazione politica.
Nei giorni seguenti, poi, egli proseguì nella campagna di guerra, pubblicando, in collaborazione col baronello Vincenzo Reforgiato e col signor Antonino Caruso Pico, il libello intitolato Dopo l’intrigo il delitto.
L’opera non difettava di chiarezza nel denunciare i suoi intenti, potendovisi leggere:
“La mala erba deve sradicarsi sino alle radici.”
Oppure:
“Il tempo delle prepotenze è finito e ad ogni parola si darà una stilettata!”
Di certo, una tale… come dire?… vivacità nella partecipazione alla vita pubblica finiva per comportare fastidi non lievi nella vita privata. Ci fu qualcuno che nei suoi confronti applicò una delle più vigliacche (e, purtroppo, ancor oggi più diffuse) pratiche di ritorsione, deviando il corso delle acque che irrigavano il suo giardino di Passaneto. Ma, com’egli stesso amava dire, non era il tipo da stare con le mani alla cintola e le acque, d’amore o di forza, finirono per riprendere il corso di prima.
In verità, quello che succedeva a Militello era, in un certo senso, fisiologico in quei tempi di gran cambiamenti. Uomini nuovi premevano per assurgere al ruolo di protagonisti del potere politico e in politica la forma è sostanza e le parole finiscono per travolgere i fatti.
Se sono nuove, le parole, magari non serviranno per affermare nuove verità, ma saranno indispensabili per portare al governo nuovi uomini. Così, il gruppo dei cavallacci, detti pure comici, tutti baldi giovanotti della buona borghesia, si candidava ad essere il ricambio, l’alternativa all’ultratrentennale signoria del vecchio barone Majorana Cocuzzella.
Bisogna dire pure, però, che il legame di questi allegri giovanotti era un fatto pre-politico. Fino all’Unità essi si erano distinti soltanto per certe ribalderie memorabili. Nella casa di due poveri venditori di acciughe, per esempio, avevano provocato una vera e propria inondazione e spesso e volentieri avevano fatto man bassa nei vigneti e nei porcili non ben guardati.
Nel 1868, però, i liberali avevano vinto le elezioni amministrative e poi, in quello stesso anno, cioè nel 1869, vinsero le politiche, riuscendo nelle prime a far elegere consigliere comunale il baronello Reforgiato e nelle seconde consigliere provinciale Salvatore Majorana Calatabiano (quasi omonimo, ma nemico acerrimo del barone Salvatore Majorana Cocuzzella), sposato in seconde nozze con la madre del Laganà.
La verve dei comici, ormai, aveva abbandonato gli ozi pre-unitari e s’era evoluta in strumento di pressione politica, producendo articoli di giornali, biografie, libelli e proteste contro il Cocuzzella e la sua famiglia.
L’idea fissa di Francesco Laganà Campisi, insomma, divenne il voler arrivare alla definitiva sconfitta, anzi alla totale scomparsa dalla scena pubblica, del barone. In questo, c’era il desiderio di vendicare suo padre, morto d’infarto nel 1848, dopo un assalto dei bravi di casa Majorana Cocuzzella.
***
Il giorno decisivo fu l’otto settembre del 1869, festa della Madonna della Stella.
Già da molti giorni, in verità, si pensava che qualcosa di grosso dovesse succedere. Presidente del Comitato Festeggiamenti era il baronello Reforgiato e, a parere della fazione del barone Majorana Cocuzzella, la conseguenza prevedibile era qualche tiro da liberale birbone, irrispettoso d’ogni ordine e tradizione.
Per di più, al Cocuzzella bruciavano ancora le due sconfitte elettorali consecutive e, quindi, egli pretendeva che fosse ripristinata l’antica usanza dell’inchino (che, tra parentesi, egli stesso aveva abolito precedentemente, quand’era sindaco e padrone di Militello).
L’inchino, per chi non lo sapesse, consisteva in una particolare fermata della processione con la statua della Madonna sotto il balcone del barone, seguita da un vero e proprio inchino, aspettando l’offerta.
Per questo, di mattina presto, Rosario Alimo Circello, uno dei bravi del barone, parlando a San Rocco per farsi sentire da San Pasquale, aveva detto in pubblica piazza:
– Qui, se non si dà soddisfazione al barone, finisce davvero male!
Ed il cocchiere D’Agata, un altro della stessa risma, era passato e ripassato per via Botteghelle a capo di un folto gruppo di campieri.
Uno, allora, gli aveva chiesto:
– Ohè, compare! A che servono tanti uomini?
– A dare i ceri alla Madonna – aveva risposto D’Agata.
I cavallacci non potevano tenersela, un simile provocazione. Anzi, se mai avevano avuto intenzione di acconsentire alle richieste del barone, il dispiegamento dei bravi fu un irresistibile invito alla rissa.
– Le torce faremo trovare a quel vecchio rancoroso! Altro che ceri! – si dissero, quando si riunirono nella farmacia Tinnirello, ch’era il serale covo carbonaro.
Tutti d’accordo, perciò, tutti pronti, gruppo contro gruppo, alla bastonatura e all’accoltellamento, i liberali fecero un poco devoto assembramento attorno alla bara della Madonna, che nel tragitto tra la chiesa e la casa del barone procedette in un silenzio carico di elettricità, dove gli opposti partitanti si guardavano in cagnesco e, al posto dei rosari, formulavano minacce a fior di labbra.
Ecco il balcone del barone, ecco il barone impettito che aspettava. Le nocche delle sue mani strette all’inferriata si erano fatte bianche. Ben più esangue era il viso, agitato da un lieve fremito delle labbra. I bravi si disposero ad entrare in azione. Altrettanto fecero i cavallacci.
Così, quando la Santa arrivò sotto i ghirigori barocchi del fatale balcone, ci fu come un grido liberatorio.
I bravi cercarono di trattenere la bara, affinché avvenisse il preteso inchino, non disdegnando l’eloquenza degli schiaffoni e dei calci.
Il neo-eletto consigliere comunale, baronello Vincenzo Reforgiato, che stava alla testa della processione, si prese un pugno in un occhio e per lui la luce del giorno si fece scura e piena di stelle. Il suo lamento non rimase inascoltato. Accorsero gli amici dalle retrovie ed il parapiglia divenne vasto e compatto.
Vinsero gli impertinenti cavallacci, perché, pur tra urla e spintoni che tolsero ogni ieraticità alla Divina Immagine, la processione tirò dritto.
Il barone, perciò, non soltanto non ebbe l’inchino, ma fu pure fatto oggetto di sghignazzate, pernacchie e fischi. Ed ovviamente la sua reazione non si fece attendere.
Egli si torse e si morse le mani, pestò i piedi ed alzò i pugni verso gli sberleffanti:
– Ci rivedremo! – gridò rauco al loro indirizzo. – Non dubitate, manica di delinquenti!
Il chiasso di un applauso sfottente fu la risposta a quelle parole e subito dopo ripresero i fischi e le pernacchie.
Majorana Cocuzzella, allora, visto che la sua ira finiva soltanto per ingrandire l’umiliazione, senza dire altro, rientrò nel chiuso delle sue stanze.
E’ facile immaginare la fulmineità con la quale il paese si riempì della notizia dello scacco che era stato dato al potente barone. I contadini non erano certo abituati a vederlo come perdente. Sfottuto, poi!
Fino a quel momento, sul barone, girava solo il solito raccontino del potente ingravida-lavandaie (ne ho ritrovato uno quasi uguale sul Re Vittorio Emanuele II a Racconigi, provincia di Cuneo).
Toc! Toc! bussava il barone.
“Cu è?” chiedeva la donna.
“Rapa, stiddicchia, ca sugnu u baruni…”
Per disgrazia, Stiddicchia era il nome più diffuso di Militello.
***
Quella mattina, perciò, crollava un mito che pareva eterno come la miseria. Poteva mai darsi pace, il barone?
Infatti, egli non riusciva a star fermo. Passava da una stanza all’altra e grugniva truculenti propositi di vendetta.
– Taglierò i cosiddetti, taglierò… a quei carbonari del ca…!
E qui si fermava, perché pensava che poteva sentirlo la figlia, che era nella stanza accanto.
– Ah, a cosa mi portano, i maledetti! A dar scandalo a casa mia!
Andò avanti così fino alle quattro del pomeriggio, quando tornò ad affacciarsi al balcone.
Se ne pentì subito, poiché vide i suoi nemici, tutti schierati davanti alla farmacia Tinnirello, che cominciarono a ridergli in faccia. Anzi, appena si accorsero di lui, fingendo di discutere fra di loro, riepilogarono ogni particolare della sua sconfitta. Naturalmente, a dirigere l’orchestra c’era Francesco Laganà Campisi.
Quindi, non gli restò altro che rientrare con ira rinnovata.
***
Alle diciotto capì che, se non usciva ad affrontare i cavallacci, rischiava di scoppiare.
– Vado a vedere la corsa dei cavalli – disse alla moglie.
C’era presente il sacerdote Di Maiuta, da anni fidato compagno delle sue passeggiate e confessore delle sue scappatelle, che cercò di sconsigliarlo.
– Vossignoria non dovrebbe uscire – gli disse. – Tolga l’occasione, a quella gente!
– E che? Non sono più libero di vedermi una corsa di cavalli? – rispose il barone, con un tono che non ammetteva repliche.
Il poveretto sospirò rassegnato e si dispose ad accompagnarlo.
– Vengo con voi – disse.
– Se vi fa piacere – rispose il barone.
Inoltre, per strada si unirono a lui don Fidenzio Cocuzzella, suo nipote, il cocchiere D’Agata, il fattore Ballarò, il contabile Valerio, mastro Turrisi, mastro Janni, mastro Faragone, mastro Pensavalle e tutto un seguito di camerieri e campieri.
Con tale codazzo arrivò al Casino dei Civili. Laganà Campisi era lì con i suoi amici euforici e baldanzosi per la vittoria. Tra questi, c’era l’avvocato Greco, che, fingendo di non averlo visto, ricominciò il concerto dei fischi.
– Senti un po’, porco villanzone! – disse allora il barone, battendogli il bastone sulle spalle.
Fu un gesto fatale, poiché Giuseppe Greco, fratello dell’avvocato e di professione fabbro ferraio, gli assestò sulla testa un colpo di legno tale da farlo cadere a terra tramortito. Subito si levò un grido:
– Hanno ammazzato il barone Majorana!
Il cocchiere D’Agata tirò fuori la pistola e sparò dei colpi in aria, per farsi largo e recare soccorso al padrone. Accorse pure il prete don Giuseppe Compagnimo. Purtroppo, però, egli era un noto amico dei cavallacci, per cui il suo gesto fu male interpretato da mastro Janni, che, per non sbagliare, gli assestò una coltellata.
– Sono morto! – squittì il prete e si lasciò andare per terra, piangendo.
Nel frattempo, qualcuno riuscì a sollevare il corpo del barone bastonato. La sua testa calva era coperta di sangue e non dava il minimo segno di vita.
– A casa Marino, presto! – suggerì qualcun altro.
Così, alla men peggio, il poveretto venne portato via e davanti al Casino dei Civili restarono soltanto i duellanti. Se i bravi del barone facevano lampeggiare i coltelli, i cavallacci si difendevano egregiamente impugnando bastoni e sedie.
Nella mischia c’era mastro Turrisi, uno che aveva molti motivi di gratitudine verso il barone ed un motivo di antipatia per Francesco Laganà Campisi … un motivo grave, essendo un marito all’antica, di quelli che non perdonano chi gli adorna la casa, come disse Santuzza a compare Alfio.
Insieme a lui, c’era mastro Janni, che altri non era che il padre del bambino ucciso da Nicolò Portuso, da pochi giorni venuto a porsi sotto la protezione del barone.
I due, perciò, non persero molto tempo. Sferrando colpi all’impazzata, riuscirono a farsi largo, fino ad arrivare davanti al giovane. Gli altri cavallacci, intanto, in evidente inferiorità numerica e d’armi, arretravano.
Laganà Campisi no. Era coraggioso. Od incosciente.
Poteva scampare la morte. Ma non lo fece.
– Ora non mi scappi più! – gli disse Turrisi, quando lo vide stretto in un angolo.
– Non scappo, non scappo – rispose Laganà Campisi. Anche tua moglie sa bene che non scappo!
Fu la sua ultima battuta.
***
Nell’autopsia riscontrarono nel suo corpo ben sei coltellate in punti che andavano dalla mammella all’addome, più varie escorazioni, rotture e ferite secondarie.
Non morì invano, però, perché il suo patrigno, Salvatore Majorana Calatabiano, riuscì a far scordare i veri motivi dell’assassinio, per cui il barone Salvatore Majorana Cocuzzella venne moralmente linciato ed incriminato come mandante.
Il processo, è vero, si chiuse senza una condanna. Ma, la carriera politica del barone fu distrutta per sempre. Il che era ciò che contava davvero. In tal modo, infatti, il Calatabiano potè diventare l’unico detentore del potere a Militello e, successivamente, salire fino al grado di ministro del Regno d’Italia.
D’altra parte, a che servono i martiri?
La rivoluzione nicolese
Era appena il venti maggio, ma l’estate in Sicilia arriva presto (l’estate di sempre, quando l’isola si mette nuda e non ha misteri).
Il sole pesava come un macigno messo al centro del cielo e il paesaggio si distendeva squallido, solamente maculato qua e là da brevi e stentati ciuffi verdi. Per il resto, sparse in una catena di montagne calve, vedevi più che altro la terra rossa e sterile, le pietre calcaree che biancheggiavano come scheletri, le pietre ferrigne che luccicavano roventi.
Nelle campagne di Militello (a Oxena, a Santa Croce, nella fossa affocata di San Vito, lungo gli impervi pendii del Calcarone) i rovi la facevano da padroni e sopra vi soffiava il vento dell’Africa. Era un alito spietato, nemico di Dio e degli uomini, che pareva venire dal petto di Satana. Sotto la sua sferza, o per mano assassina, già molti incendi avevano illuminato la campagna. Le lingue del fuoco avevano ballato i loro sabba e s’erano mangiate in poche ore anni ed anni di lavoro e di speranza.
Anche nel cuore degli uomini, quel giorno, serpeggiarono le fiamme, per una notizia a cui bastò poco per farsi il giro di tutte le bocche del paese. La diede per prima donna Peppina Fucile, la madre del parroco, dal sagrato di San Nicolò-SS. Salvatore.
– Vinìti di cursa! – urlò istericamente. – Vinìti, ca s’arrubbàrru u Sabbatùri!
Fu quel che si dice un piovere sul bagnato. Da circa mezz’ora (ma lunga come un giorno) propositi e dicerie s’erano propagati, virulenti come un contagio, nella folla che nereggiava nei pressi della chiesa.
– So vòla purtari u vìscuvu! – disse uno di rimando, dato che in chiesa si svolgeva la visita del vescovo di Caltagirone, monsignore Damaso Pio De Bono. – Pi chissu vinna cca!
– Stu cantru di minchia! – fece un altro.
– E’ d’accuòrdu cu i mariani! – disse un altro ancora.
– C’è una lega fra loro! – sentenziò, infine, don Luigino Bartolotta, forse baronetto di Paliano, intellettuale ateo e rivoluzionario, ma fedele alla parrocchia di San Nicolò.
In verità, non esistevano vere e proprie prove per ipotizzare il coinvolgimento dei mariani, cioè dei parrocchiani di Santa Maria della Stella, i nemici di sempre. Però, gli indizi non mancavano. Ed in ogni caso, parafrasando il Manzoni, si poteva star sicuri che essi, se non avevano avuto parte nella sciagura, se ne compiacevano come se fosse stata opera loro. Questo, i nicolesi non potevano tollerarlo. Troppi secoli di scontri, troppe angherie, troppe parole grosse si erano stratificati nella memoria storica dei due campanili che spaccavano la città.
Ecco perché molti di loro avevano pensato a una trappola, quando, verso le dieci del mattino, monsignor De Bono si era presentato in chiesa, per eseguire (diceva lui) la prescritta visita dei registri parrocchiali e dell’archivio vicariale. Magari l’intenzione era buona, ma nulla dà ai nervi più del vedersi frugare in casa propria.
In un lampo, perciò, accorse gente da via Botteghelle, dalla Chiazza lurda, da Sant’Agata, dalla Firrera, dalla Uttazza… e, poi, da più lontano: da San Pietro, dal Pàscimu, dalla Curdarìa, dalla Stratade paraccàri, dai nuovi quartieri oltre San Benedetto…
Erano artigiani e garzoni con gli abiti sporchi e ruvidi, giornalieri a spasso, casalinghe in ciabatte e grembiule, giovanotti amanti della vita e del disordine… una folla che ben presto (tra uomini, donne, animali e figliolanze) superò il numero di duemila individui.
Prima si raccolsero sul sagrato e subito si riversarono in chiesa, col digrignar di denti di un cane pronto ad azzannare. Un giovane pretino che accompagnava il vescovo volle fare l’eroe e si fece avanti. Ma un tipo con la faccia lunga ed ispida di barba, la zazzera rossiccia e così magro e alto che dalla cintola in su pareva oscillare al vento, gli mollò un ceffone che s’impose forte e secco sul chiasso dei rivoltosi.
– Matruzza bedda! – gridò il pretino con una vocina fessa. – E io che ci colpo?
E scappò in canonica, chiudendo la porta a doppia mandata.
Qui, a conferire col vescovo, c’era già il notabilato parrocchiale: il cavalier Salvatore Sortino, il signor Salvatore Basso, l’avvocato Saverio Campisi ed il signor Francesco Gulinello. Essi, con un po’ di cautela, ma anche con molta decisione, erano venuti ad esporre l’apprensione dei parrocchiani.
– Anche un uomo della santità di vostra eminenza – esordì serio serio il cavalier Sortino, il più autorevole dei quattro, – se male informato…
– Se mal consigliato… – aggiunse col sorriso dei gesuiti l’avvocato Saverio Campisi.
– Se tirato un po’ di qua un po’ di là… – disse ruvidamente il signor Francesco Gulinello.
– Chi mi tira? Chi mi consiglia? – esclamò il vescovo. – Di che stiamo parlando, signori?
Il signor Salvatore Basso, che non aveva parlato perché si conosceva il carattere e non voleva fare uno sproposito, disse ai compagni, torturando il cappello che teneva in mano:
– Non vedete che è tempo perso?
– Magari siete venuto con sante intenzioni… – riprese il cavalier Sortino, facendo al signor Basso un imperioso gesto di invito alla calma.
– Senza cattiveria… – aggiunse l’avvocato Campisi.
– Per pura ingenuità! – completò il signor Gulinello.
Il vescovo alzò gli occhi al cielo con cristiana rassegnazione. Poi, chiese al cavalier Sortino:
– Quali intenzioni?
Il cavaliere tossì di gola e riprese:
– Ci sono malvagi… dei quali vostra eminenza è inconsapevole vittima…
– Per puro inganno, eminenza – aggiunse mellifluo l’avvocato Campisi. – Per puro inganno!
– Perché, come diciamo qui, vi hanno baddariàto come volevano loro! – confermò il signor Gulinello.
A quel punto, il cavalier Sortino perse la pazienza e fulminò i compagni con lo sguardo.
– Ma volete star zitti e lasciar parlare me? – esclamò.
– Io dico sempre che è tempo perso! – sentenziò il signor Basso, ma sottovoce.
– Ci sono malvagi… – ricominciò il cavalier Sortino, – che vogliono attentare alle secolari prerogative della chiesa di San Nicolò, ai sacrosanti diritti, sanciti da Dio e dalla storia!
Guardò i compagni per non sentirsi solo, dopo una frase tanto forte, davanti al vescovo per giunta. Questi morivano dalla voglia di parlare; ma, memori del suo scatto d’impazienza, si limitarono ad annuire energicamente.
– E la buona gente nicolese… – continuò, – mi comprenda, eminenza… ama il suo tempio e potrebbe fraintendere questa visita, questo suo chiudersi in canonica… pensare che ella voglia frugare, rimestare non si sa che cosa…
Guardò significativamente il vescovo (che lo guardava sbalordito) e riprese:
– Ci sono molti malpensanti!… Hanno detto che vostra eminenza vuol portarsi via il sacro simulacro del Santissimo Salvatore…
– E le carte dell’archivio vicariale! – sbottò il signor Gulinello, a cui era parso un secolo il tempo in cui era stato zitto.
– E gli ori dei devoti! – disse a fior di labbra il signor Basso, dando voce a ciò che pensavano tutti (e, non potendo parlare più forte, lo fece capire con le sue occhiatacce).
– Che malvagi! Che portare via! – urlò il vescovo, per quanto poteva con quel ràncico tremulo ch’era la sua voce, certo più adatto alle omelie ed ai rosari che ai duelli oratori. – Mi meraviglio!… Mi meraviglio che persone illuminate, quali certamente sono lor signori, possano dar credito a simili sciocchezze!
Il cavalier Sortino non ebbe il tempo di replicare, perché al di là della porta le grida e gli schiamazzi si fecero altissimi. Qualcuno aveva versato la benzina sul fuoco, cioè sulla gente che era sparsa nella chiesa e che schiumava come il vino che tracima dalla botte. Quattro o cinque dei più arditi pensarono di passare alle vie di fatto. Prima coi pugni e poi a calci, pedate e spallate, cominciarono a tempestare la porticina che menava al campanile. Questa non era un manufatto particolarmente solido e cedette quasi subito, con uno schianto di tavole spezzate. Moltissimi si lanciarono sulla buia, stretta e sdrucciolevole scala a chiocciola, spingendosi l’un l’altro (e fu un miracolo che nessuno ci rimise l’osso del collo). Quando furono in cima, si aggrapparono ai batacchi delle campane e, suonando a distesa, chiamarono a raccolta il popolo ribelle.
L’appello giunse anche nelle pochissime case che ancora non sapevano dei gran fatti di San Nicolò. La massaia troncò a metà le faccende domestiche, il mastro lasciò di rifinire il lavoro, il burocrate allontanò da sé gli scartafacci e tutti si diedero a convergere in piazza, chiedendo e dando informazioni, in un caos indescrivibile.
Alcuni della commissione dei festeggiamenti nicolesi cominciarono a fare il giro del paese, arruolando gente. Arrivarono perfino in Largo del Castello, per mobilitare i pochi nicolesi che vi abitavano.
– Aiutu! – gridarono.
– Aiutu di chi? – chiese una donna vestita di nero che tutti chiamavano Peppa A Ciaula.
– S’arrubbàrru u Sabbaturi!
– E fìciuru beni! – rise sguaiatamente Peppa, che era mariana.
– Sta gran bottana! – la insultò Turi Latrina, detto così perché chiedeva l’elemosina vicino ai bagni pubblici.
Gli altri, però, lo tirarono via. In quel momento c’era da pensare al vescovo e non a una femminella ignorante. Nei pressi di piazza San Nicolò, infatti, si moltiplicavano le più truculenti intenzioni:
– A morti u viscuvu e tutti i so cumpari!
– A morti i mariani!
– A morti i latri!
E dentro la chiesa la folla si rivolse direttamente alla porta della canonica, facendo pressione per far saltare i cardini.
– Ràpa, viscuvu! – gridò uno con la voce roca. – Ca ta dammu ntesta, na carizza do Sabbaturi!
– Gliela dammu di persona! – un altro volle dire nell’italiano che sapeva.
– Vossignoria di chi si scanta? Niscìssa fora, ca i parrucchiani si vòluni spiegari cu vossia! – disse un altro ancora, del quale la gentilezza delle parole veniva smentita dall’ironia del tono.
E, finalmente, anche la porta della canonica cedette con uno schianto secco e monsignor De Bono si vide circondato da facce stravolte dall’ira.
– Giuda! – sibilò uno.
– Caino! – urlò un altro.
– Ti vulìviti futtìri u Sabbaturi! – gli spiattellò sul muso Francesca Rosa, una giovanetta coi capelli neri e crespi come quelli della medusa, facendogli palpitare ad un millimetro dagli occhi il rotondo ed abbondante seno.
E subito sua madre, donna Caterina Niceforo, che prima e dopo questo episodio si distinse sempre per l’ottimo e pacifico tenore di vita, suggellò il tutto con uno sputo che andò a stamparsi sulla faccia del vescovo come una medaglia d’infamia.
Questo fu solo l’inizio. Gli epiteti si accavallarono l’uno sull’altro. Arrivarono altri sputi e dopo vennero i pugni. Uomini e donne, cittadini e forestieri, senza distinzione di censo o fede politica, tutti si ritrovarono insieme nel novello e liberatorio attacco all’uomo del potere e del sopruso. Donna Giovanna Faragone, una delle prime nelle opere devozionali, dall’alto in basso, con le mani unite in un solo pugno e con tutta la forza della rabbia e del peso matronale, assestò sulla testa del vecchio prelato un colpo tale, che per anni ne restò il nitido ricordo.
Fortunatamente il fragore delle urla e delle campane arrivò alle solerti orecchie del sottotenente Giuseppe Nuvoletta, comandante della locale legione dei Reali Carabinieri. Così egli, tirandosi dietro tre sottoposti ed il delegato di Pubblica Sicurezza, accorse verso lo sciame urlante dei giustizieri.
Sulla strada vide scantonare, mentre scappava a casa, la guardia municipale Sebastiano Di Maiuta. Già nei primi momenti dei disordini qualcuno era corso ad informarlo nella società “Principe di Napoli”, dove stava smaltendo la noia della calda mattinata. Ma era un uomo troppo pacifico, uno che alla vita chiedeva soltanto di godersi in santa pace il poco stipendio che gli davano. Aveva, quindi, preferito non andare a vedere, lasciando al suo destino il monsignore bastonato.
– Guardalo, lo scoglionato! – sibilò tra i denti Nuvoletta. – Ah! Questi impiegati comunali!
Poi, alzando gli occhi, ormai vicino alla chiesa di San Nicolò, restò allibito vedendo svolazzare freneticamente le tonache di padre Lo Sciuto e di padre Vitale.
– Padre Lo Sciuto! Padre Vitale! – chiamò. – Che c’è? Che è avvenuto?
– Il vescovo! – ansimò padre Vitale.
– In sacrestia!… – ansimò pure padre Lo Sciuto. – Vuol pigliarsi il Salvatore!
– Porc…! – fece Nuvoletta e, a due gradini per volta, volò verso la chiesa.
Qui, sotto il nugolo nero dei parrocchiani, trovò un gemente monsignor De Bono. Pareva la cacca di cavallo quando viene assalita dalle mosche.
– Signori! – urlò Nuvoletta. – A un tal uomo insolenze di questa sorta?
– Che minchia di uomo? – gli rispose il cavalier Sortino, dimenticando la diplomazia. – Càntero di merda, dovete dire!
Il signor Basso, l’avvocato Campisi ed il signor Gulinello non dissero nulla, perché erano occupati a dirigere le operazioni di bastonatura. Parlò, invece, donna Caterina Niceforo.
– Cu tocca u Sabbaturi s’abbrucia! – proclamò.
A questo punto, come ispirato dalla presenza dei carabinieri, venne fuori dal mucchio vociante il sacerdote Giuseppe Scirè, scrittore di storia locale, di genuina fede nicolese.
– Ha ragione il comandante! – disse Scirè. – Vergogna, signori!
E corse a prendere sottobraccio monsignor De Bono.
– Venga, eminenza – gli sussurrò. – Conviene uscire da qui.
– Io non chiedo di meglio, figliolo – cercò di dire, quasi afono per la paura, il poveretto.
I due, quindi, si avviarono scortati dai carabinieri, tra la folla che non smetteva di minacciare e di insultare. Però, la sorpresa fu vedere che padre Scirè, con dote di contorsionista prima sconosciutagli, mentre volgeva al superiore una faccia amorevole ed incoraggiante, riusciva a dargli da dietro dei gran calci di punta, che sono quelli che fan più male.
Come Dio volle, tra gli ondeggiamenti della folla e le esortazioni alla calma della forza pubblica (poste con molta gentilezza, dato il numero), monsignor De Bono ce la fece ad uscire dalla San Nicolò e si avviò verso il monastero dei cappuccini.
Mentre passava per piazza Matrice, alcuni ritardatari salivano dalla Chiazzalurda, la zona dei fruttivendoli, e ci fu un ultimo assalto a colpi di pomodori sfatti, broccoli rinsecchiti e nespole marce. Soltanto quando egli giunse al convento e vi si chiuse dentro, i carabinieri poterono contenere la folla. Ma, per ben due ore ancora, fuori continuò a sentirsi un rumoreggiare sordo.
Alle due del pomeriggio, allorché le acque parvero essersi calmate, il vescovo riebbe finalmente un po’ di voce.
– Oh, Dio mio! Oh, Madonna Santissima! – disse ai pretini del seguito. – Una rivoluzione è stata! Una rivoluzione vera e propria!
Li guardò inebetito. Guardò la porta e sentì un brivido. Andò al centro del portico, vicino al pozzo, quasi volesse scappare da lì, se gli esagitati tornavano.
– E per che cosa? – chiese. – Che volevo fare, per provocare un finimondo così?
Si fece un gran segno di croce.
– Alla larga! Per capire ero venuto! Per sapere il perché e il percome… e scoppia una rivoluzione!
Guardò di nuovo verso la porta, più calmo. Si erse, addirittura, in tutta la sua poca persona.
– E’ gente che non ragiona! Mai più verrò in questo nido di vipere!
Fortunatamente, da quel buon prelato che era, non mantenne la promessa. Dopo la Grande Guerra, monsignor De Bono tornò a Militello. Prudentemente sorvolò sulle lotte di campanile e questa volta gli andò bene.
Peppino Mantella e le sue feste
Come la storia, come il paesaggio, qui tutto è accidentato, scosceso ed in salita.
Eccolo il teatro delle nostre gesta: di colpo, quasi a ridosso delle case, boscaglie di fichidindia scortesi, ulivi polverosi, pietre biancheggianti come scheletri sotto il sole di luglio. E nel paese i segni dei secoli – gloria, dolore, fatica –cozzano con le pacchianerie contemporanee.
Qui si soffre e si ride ad alto volume. Forse ce lo insegna la luce, che si impone per gran parte dell’anno e smangia l’orizzonte della Piana.
Perciò, tutto sommato, a Militello un po’ folli lo siamo. Nelle tinte forti ci viviamo bene e, se ci capita di andar via emigranti, come l’ago di una bussola il nostro cuore indica il ritorno.
Come dimenticare questo piccolo, perfetto universo? Come dimenticare le nostre cronachette ed i personaggi pirandelliani che vi agiscono? Come dimenticarsi di Peppino Mantella?
Coerente, senza cedimenti, egli interpreta con esemplare serietà il suo ruolo alternativo alle feste patronali. Bambino, vide nel prete il suo ideale. E, se nessun titolo ed una sorte iellata di emarginato, gli hanno impedito di diventare tale, ha saputo fare a meno dei titoli e della sorte.
Così, superando gli scherni di grandi e piccini, si è unilateralmente proclamato Vicario di Dio. Per anni ha svolto onorevolmente la sua milizia. Ora merita il premio di un affettuoso ricordo.
Tout autour de l’église, con la tacita e cristiana sopportazione del clero ufficiale, Peppino celebra puntualmente il suo personale calendario liturgico. Parallelamente alle normali feste patronali, senza pregiudizi od odi campanilistici, sempre più calvo e rotondo, con gli eterni calzoni corti a scoprire la sua anima bambina, porta in spalla per le vie del paese una piccola bara, con sopra il simulacro della Divinità.
Lo segue un codazzo festante di ragazzini, pronti all’applauso ed al sorriso sfottente. Ma, Peppino non se ne cura. E’ troppo occupato a rifare con la bocca la musica della banda. Cammina con passo cadenzato e solenne, lo sguardo fisso in avanti sotto le sopracciglia cespugliose, sul capo la corona nera dei pochi capelli, irti come spine.
Lo fermano in tanti.
“Peppino! Cinquanta lire di bombe e di mascattaria!”
“Peppino, cento lire di napoletane e di cassa infernale!”
Peppino accontenta tutti, paziente come un bue. Fa bum! e tra-tra-tra! con la bocca, come in una pagina futurista di Filippo Tommasi Marinetti.
Ultimamente si è modernizzato. Ha comprato tric-trac e fulminanti e li ha sistemati, pronti a sparare, sul davanti della piccola bara, a sua volta piazzata sopra una specie di carrozzella. Un po’ di poesia si è persa, come sempre avviene con l’avanzare del progresso.
I suoi modi, però, restano distaccati e lontani, quasi di sufficienza, come se ci perdonasse per le nostre risate, dato che non sappiamo quel che facciamo.
Forse, ha ragione lui. Forse, Peppino ci è superiore. Egli è un campione della libertà. Ha rotto schemi e convenzioni, diventando prete in barba al destino ed alle accademie. Ha fatto a meno dei riconoscimenti altrui, riuscendo ad essere esattamente ciò che voleva essere. Chi di noi, in sincerità, ha avuto lo stesso coraggio?
Noi, in questa luce siciliana senza pudore e senza pietà, coltiviamo altre follie, ben più pericolose. L’ambizione, la cupidigia, l’invidia e una malintesa sensualità ci scorticano vivi. La morte ci coglie, tesi come archi, con alle spalle una vita che è stata un continuo rinviare a domani.
Peppino no. Egli è uno dei poveri amati dal Cristo. E’ l’ultimo ancora disposto ad impersonare San Giuseppe nell’asta del 19 marzo di ogni anno. Quando morirà, Dio sarà contento di risentire dalla sua bocca la banda suonare in suo onore e lo accompagnerà in processione, senza le pagliacciate serie delle autorità terrene.
Giù il cappello, amici! Sta passando il Paradiso, in spalla a Peppino Mantella!