Rocambole Garufi
HOMO HOMINIS LUPUS
George Orwell (1903 – 1950) e il tramonto delle civiltà storiche
Parte I
L’uomo e lo scrittore
I
Il socialismo romantico di George Orwell
George Orwell nacque il 25 giugno 1903, a Motihara, nel Bengala. Ma, in verità, il suo nome giusto era Eric Arthur Blair – anche se il Thomas gli dà il secondo nome di Hugh 1 -.
Su di lui e sulle sue opere si sono lette le opinioni più disparate e cretine. Per il marxista J. Walsh, per esempio:
“Egli… corre strillando tra le braccia degli editori capitalisti con un paio di fumetti gialli che gli procurano fama e denaro” 2.
Mentre, un tantino più onestamente – e mestamente -, Irving Howe ha scritto:
“Nei confronti di certi libri sentiamo che la nostra riluttanza a riaprirli è la vera misura della nostra ammirazione 3.
D’altro canto, un po’ istrione Orwell lo era davvero. Forse, il destino del genio è proprio quello di essere un narcisista di talento. Gli insulti e le incomprensioni dei contemporanei, nell’epoca del Decadentismo e del conformismo ribellista, sono le sue medaglie.
L’andare controcorrente di Orwell, così, si accompagnò spesso a giudizi netti e privi di perifrasi diplomatiche. Per le categorie umane che gli erano antipatiche usò il rasoio del linguaggio. In aparticolare, coi cicisbei del politicamente corretto.
Non ebbe neppure la buona e borghese educazione di evitare gli accenni alle loro caratteristiche fisiche dei nemici. Abbondò nei diminutivi, tipo “ometto”, o nelle vere e proprie ingiurie, come “poeti effeminati”.
Chiaramente, le origini di questo estremismo furono molteplici e complesse; cosicché ogni sforzo di ridurlo ad una serie ordinata di fili conduttori appare impresa disperata, destinata a risultare sempre parziale, se non, addirittura, a deformarne la personalità.
Purtroppo non esiste un filo d’Arianna che ci guidi nel labirinto di quel mazzoniano guazzabuglio che è il cuore umano. Ma, che possiamo farci?… Pure gli scrittori come il sottoscritto hanno bisogno di guadagnarsi la paga per il lesso – così la chiamava Carducci -. Perciò, mi proverò a proporre un percorso di razionalizzazione – o, se si vuole, un modello d’incasellamento -. Mi sforzerò, cioè, di individuare i “perché” di certe azioni di Orwell e di seguirne la logica.
Richard Blair e Mabel Limouzin, i genitori, appartenevano a quella particolare sottoclasse, tipica della società inglese, formata dai membri delle amministrazioni coloniali e dagli impiegati delle compagnie commerciali che operavano in Oriente.
La loro, per usare un neologismo che per essa lo stesso Orwell inventò, era la “lower-upper middle-class”, costretta a trascorrere gran parte della sua vita lontana dall’Inghilterra, gente oppressa da:
“… un senso piuttosto complesso di alienazione nei confronti delle tradizioni culturali e sociali della madrepatria, di cui conservare una immagine irreale ma verso la quale continuava a nutrire una devozione molto profonda” 4.
Anche la situazione economica di questi funzionari dell’impero inglese era ambigua. Essi, se erano “sahib” nel Bengala, una volta in patria, dalla pensione non ricavavano mezzi sufficienti al mantenimento del livello di vita borghese cui restavano tenacemente attaccati.
Da qui il senso di estraneazione che nel giovane animo di Orwell diventava senso di rifiuto da parte della società (o almeno, dell’unica società che i suoi concepivano); in altre parole, l’alienazione diventava complesso di inferiorità.
Infatti, quando nel 1911 (nel frattempo, i suoi, nel 1907, erano rientrati in patria) fu iscritto al collegio di ST.Cyprian, Orwell trovò ad attenderlo una dura realtà.
Il St. Cyprian era una scuola di prestigio, aperta ai ragazzi che intendevano concorrere all’ammissione a Eton (il “Gotha” della culura inglese) e dentro vi circolava ciò che era considerato il meglio della società “bene”.
I genitori di Orwell per iscriverlo si erano dovuti sobbarcare non lievi sacrifici economici, ma questo, più che riempirlo d’orgoglio, lo condannava al ruolo di povero, quello che secondo Shaw era:
“il peggiore dei mali, il più orrendo dei delitti” 5.
Infatti, i ricordi dello scrittore, espressi in Such, Such were the joys, sono questi:
“ I had no money, I was weak, I was ugly, I was unpopular, I had a cronic cough, I was cowardly, I smelt” 6.
Ma certo Orwell dovette esagerare un po’ nel descrivere questo periodo della sua vita, come ha sottolineato lo Zanmarchi che così ha scritto:
“È difficile però credere che la realtà sia stata tanto drammatica: la descrizione che Cyril Connolly, che fu suo compagno di classe, dà di ST. Ciprian in Enemies of promise è assai meno negativa e la figura di Orwell vi appare in una luce completamente diversa e normale” 7.
Personalmente penso, comunque, che a quel periodo risalga la fondamentale scissione che tormentò Orwell per tutta la vita. Forse nel suo odio verso il mondo di ST. Cyprian c’era una gran fame di dialogo. La sua povertà lo affliggeva nella misura in cui gli impediva d’inserirsi in quell’ambiente.
Era l’eterno problema dei “diversi”. La sua sensibilità, spasmodicamente acuita dalla tensione, gli facevano sembrare un’offesa gravissima, le scherzose ed infantili – e cattive, come tutte le cose scherzose ed infantili – allusioni sul suo stato da parte dei suoi compagni di studio.
Così, dal rifiuto che credeva di subire, nacque il sentimento d’alienazione ed il bisogno di superarlo. Per questo, per tutta la vita cerco una nuova comunità umana.
Il nuovo spazio in cui sentirsi integrato lo cercò scendendo in basso nella scala sociale, nel proletariato e nel sottoproletariato.
Sposò, quindi, l’idea socialista (ma le divergenze, come vedremo, erano più forti delle convergenze).
Il suo socialismo, quindi, non fu un coerente e articolato sistema d’idee. Non aveva la pazienza del rivoluzionario, ma impugnava la sventolante bandiera del ribelle.
Per Orwell Essere socialista era soprattutto un atteggiamento morale; era il rifiuto delle ingiustizie che l’Inghilterra borghese perpetrava ogni giorno e dalle quali, lui per primo, si sentiva vittima. Più disagio spirituale che ragionata scelta. Per questo, in definitiva:
“Orwell fa parte di quella numerosa schiera di uomini che, privati di un solido sistema di vita, o di una fede, o avendo rifiutato quello che avevano ereditato, trovano la virtù in un genere di vita improvvisato, e in una affermazione d’indipendenza. In Inghilterra tale tradizione attrae molte delle virtù liberali: empirismo, una certa integrità, sincerità” 8.
II
Al servizio dell’imperialismo inglese
Orwell lasciò la scuola di ST. Cyprian nel dicembre 1916, dopo aver vinto due borse di studio, una per il “Wellington College” e l’altra per Eton. Prima andò al “Wellington College”, ma dopo appena un trimestre passò a Eton, nel maggio 1917.
Vi rimase fino al Natale del ‘21 e fu in questo periodo che s’inferverò per le idee socialiste.
Ma, dopo il diploma, anzicché proseguire negli studi, si arruolò nella polizia imperiale in Birmania, dove restò dal novembre del 1922 all’agosto del 1927.
Per lo Zanmarchi:
“A determinare questa scelta, riguardo alla quale Orwell osservò il più assoluto silenzio, non fu soltanto l’istinto di seguire le orme del padre (e del nonno prima di lui). Lo influenzarono senz’altro le necessità di ordine economico, il fascino romantico dell’Oriente di Kipling e il desiderio di impegnarsi in un’attività “pratica” 9.
La delusione era scontata. Orwell era un uomo col senso morale troppo sviluppato per poter star bene nell’ambiente birmano. Tutto il suo intimo si ribellava alle ingiustizie che aveva il dovere di difendere.
Il riflesso di ciò lo troviamo nei racconti Shooting an elephant e A hanging, due dei più felici e dei più orwelliani (nel senso che, con una tecnica alla quale lo scrittore rimase sempre fedele, partono dalla acuta osservazione dei particolari per arrivare alla enunciazione generale).
In essi la mistura di esperienza individuale e di creazione artistica è perfetta. Cadw, quindi, a proposito l’osservazione del Thomas, che così si esprime:
“Shooting an elephant and A hanging are among the best essays Orwell ever wrote, and they certainly provide the most classic examples of his method of progressing from the individual experience to the general conclusion” 10.
Nel primo lo scrittore racconta di come una volta fu costretto a uccidere un elefante, nonostante la ripugnanza che la cosa gli ispirava.
Egli, infatti, era stato vittima del codice comportamentale del “pukka-sahib”, secondo il quale il bianco doveva essere un perfetto e freddo cacciatore.
Da qui ha inizio una serie di considerazioni sulle condizioni dell’esercito coloniale inglese, dove l’essere tiranni si unisce ad una contemporanea mancanza di libertà, alla schiavitù nei confronti dei pregiudizi.
Incomincia la grande tematica di Orwell, il rapporto tra libertà dell’individuo e società.
L’altro aspetto interessante di questo racconto è il pessimismo che lo scrittore dimostra sulla capacità di una reazione efficace da parte degli oppressi. Sarà questa la caratteristica più sconsolata di Nineteen Eighty-Four.
Nel secondo racconto, A hanging, di una psicologia meno sottile, Orwell descrive l’impiccaggione di un indigeno.
Il raccapricciante avvenimento porta lo scrittore alla presa di coscienza della sostanziale ingiustizia della pena capitale, soprattutto quando essa è stata decretata da chi si è imposto con la forza a tutto un popolo.
“In nuce” in questi due racconti vi è la caratteristica fondamentale del modo di lavorare di Orwell; egli col suo grande bisogno di dire cose concrete, partiva dall’esperienza personale, come ha messo in evidenza il Thomas, indicando che:
“What is distinctive is his ability to record on the page the progress of a creative intelligence, producing ideas not from the ideas of the others, but from the experience of life itself” 11.
III
Ritratto del colonialismo inglese: il romanzo “Giorni di Birmania”
Il lavoro che fu destinato da Orwell a raccogliere tutta la complessità delle due esperienze in Birmania fu il romanzo Burmese days pubblicato nel 1934, ma scritto prima, anteriormente a Down and out in Paris and London che era stato pubblicato l’anno prima (come se lo stesso scrittore ci informa in Why I write).
In quest’opera appare per la prima volta la figura del tipico eroe orwelliano, velleitario e perdente nel tentativo di affermare la sua libertà individuale contro l’ostile ambiente sociale.
Il personaggio ha le sue radici nella stessa autobiografia di Orwell. Scrive infatti Manferlotti:
“L’autobiografismo trasforma il rapporto tra romanziere e scrittore-personaggio in un contrasto continuo, con effetti più evidenti, ma anche più stridenti nella trattazione del protagonista, Flory, nel quale Orwell vede se stesso. La figura di Flory è comunque d’importanza centrale nella produzione di Orwell perché è il primo esempio di eroe mutilato che si riprodurrà in tutti i romanzi, l’individuo che, inserito nel sistema, si ribella per essere schiacciato e nuovamente integrato” 12.
Il racconto è ambientato a Kyanktada in Birmania, e narra la storia di John Flory, un trentacinquenne mercante di legname ancora scapolo.
Intelligente e d’animo sensibile, Flory si rende conto che l’impero britannico si fonda su un ingiusto sfruttamento delle riserve naturali ed umane della Birmania.
Nel cap. III del libro, infatti, Orwell per bocca di Flory sciorina contro la sua patria una lunga serie di tremende accuse, la più ricorrente delle quali è quella di razzismo.
Ma Flory, come non ha difficoltà ad ammettere lui stesso, è un vigliacco, incapace di sfidare l’ambiente dei pukka-sahib che ogni sera si riuniscono nel circolo dei bianchi. La sua ribellione avviene solo ad un livello larvale, scoordinato, velleitario. Più che ribellione, anzi, essa è una avversione viscerale e senza sfogo.
Per questo egli vive in una continua macerazione interna simboleggiata dalla voglia bluastra e frastagliata che gli deturpa la faccia. Questa infati quasi scompare nei momenti di rilassamento emotivo per ricomparire viva in quelli di tensione.
Una serie di avvenimenti negativi gli danno coscienza della sua incapacità di cambiare l’odiato sistema. Elizabeth, la donna che ama, non lo capisce e si rivela una donnetta meschina e piena di pregiudizi e il malvagio U Po Kyin riesce nel suo disegno di rovinare il suo amico, il dottor Veraswami, anche grazie alla sua vigliaccheria che lo porta a firmare una petizione per la non ammissione del dottore al circolo dei bianchi.
La tragica conclusione di questo furoreggiare a vuoto sarà il suicidio del protagonista, suggello di un fallimento globale.
In questa prima opera di Orwell appaiono evidenti alcune incertezze (certi passi hanno l’aspetto di veri e propri saggi non perfettamente inseriti nella narrazione) ed alcune ingenuità (il suicidio del protagonista appare una soluzione troppo drastica), ma vi sono già alcune tematiche squisitamente orwelliane, come l’aspetto burattinesco e grottesco degli agenti del potere (si pensi alla psico-polizia di Nineteen Eighty-four).
Infatti:
“È vero che i ‘bianchi’ sono meno credibili degli ‘indigeni’, che Li Po Kyin risulta più a tutto tondo di un Macgregor e di un Westfield: ma questo ci permette anche di cogliere meglio quella caratteristica di burattini legnosi e scomposti che Orwell attribuisce ai ‘sahib’” 13.
IV
Nella pozzanghera del sottoproletariato: “Senza un soldo a Parigi e a Londra” e “La figlia del reverendo”
Orwell ritornò dalla Birmania nel 1927. Era arrivato in Inghilterra per una licenza; ma, una volta giuntovi, l’aria di casa lo fece rimanere.
Era confuso e deluso. Lui stesso scrive che a quell’epoca il fallimento gli sembrava la sola virtù di questo mondo. Troppi anni avevano passato al servizio di una politica da lui ritenuta ingiusta. Per troppo tempo aveva visto l’arroganza degli inglesi, le loro prepotenze sui birmani.
Tutte queste esperienze di vita oltrepassano in Orwell la pura esperienza personale per diventare palpitante materia d’arte. D’altro canto, dice Williams:
“The rigid distinction between “documentary” and “imaginative” writing is a product of the nineteenth century, and most widely distribuited in our own time. Its basis is a naïve definition of the “real world”, and then a naïve separation of it from the observation and imagination of men” 14.
Così Orwell, dal 1927 al 1932 fece il suo viaggio agli inferi con sempre più frequenti sortite nei bassifondi inglesi e francesi (nel periodo 1928-29, infatti, abitò a Parigi), fino a confondersi con la gran massa dei barboni, dei lavapiatti e dei ladruncoli di periferia.
In questa sua scelta a prima vista rivoluzionaria, personalmente credo che sia più da vedere una grande fame di dialogo. Orwell, infatti, volle vivere la povertà un po’ per espiare le colpe della sua classe – idea, in fondo, cristiana – e un po’ nel tentativo di scendere nel concreto dei problemi e di trovare una nuova comunità umana.
Delle sue esperienze sottoproletarie Orwell e lasciò traccia in Down and out in Paris and London del 1933 è in A elargyman’s daughter del 1935.
Con la prima delle due opere, il Nostro usò per la prima volta lo pseudonimo di George Orwell. Sembra che lo scrittore offrì al suo editore la possibilità di scegliere per lui fra tre nomi – Kenneth Miles, George Orwell, H. Lewis Hallways – mostrando però la sua preferenza per il secondo. George è uno dei nomi più diffusi in Inghilterra ed Orwell è il nome di un fiume del Suffolk.
L’aver scelto uno pseudonimo tanto artisticamente scialbo ce la dice tutta sulle intenzioni dello scrittore. Egli volle ergersi a portavoce dell’uomo medio dei suoi tempi. I suoi scritti volevano essere testimonianza della diuturna lotta dell’individuo comune alla ricerca di uno spazio di libertà contro l’oppressivo condizionamento sociale.
In questo senso, Down and out in Paris and London è il “reportage” di un’esperienza scapigliata nel tentativo impossibile di una evasione sociale.
Per questo: “In Down and out in Paris and London, for example, Orwell’s experiences in the world of the drunks, beggars, tramps, thieves, and prostitutes who live on the fringes of “civilized” society is seen as a descent into a seething, squalid inferno, a fantasy world where all is ugliness, noise, decay, rot, collapse” 15.
Un antecedente di questa opera può essere individuato in The people of the abyss di Jack London (in Italia potremmo citare “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao, come in Francia sarebbe d’obbligo ricordare “L’Assomoir di émile Zola).
Ma il Nostro non riesce – e forse non tenta nemmeno – a tenersi emotivamente lontano dai personaggi che descrive. Il libro, infatti, non vuole essere “realista” nel senso che al termine poteva dare uno Zola. Orwell non si propone semplicemente di descrivere il mondo dei poveri. Egli, piuttosto, vuol diventare uno di loro, vuole scrivere da povero.
Quindi, su uno sfondo estremamente razionale, connaturale alla natura dello scrittore:
“l’esigenza di espiazione dichiarata da Orwell è di natura moralistica così inerente alla sua personalità che non si presta ad essere analizzata più di quanto abbia fatto egli stesso. Ma ciò non vieta qualche ulteriore riflessione sul tratto del suo carattere che si è spesso definito “masochistico”, e su come tuttavia egli non sia riconducibile ad alcuna formula psicanalitica, ma soltanto all’implacabilità intellettuale che egli esercitava innanzitutto contro se stesso” 16.
L’andamento del libro, almeno nella sezione parigina, è vivace e lo stile è serrato e pieno di sottintesi ironici. L’opera è divertente ma vi è però una insanabile dicotomia tra la sezione parigina quella londinese.
C’è ancora da dire che qui Orwell inaugura un procedimento che porterà alla massima espressione in 1984: l’alternarsi delle parti narrative con vere e proprie pagine sagistiche.
In A Clergyman’s Daughter, invece, la discesa agli inferi Orwell la attua attraverso la mediazione della protagonista femminile, Dorothy Hare. Qui lo scrittore è lungi dall’avere raggiunto la disinvoltura nel maneggiare il materiale della sua opera. In lui ancora il rapporto tra letteratura documentaristica e letteratura immaginativa non era stato risolto nemmeno su un piano pratico (dato che su quello teorico egli non lo risolvette mai).
Nel romanzo vi è una sostanziale dualità, un essere, da parte dell’autore, dentro la protagonista per ciò che concerne la problematica interiore e fuori quando affronta la questione sociale, cosa che ci fa considerare l’opera fallita. Per noi il suo interesse consiste solo nel considerare come un momento di apprendistato di uno scrittore che deve ancora venire.
La trama appare piuttosto macchinosa. La protagonista è la pia, candida e zitella figlia di un reverendo. Il padre è taccagno, arido e frustrato. Alla mancanza di calore del suo ambiente, ella reagisce dedicando sia accanitamente ai suoi doveri parrocchiali. Ma sotto la fede religiosa in lei covano dubbi e turbamenti.
Una sera la ragazza subisce il tentativo di seduzione da parte di un tipo sensibile solo ai piaceri materiali e per questo ha una improvvisa perdita di memoria. Da qui incomincia la sua avventura tra i vagabondi, finché le tante peripezie non la fanno ritornare alla vecchia vita, ormai indifferente ai problemi della fede.
Dei libri del Nostro, comunque, questo è il meno riuscito e lo stesso Orwell, in seguito cercò di recuperarne tutte le copie per distruggerlo.
V
Il sistema liberista inglese, crimine totalitario della contemporaneità: “La strada per Wigan Pier”
Dopo le sue esperienze sottoproletarie – tanto dure che nel febbraio del ’29 era stato ricoverato all’Hôpital Cochin come paziente non pagante – Orwell, tra il ‘32 e il ‘36, insegnò a più riprese in alcune scuole private e lavorò come commesso in una libreria.
In questo periodo si espresse soprattutto a livello narrativo.
Nel 1936, per conto dell’editore Victor Collacz e del Left Book Club (di carattere comunista), il Nostro svolse una indagine nell’Inghilterra settentrionale, nelle zone più colpite dalla depressione economica. La sua attenzione, quindi, si spostò dal sottoproletariato al proletariato.
Anche questa volta Orwell non si limitò ad avvicinarsi alla materia del suo libro con lo spirito di chi vuole semplicemente fare un “reportage”. Egli si tuffò letteralmente nell’ambiente dei minatori. Volle abitare nelle loro case e scendere insieme a loro nelle miniere di carbone. Condivise disagi e ansie dei disoccupati. Per i suoi spostamenti, anche sotto le intemperie, volle sempre andare a piedi. Arrivò persino ad ambire ad ammalarsi ed a vivere la malattia nella casa di un minatore, come uno di loro.
Il volume che venne fuori da questa esperienza, The Road to Wigan Pier, apparve nel 1937, ma Orwell non ne vide la pubblicazione, perché a quell’epoca già da alcuni mesi si trovava in Spagna.
Nel libro colpisce il fatto che gli avvenimenti, gli ambienti, i personaggi scelti da Orwell appaiono immersi in una miseria ossessiva e sorda. Tutto in essi, più che il risultato di obiettiva registrazione, sembra il frutto di bisogno di espiazione. Nessuna gioia schiarisce mai il loro volto, nessun sorriso li sfiora. Più che esseri viventi, essi appaiono i fantasmi della coscienza inquieta e tormentata di Orwell.
L’opera, quindi, va giudicata più col metro della letteratura che con quello della sociologia. Non a caso essa appare divisa in due parti. Nella prima sono descritte le condizioni di vita dei minatori – evidentemente visti come simbolo universale della classe operaia inglese -. Nella seconda Orwell svolge una interessante analisi della sua classe sociale e dei rapporti che intercorrono tra essa e quella proletaria.
Questa ultima parte suscitò un vespaio di polemiche negli ambienti della sinistra ufficiale. Infatti in essa egli fece una dura requisitoria contro il carattere snobistico che spesso contraddistingue gli atteggiamenti della Sinistra cicisbea e banale.
Il libro, quindi, era destinato a lasciare il segno. L’editore Victor Gollancz non si aspettava un’opera tanto polemica e anticonformista. E, se pure decise di pubblicare lo stesso il libro, vi premise un suo scritto in cui si dissociava nettamente dalle idee espresse dello scrittore.
L’aspetto morale unisce le due parti del libro, parti che ad una lettura superficiale appaiono assolutamente slegate.
A questo proposito colpisce l’ammirazione che Orwell mostra per i minatori. Egli più volte definisce “belli” i loro corpi e ciò ci riporta a Burmese-Days dove anche i birmani sono definiti “belli” pure quando sono ingrassati.
Così il corpo dei minatori e dei birmani è quasi la metafora della bellezza interiore degli oppressi contrapposta alla volgare bruttezza degli oppressori.
Alla descrizione della vigoria sana del proletariato si accompagna la spietata analisi della decadenza morale e fisica delle dominanti classi liberiste.
In questo senso The Road to Wigan Pier anticipa le tensioni che daranno vita a 1984. In essa vi è la denuncia senza ipocrisia di una tragedia storica che ha caratterizzato il nostro secolo e che ancora appare lungi dall’essere stata superata. Mi riferisco allo squallore di una realtà d’oppressione che spesso si cela sotto i luccichii delle parole più rivoluzionarie.
Se 1984 è il mostrarci da parte dell’autore come il potere possa diventare tanto assoluto, soffocante e totalizzante, The Road to Wigan Pier può significare l’analisi delle premesse che portano a tale tipo di potere. Qui sta la mirabile coerenza dell’impegno morale letterario di Orwell, la sua indiscutibile continuità, il suo angosciante gridare nel deserto.
VI
I romanzi contro il totalitarismo conformista: “Fiorirà l’aspidistra” e “Una boccata d’aria”
Sebbene scritti in periodi diversi, i romanzi Keep the aspidistra flying e Coming up for air presentano una problematica molto simile. Anzi, meglio, essi racchiudono quasi il ciclo interiore della vita di Orwell, ciclo nel quale la prima opera è la fase velleitaria e disperata e la seconda e la rassegnata conclusione.
Keep the aspidistra flying fu scritto nel 1936 (ancora lo scrittore si firmava Eric Blair) e narra la storia di Gordon Comstock, ultimo rampollo, con la sorella zitella, della sua famiglia. Il dramma che lo affligge è proprio la mediocrità del suo ambiente. Dei suoi antenati, infatti, solo il nonno è riuscito a mettere su un po’ di soldi, quanto basta per prendere le abitudini e la mentalità del piccolo-borghese, ma non sufficientemente per far seguire i fatti alle velleità.
Fin da piccolo, Gordon è stato educato a un modello di vita superiore alle possibilità della sua famiglia. Lo si è voluto far studiare, sacrificando per questo la sorella (per l’educazione di questa non restava più una lira da spendere). Ma, forse per la poca vitalità di tutti i parenti (questa mancanza di vitalità appare quasi un male ereditario che pesa come un atroce destino sul protagonista), il risultato degli studi per Gordon è solo un fortissimo senso di estraneità dal mondo che lo circonda. La mancanza di denaro ha il sapore di una maledizione perché nell’ambiente ricco della scuola egli è il povero; l’inferiore (in ciò è facile leggere un riflesso delle esperienze di Orwell al St. Cyprian). Da tutto ciò in Gordon nasce una confusa volontà di riscatto. E qui si ripropone la più tipica tematica orwelliana: la lotta, cioè, dell’individuo contro la società che lo soffoca. Tematica che, più in grande, ritornerà il 1984.
Una volta finiti gli studi, Gordon si trova ad essere una specie di ibrido, né carne né pesce: troppo povero per entrare nell’ “élite” e contemporaneamente troppo segnato dalla sua educazione borghese per riuscire ad integrarsi veramente nella società dei poveri. In questo clima, il giovane matura la sua ribellione alla legge del denaro e decide di diventare un poeta. L’ironia della sorte vuole, però, che l’unico lavoro nel quale egli avrà successo sarà quello di scrittore di slogans e racconti pubblicitari. L’ironia sta nel fatto che la pubblicità è la prima e più mostruosa figlia della società del denaro (perché riduce il senso della vita al consumo di un prodotto). Ben presto la contraddizione nella quale la sua esistenza si ribatte diventa insopportabile per Gordon e, dopo la pubblicazione di un volumetto di poesie destinato a scarso successo, egli si licenzia dall’agenzia pubblicitaria. La decisione di Gordon è di vivere da povero per riacquistare la sua piena libertà di contestatore della società del denaro. Si cerca, quindi, un lavoro mal pagato presso un libraio e incomincia a vivere l’esperienza del rifiuto.
I risultati sono disastrosi. La povertà, più che difficile e dolorosa, risulta essere squallida e monotona. In essa il Nostro non trova eroismo, ma meschinità quotidiana. La società del denaro lega sia chi la adora, sia che la contessa. Per questo Gordon non riesce a portare a termine l’opera poetica che si era prefisso di scrivere; anzi, più che creare nuovi versi, egli finisce per ridurre e scorciare quei pochi frammenti che prima era riuscito a scrivere. Questa negatività simboleggia il suo procedere verso il nulla. Riesce a scrivere, coerentemente, solo una poesia in cui canta l’avanzarsi della stagione invernale (anche questa simbolo della morte) e gli effetti perversi della tirannia del denaro. Persino l’amore in Gordon è condizionato dalla legge del denaro. La sua stessa amicizia per un ricco intellettuale di sinistra, Ravelston, è inficiata alla base.
Il romanzo arriva a una svolta quando una rivista americana accetta di pubblicare una poesia di Gordon e gli spedisce 50 dollari. Egli, però, farà fuori in una sera tutto il denaro con una vergognosa ubriacatura della presenza della donna che ama e del suo amico. La conseguenza sarà il licenziamento del suo già miserabile lavoro e il suo scendere ancora più in basso nella scala sociale. Ma quando pare che Gordon abbia già toccato il fondo, la notizia che la sua ragazza aspetta un figlio da lui lo convince a smettere la sua protesta. Riprende il vecchio lavoro nella agenzia pubblicitaria e ridiventa un piccolo borghese, squallido e senza storia. Anzi, alla sua finestra compare una aspidistra, la pianta decorativa che c’è in tutte le case piccolo-borghese d’Inghilterra, la pianta che lui, più di ogni altra cosa, a me non odiato.
A proposito di questo romanzo bisogna dire che: “Gordon Comstock, l’eroe, o meglio l’anti- eroe di questo libro, è, assieme al protagonista del più tardo Una boccata d’aria, il personaggio più vicino al suo creatore” 17.
A parte il fatto che la trama del romanzo spesso ricalca troppo da vicino la vita dello stesso Orwell -gli studi giovanili, l’esperienza di commesso di libreria (mestiere che lo scrittore fece), la miseria – il messaggio che dal romanzo, viene, tutte le tirate che contiene sulla società del denaro, finiscono per rallentare notevolmente l’azione e farlo apparire un’opera a tesi, con tutta una serie di saggi infilati dentro.
La premessa dei mali del mondo e il motore di ogni azione umana è il denaro. Inutile appare ogni lotta dell’individuo per liberarsi di questa tirannica legge. Infatti: “By virtue of Gordon’s belief that money is the all-determining factor in every human feeling and relationship, the novel is able to maintain the tension between criticism of the formal, ordinary world and a criticism of attempts to escape it” 18.
Questo guardare in faccia le cose nella loro, come direbbe Machiavelli, “realtà effettuale” porta Orwell ad uno sconsolato pessimismo. Egli, in prima persona, aveva tentato la ribellione e i risultati erano stati veramente scarsi, dato che le ingiustizie che le classi più basse della società subivano erano rimaste intatte. Nel romanzo inoltre risultano di notevole interesse le osservazioni dello scrittore sulla pubblicità. Dietro il sorriso falso di un bevitore di birra che campeggia in un cartellone pubblicitario egli vide il vuoto della società contemporanea. La pubblicità è l’aspetto più vistoso della “società dell’avere”, come l’ha chiamata Eric Fromm. In essa non conta tanto la personalità che si ha, ma le cose che si possiedono: la macchina, i vestiti, i cibi esotici. Il risultato e la perdita della vita interiore dell’uomo. Egli vive la peggiore della schiavitù. Finisce per lavorare per tutta la vita come una bestia per inseguire un consumismo vorace.
In questo svuotamento dell’intelligenza Orwell vede la premessa della prossima guerra mondiale. Anzi, un certo punto del romanzo, Gordon sembra augurarsi che la fine di tutto venga presto, proprio perché è un mondo così inutile e vuoto non ha senso che viva.
Il secondo romanzo, Coming up for air, Orwell lo scrisse nel 1939, dopo che aveva già dato alle stampe The road to Wigan Pier e Homage to Catalonia. Ad esso lo scrittore lavorava almeno dall’ottobre del 1938. In una lettera che risale a quella data, indirizzata ad un certo John Sceats, agente di una compagnia di assicurazioni, gli chiede informazioni sulla sua professione. Questo ci dimostra ancora la maniera accurata con cui lo scrittore procedeva nello scrivere le sue opere. Egli badava molto al fatto che l’ambiente dei suoi romanzi fosse il più possibile una fedele riproduzione del reale. Amava raccontare solo ciò che conosceva bene: da qui la sua scarsa sensibilità per la storia, il suo vedere il presente come unico oggetto degno della sua attenzione.
La storia di George Bowling, il protagonista, è simile a quella di Gordon Comstock. Egli è cresciuto in un ambiente piccolo-borghese, dove l’unica ambizione è quella di sopravvivere alla meno peggio, e, fin da bambino, la frase più ricorrente che ha sentito è: “Non ce lo possiamo permettere”. Dopo aver combattuto nella I guerra mondiale, George trova lavoro in agenzia di assicurazioni, si sposa e fa dei figli. Entra, insomma, nel tran tran quotidiano piccolo-borghese e la sua vita, così, è punteggiata dalle scadenze delle rate da pagare e dalla malinconia dei rientri a casa, dove ogni sera lo attendono le isteriche tirannie della moglie le spersonalizzante cura dei figli. Per un’associazione d’idee nata dalla vista dei giornali che annunciano il rinvio del matrimonio di Re Zog, George Bowling ritorna col pensiero al passato al Lower Binfield, il suo paese d’origine. Nella piccola comunità della sua infanzia – Bowling ricorda – nonostante la miseria, gli uomini non vivevano in quell’inferno spersonalizzante che oggi sono diventate le città. Ognuno ricopriva un ruolo preciso che lo individualizzava.
Nei ricordi di George Bowling vi è poi un angolo sconosciuto del lago del suo paese dove c’era la possibilità di fare una pesca fortunata. Qui la simbologia della pesca è l’evidente metafora di una perduta quiete interiore. Una fortunata vincita della lotteria gli dà la possibilità economica di poter ritornare per qualche giorno al suo vecchio paese, di rituffarsi nel suo passato mitizzato. Ma troverà la sua città completamente trasformata modernizzata e i rari resti del passato sono banalizzati dall’uso consumistico che se ne fa. Egli, addirittura, riconosce la vecchia poltrona di casa sua in un locale pubblico, dove ha la funzione di dare all’ambiente un tocco di falso antico. Nel lago, poi, dove si era proposto di tornare a pescare troverà solo un deposito di immondizia e un luna park per i bambini del quartiere.
A questo punto, a George Bowling non resta che la via del ritorno, alle quotidiane prepotenze dei figli, alla tirannia isterica della moglie.
L’arte di George Orwell in quest’opera dimostra di essersi alquanto raffinata rispetto a Keep the Aspidistra Flying. Lo scrittore ha acquistato la capacità di sciogliere le sue considerazioni nella trama. Si potrebbero, per esempio, citare le deliziose pagine nelle quali è descritto l’effetto che fa sul protagonista il mangiare un panino col frankfurter in un locale. A parte l’orribile sapore del miscuglio, Bowling si accorge che la salsiccia è fatta di pesce. Da qui nasce la considerazione che nel mondo contemporaneo ogni cosa è fatta con qualcos’altro; considerazione che, allargandosi, investe la totale falsità del vivere odierno. La stessa opposizione tra individuo e società in quest’opera non si esprime come contrapposizione frontale, ma viene simboleggiata con la fuga dell’infanzia, il che denuncia un aggravarsi del pessimismo dello scrittore, un aumento della sua sfiducia nella capacità di lottare dell’individuo. Il romanzo però, presenta ancora la frattura che quasi sempre ha diviso le precedenti opere di Orwell, come già messo in evidenza Elena Croce: “… in Una boccata d’aria vi è indiscutibilmente una frattura tra l’unità di tono della prima parte, l’andamento diseguale della seconda, questo non corrisponde alcuna scissione tra l’intelletto radicale e l’anima conservatrice dello scrittore (come invece ha sostenuto Isaac Rosenfeld, nota mia), bensì semplicemente al contrasto su cui è costruito il racconto, fra la consistenza che assume nella memoria il mondo della prima giovinezza, e l’incerto andamento di un’avventura, o meglio di un tentativo di evasione, tentato, nella maturità, dal protagonista” 19.
Il grande Orwell non si vede ancora, insomma, se ne intravedono solo i contorni.
VII
La guerra civile spagnola senza la retorica conformista: Omaggio alla Catalogna
Dal 1936 al 1940 la guerra civile insanguinò la Spagna e molti intellettuali anti-fascisti videro in essa il luogo di scontro tra due modi inconciliabili di intendere la vita. Si assistette, così, ad una internazionalizzazione del conflitto che sembrò preludere ai termini ideologici con i quali, poi, si è imposta la II guerra mondiale.
Al di là degli interventi ufficiali delle varie nazioni (Italia, Germania, Unione Sovietica), la novità della guerra di Spagna fu l’accorrere sotto le bandiere repubblicane degli uomini delle cosiddette Brigate Internazionali. Gli anti-fascisti di tutti i paesi trovarono in Spagna la maniera di combattere un regime che, spesso, era stato più forte di loro in patria.
Di fronte a questi avvenimenti, la posizione del governo inglese fu di neutralità. Ma, in compenso, abbastanza numerosi furono i volontari inglesi. Li organizzava il Partito Comunista Britannico, nato nel 1920.
Il primo gruppo che partì fu quello capeggiato dagli operai San Masters e Nat Cohen. La prima inglese morta in terra di Spagna fu l’artista Felicia Browne.
Non mancarono fra i volontari inglesi, che raggiunsero il numero di 4000, i nomi illustri: lo scienziato Lorimer Birch, gli scrittori Auden, Spender, Cronford e il nostro Orwell.
Per spiegare questo entusiasmo degli intellettuali per la lotta che si svolgeva in Spagna possono risultare illuminanti le parole che al riguardo ha scritto Stephen Spender:
“… lo scrittore che si rifiuta di prendere atto della natura della nostra epoca si estranea da un’esperienza nella quale è anch’egli coinvolto. Ma perché non deve rifiutare? Perché una sua esclusione dagli avvenimenti influirebbe sul valore delle sue opere” 20.
Inoltre, in Spagna vi era l’occasione di un riscatto etico: la possibilità di combattere concretamente per le proprie idee, di abbandonare le parole a favore dei fatti.
Infatti, dopo il dilagare della guerra civile si offre all’intellettuale: “… da una parte l’occasione di rendere operante una scelta di classe, dall’altra sembra dimostrare che è ancora possibile per l’individuo, più che per il poeta, decidere con la partecipazione a una giusta causa il destino dei popoli” 21.
Insomma, per molti intellettuali la guerra di Spagna fu l’occasione per trovare una nuova linfa d’arte e per reinserirsi nel circuito della storia.
Rispetto a Spender, Auden e gli altri, Orwell, però, arrivo in Spagna in maniera più casuale. Ciò risulta da uno scritto trovato dopo la sua morte, Notes on the Spanish Militias.
Egli voleva andare in Spagna per raccogliere del materiale ed eventualmente per combattere (solo se, una volta lì, avesse ritenuto che ne valesse la pena).
Per fare ciò, si era rivolto a John Strachey del Left Book Club, il quale lo aveva presentato a Herry Pallit del Partito Comunista. Ma, alla domanda se fosse stato eventualmente disposto a far parte di una brigata internazionale, lo scrittore rispose di no, almeno fino a quando non si fosse reso conto di persona della situazione.
Per questo l’incontro non approdò a nulla. Orwell, poi, si era rivolto al Partito Laburista Indipendente, formazione molto più tollerante sul versante della disciplina interna, che lo aveva fornito di una lettera di presentazione indirizzata a John McNair, un iscritto che già operava a Barcellona.
Orwell arrivò in Spagna verso la fine di dicembre lì si arruolò sulle milizie del P.O.U.M. (Partito Operaio di Unificazione Marxista), una organizzazione di Estrema Sinistra vicina alle idee trotzkiste, dissidente dalla linea staliniana dei partiti comunisti ufficiali.
Il libro di Orwell prende l’avvio dal momento della sua adesione al P.O.U.M. Già nell’”incipit” lo scrittore ci dà uno spaccato di quello che era lo spirito che animava i combattenti. La descrizione che egli fa di un miliziano italiano è di quelle che s’imprimono bene nella memoria per la caratteristica che ha di simbolo di un’intera categoria umana. Egli è massiccio e rozzo, ma ingenuamente fiero e pieno di vita (ed è sintomatico che Orwell, nel descrivere una delle poche figure simpatiche della sua letteratura, dice che aveva “una faccia da anarchico”). Sembra che egli avesse già intuito che la disciplina di partito è la premessa della morte spirituale di 1984.
Il libro, lasciata ben presto l’intonazione modernamente epica, s’inoltra nella descrizione della vita di trincea, dove la cosa che salta subito agli occhi è l’estrema disorganizzazione e l’approssimazione con cui pareva che la guerra fosse affrontata.
Il Nostro, però, in questa girandola di entusiasmi, slogan ed eroismi non dovette trovarsi troppo male. I suoi compagni erano le persone più vicine al suo ideale di vita: individui che credevano soprattutto nella loro personale libertà e combattevano contro la società che mortifica la persona singola.
Tornato dal fronte in licenza a Barcellona, Orwell visse le giornate del maggio 1937, quando si scatenò la lotta tra i comunisti teleguidati dall’URSS e le formazioni trotzkiste ed anarchiche. Evidentemente, qui incominciò la crisi dello scrittore, crisi che si svilupperà fino alle estreme conseguenze di Animal Farm e di 1984.
Trattasi, prima di tutto, della sfiducia nella possibilità dell’uomo di conquistare la libertà. La Spagna è un sogno svanito sotto i colpi della “real politik” sovietica. Lì le idee sono state strumentalizzate. Ai comunisti, infatti, sembra che interessi di più lottare contro le altre formazioni di sinistra che contro i franchisti…
Evidentemente, in ciò c’era più un progetto di egemonia che di liberazione. Rientrato al fronte, Orwell venne seriamente ferito alla gola nell’assedio di Huesca. Durante la convalescenza, il P.O.U.M. venne dichiarato illegale ed il Nostro, di colpo, si ritrovò ad essere, da generoso combattente per la libertà, un bieco traditore da uccidere.
Lo scrittore per salvarsi dovette nascondersi e fuggire dalla Spagna. Così:
“L’esperienza spagnola di Orwell è dunque segnata da una progressiva disillusione: nei confronti delle forze politiche che alla prova dei fatti si mostrano strumenti di conservazione, di disarmo ideologico e materiale delle masse in lotta (gli staliniani), e nei confronti di formazioni di sinistra dai contorni sia organizzativamente che programmaticamente confusi, che contribuiscono ad accrescere la sensazione di caos sul piano politico come su quello militare, anche il rischio d’esserne le prime vittime (gli anarchici, lo stesso P.O.U.M.)” 22.
Ma a questo punto sarà bene chiarire il carattere non autobiografico della delusione di Orwell, come giustamente sottolinea Lionel Trilling, che così scrive:
“Orwell’s book, in one of its most significant aspects, is about disillusionment mith communism, but it is not a confession” 23.
I termini della crisi di Orwell andavano più in là del semplice risentimento personale. Egli incominciava a vedere la storia come semplice lotta per il potere ed incominciava a vedere lo svilupparsi del potere come uccisione della storia dell’uomo.
VIII
Il capolavoro: “La fattoria degli animali”
Come una introduzione all’introduzione che Orwell scrisse – ma non pubblicò – ad Animal Farm, Bernard Crick, il biografo ufficiale dello scrittore, ci narra la storia e le peripezie della travagliata pubblicazione di quest’opera.
George Orwell da sempre aveva incontrato difficoltà a pubblicare i suoi lavori. Gollancz, il suo principale editore, aveva già mosso obiezioni a The road to Wigan Pier e poi rifiutato per motivi politici Homage to Catalonia (che era stata pubblicata da Warburg).
Anzi, a proposito di Gollancz, bisogna dire che:
“Mai un editore ha tentato con più accanimento di tenersi legato un autore i cui libri migliori tranquillamente disprezzava” 24.
Ma, questa volta, lo scrittore trovò addirittura un’ostilità generalizzata. Dopo il rifiuto di Gollancz (che egli aveva previsto, tanto da anticiparlo nella lettera che accompagnava la presentazione del manoscritto), Orwell si rivolse all’editore Cape, ottenendo il secondo rifiuto. Alla paura nata dal conformismo politico, in questo secondo caso, si aggiunse una obiezione talmente sciocca che lo scrittore la giudicò meritevole di essere riportata nella sua introduzione. Cape lamentava il fatto che lo scrittore avesse satireggiato i sovietici, allora alleati dell’Inghilterra, presentandoli come maiali, cosa che avrebbe suscitato la loro ben nota suscettibilità.
La terza casa editrice che rifiutò il manoscritto fu la “Faber and Faber”, della quale era socio il grande poeta T.S. Eliot. Questi fece le stesse obiezioni di Cape, pur riconoscendo il valore letterario dell’opera, e qui commenta sibillinamente Crick:
“Che differenza dal coraggio politico di Eliot nei suoi saggi degli anni Venti su Criterion, quando egli era così vicino a Ezra Pound tanto in politica quanto in poesia: Pound ammirava allora Mussolini”. 25
La differenza forse era nel momento storico, dato che nel bel mezzo della guerra gli intellettuali vedevano solo la necessità di vincerla e quindi non intendevano irritare un loro alleato.
“A questo punto Orwell deve aver disperato di far pubblicare il suo libro per vie normali, e forse dichiarò guerra alla viltà dei famosi editori commerciali” 26.
Si rivolse così al suo amico Paul Potts, un poeta senza successo, legato a una stamperia anarchica, la “Whitman press”.
Orwell doveva pagare il tipografo, mentre la casa editrice gli avrebbe messo a disposizione la carta.
All’ultimo momento, però, Warburg accettò di pubblicare Animal Farm. Orwell allora accantonò l’idea di pubblicare l’introduzione molto dura che aveva preparato.
Nell’introduzione Orwell aveva fatto una coraggiosa requisitoria contro il conformismo culturale della sua epoca. Lo scandalizzava il fatto che, pur non esistendo una censura ufficiale, tutti gli editori e i giornali applicavano una specie di auto-censura.
Contro tale conformismo rivendicava la libertà dell’individuo e la volontà di combattere il plagio sociale. Era la vecchia tematica di Orwell: l’individuo che resta schiacciato dalla società.
La trama di Animal Farm è di una semplicità lineare e ricalca da vicino il nascere e l’affermarsi del comunismo in Russia. Major è un porco premiato a molte esposizioni e padre di ben 400 figli. Egli, quindi, non è stato castrato come gli altri maiali ed è stato destinato solo alla riproduzione.
Una sera egli convoca tutti gli animali della sua fattoria, di proprietà del sig. Jones. E, una volta riunite tutte le bestie, fa una spietata analisi delle condizioni di sfruttamento a cui l’uomo ha ridotto gli animali. Poi, il maiale narra un suo sogno nel quale ha visto la vita felice degli animali, una volta che questi si sono affrancati dalla tirannide dell’uomo.
Finisce il suo discorso incitando le bestie a rivoltarsi contro l’uomo e insegna loro un inno dell’intonazione guerriera.
Dopo tre giorni il vecchio verro muore, ma il suo insegnamento non è andato perduto. Gli animali, una sera che Jones è tornato a casa ubriaco ed ha dimenticato di dar loro da mangiare, insorgono e scacciano l’uomo della fattoria instaurando il loro regime.
Fin dal primo momento, però, i maiali, che sono gli animali più intelligenti, prendono la guida della nuova società. Si impongono soprattutto Napoleon e Snowball, il primo perfetto organizzatore e l’altro grande trascinatore di folle.
A difesa dei principi dell’animalismo, vengono scritti a caratteri cubitali ben sette comandamenti, dei quali il primo, e più importante, rende solenne il principio della uguaglianza fra gli animali. Recita infatti:
“ALL ANIMALS ARE EQUAL”.
Ben presto fra i due capi ribelli scoppia una lite, in seguito alla quale Snowball è costretto a fuggire dalla fattoria. Napoleon, così, diventa un dittatore incontrastrato e la situazione si involve sempre di più.
Napoleon e i suoi maiali diventano i nuovi padroni, altrettanto tirannici dei vecchi. Al motto dell’animalismo viene fatta un’aggiunta che lo snatura. Diventa:
“ALL ANIMALS ARE EQUAL. BUT SOME ANIMALS ARE MORE EQUAL THAN OTHERS”.
Tutti gli animali sono uguali. Ma alcuni sono più uguali degli altri.
Una mattina gli animali si accorgono di aver perso le loro illusioni vedendo Napoleon e gli altri maiali camminare su due zampe, esattamente come gli odiati e tanto faticosamente sconfitti uomini.
La satira di Orwell, come si vede, è di un pessimismo cupo e senza speranza.
Essa segue abbastanza fedelmente l’evoluzione politica dell’Unione Sovietica. Dietro Major non è difficile scorgere Lenin, come facile appare il parallelo tra Napoleon e Stalin e tra Snowball e Trotzkij.
La nascita in Russia del primo Stato socialista del mondo aveva acceso speranze ed entusiasmi enormi. Si credeva che i lavoratori di tutto il mondo dovessero finalmente incominciare a liberarsi delle loro catene. Il fatto, poi, che il comunismo ben presto si fosse tramutato in dittatura personale di Stalin, in totale negazione della libertà, in catene tanto pesanti quanto quelle di prima, aveva reso la delusione ancora più amara.
Orwell fu colui che tradusse questa delusione in evidenza letteraria, dandole una dimensione di favola. Se il suo pessimismo parte da una situazione storica precisa, le conseguenze sembrano essere la sfiducia nelle possibilità dell’uomo in generale, la più volte ripetuta sfiducia nella capacità dell’individuo di salvarsi dal condizionamento sociale.
In questo senso Orwell oltrepassa la contingenza storica e ci dà una lezione universale, almeno per quel che riguarda la nostra epoca.
Bisogna, quindi, superare la prima tentazione, la più facile: quella di leggere l’opera in chiave di puro anticomunismo. A ciò non si sono sottratti intellettuali di parte anticomunista. Armando Plebe, per esempio, in un articolo apparso sul Secolo D’Italia, così ha scritto:
“Ed ecco invece che si riscopre ora un Orwell appassionato anticomunista, deluso della sua milizia rossa ed implacabile accusatore delle ipocrisie e delle crudeltà dei marxisti. Il capolavoro di questa sua sinora poco conosciuta battaglia anticomunista è una satira del 1946, intitolata Animal Farm, “Fattoria degli animali”: in esso nello stile del celebre umorista Jonathan Swift, Orwell ridicolizza soprattutto il regime ed i notabili dell’Unione Sovietica. Egli parte dalla scoperta, che ritiene d’aver compiuto, secondo cui gli animali di una data razza si assomigliano più degli altri: un maiale è assai più simile ad un altro maiale che non un cane ad un altro cane. Ne consegue che quel regime che pretende di fondarsi sull’uguaglianza di tutti gli uomini prende a suo modello la razza animale che non è certo la più nobile e che, nella spietata scrittura di Orwell, si presta particolarmente a simboleggiare il trionfo del materialismo dei dirigenti sovietici” 27.
Qui, a parte l’evidente travisamento del pensiero di Orwell, che non pensò mai ad alcuna strana teoria secondo la quale l’aspirazione all’uguaglianza avesse a modello i maiali, vi è un’operazione di vera e propria riduzione del messaggio del libro agli interessi di una parte politica.
L’esperienza che Orwell descrive in Animal Farm, infatti, era un’esperienza della quale lui stesso soffriva. Egli parla del tradimento da parte del potere degli ideali di uguaglianza e la sua satira è satira del potere, non di questi ideali.
Il riferimento, quindi, a precisi fatti storici è dovuto alla poetica di Orwell. Egli era contrario alle astrattezze ed aveva sempre bisogno di radicare le sue riflessioni nel concreto delle esperienze a lui contemporanee.
Così, nella crociata contro il potere, Orwell alla levità della favola satirica avrebbe presto preferito il ben più denso e ben più cupo pessimismo di 1984.
Parte II
1984 (NINETEEN EIGHTY-FOUR)
IX
Utopia e antiutopia
Con Animal Farm Orwell era pervenuto a risultati d’arte definitivi. L’opera resterà il suo capolavoro per la freschezza della rappresentazione, per la proprietà del linguaggio e per il distacco (che, evitando il tono concitato, favorisce la chiarezza) con cui sono tratteggiati i personaggi oggetto della sua satira. E, inoltre, non so quante altre opere moderne si potrebbe, come a questa, adattare l’antico detto: “Castigat ridendo mores”.
Con Nineteen Eighty-four, invece, lo stile di Orwell s’appesantisce e s’incupisce. Il Nostro sembra essere tornato al gusto per i paesaggi squallidi delle sue prime opere. In lui la visione del mondo e del futuro si è ormai fatta estremamente pessimista: per l’umanità non è prevista alcuna salvezza. Si direbbe quasi che egli leopardianamente sia passato dal pessimismo storico (l’incapacità, sottolineata in Animal Farm, dell’umanità di migliorare realmente le proprie condizioni di vita) al pessimismo cosmico (tutto nell’uomo, anche le sue parti più intime e segrete, può essere ridotto a niente dal potere).
Giustamente osserva Praz che ora nel mondo:
“l’incubo è ormai diventato il totalitarismo, e su questa via George Orwell (1902-1950), già autore di una gustosa satira della Russia sovietica in Animal Farm (1945), ha lasciato un romanzo utopico ben più impressionante della vaudevillesca favola di Huxley, Nineteen Eighty-four (1949), ove la condizione dell’uomo ridotto all’estremo dell’abiezione e della capitolazione della propria dignità è rappresentata sotto una luce così sinistra da far impallidire, nel campo del sensazionale se non in quello dell’arte, perfino la descrizione swiftiana degli Yahoos” 28.
Gli antecedenti di quest’opera, quindi, vanno cercati in Swift. Dei Gulliver’s travels Orwell fu attento lettore e critico. Senza dubbio, infatti, i suoi principali modelli, quando si accinse a decsrivere il mondo rarefatto del 1984, furono gli Houyhnhnms, come facilmente si evince leggendo questo passo:
“The houyhnhnms, creatures without a history, continue for generation after generation to live prudently, maintaining their population at exactly the same level, avoiding all passion, suffering from no deseases, meeting death indifferently, training up their young in the same process may continue indefinitely” 29.
Così, nella società che Orwell immagina che si affermerà nel 1984 l’incubo non è rappresentato, come in molte altre opere antiutopistiche, né da immani carneficine alla Hitler, né dai problemi alimentari di un mondo sovraffollato. Piuttosto la paura del futuro è dovuta alla piega esasperatamente razionalista che ha preso la civiltà del presente.
Infatti, è già stato notato che:
“anche i critici più severi nei confronti del valore letterario del romanzo sono disposti ad ammettere che Orwell è riuscito a rendere con molta efficacia lo squallore e l’oppressione di una vita interamente controllata da una organizzazione collettiva onnipresente”30
L’eccesso di razionalizzazione, avverte Orwell, volendo risolvere tutti i problemi umani, finirà per tradursi in tecnologia avanzata e onnipresente, dalla quale l’individuo, il singolo resterà schiacciato. Tutto, in questa società, deve avere una sua collocazione razionale. Tutto sarà incasellato ed inquadrato. Tutto deve restare immobile. La personalità di ogni uomo coinciderà con la sua immagine pubblica, con la funzione che ha nell’ambito della collettività. Il diverso, ciò che non può essere catalogato sarà eliminato. Il Peggior delitto sarà quello di avere una vita intima, pensieri propri, una propria fantasia.
Per questo terribile quadro del futuro che Orwell prospettò ai suoi contemporanei lo si è voluto collocare fra gli autori della cosiddetta antiutopia (come ha fatto, per esempio, il Daiches). A mio parere, però, una distinzione tra utopia e antiutopia non appare molto giustificata, soprattutto se si osserva che per Orwell la negatività del futuro nasce proprio dall’utopia razionalista (e ciò avrò modo di mostrarlo meglio, quando la mia analisi di 1984 scenderà più nel dettaglio).
L’antiutopia, così, non è altro che la presa di coscienza dei pericoli insiti nell’utopia. Infatti, la morte dell’individuo nasce già quando si pretende di creare a tavolino un “modello di vita felice” valido per sempre e per tutti. I tentativi utopistici hanno una storia antica. Le loro radici affondano nell’idealismo platonico.
In Inghilterra, particolarmente, c’è una ricchissima tradizione di opere utopistiche. Lo stesso nome del genere letterario è nato lì. Utopia, infatti, è il titolo di un’opera di Tommaso Moro, dove viene descritta un’isola ipotetica e impossibile (“U topos”, in greco antico, vuol dire: nessun luogo) sul filo di una poetica e platonica fantasia, come fecero l’italiano Tommaso Campanella nella Città del sole e H.G.Wells nell’Utopia moderna.
Una grande fioritura di opere fantastiche si è avuta nella 2° metà dell’Ottocento e nel nostro secolo. E in quest’ultimo periodo è nata l’altra faccia dell’utopia: l’antiutopia.
Con l’antiutopia il pessimismo prende il posto dell’ottimismo. Gli autori cominciano a guardare criticamente sia al presente che al futuro che da questo nascerà. Le opere non sono più la proposta di una società perfetta e razionale, ma diventano la denuncia, la critica dei presupposti sui quali la società tende a svilupparsi.
In Inghilterra, per esempio, ci fu Edward George Bulwer-Lytton (1803-1873). Egli oggi è noto quasi esclusivamente per il “best-seller” Gli ultimi giorni di Pompei, ma fu anche autore di un romanzo fantastico: The coming race 31. Esso nel novero della letteratura fantastica segna l’inizio di un filone particolarissimo, quello
dell’“antiutopia positiva”, dove viene prospettato un modello di società, di volta in volta o contemporaneamente, basata sull’aristocrazia, sulla gerarchia e sui valori morali e intellettuali, oscillando tra una visione agricolo-pastorale e una gerarchico-militare. Più che di immaginazione del futuro, come si vede, si tratta di proiezione nel futuro di un mitico passato. È una maniera di contestare l’evoluzione che la società lascia intravedere voltando la testa all’indietro.
Orwell (sebbene i legami tra i due autori non siano immediatamente visibili), profetizzando sulle future sventure, fa lo stesso discorso. Infatti, io credo che noi non siamo in grado di pensare quello che sarà, altrimenti che con quello che è già stato; e chi immagina che l’utopia è l’avvenire, spesso non si rende conto di decifrare il futuro con la chiave del passato.
Per questo, quando, più sopra, ho usato il verbo “profetizzare” non sono stata molto esatto nell’esprimere il mio pensiero. Io credo, infatti, che 1984 sia stato da molti frainteso. Molti lo hanno letto in chiave di profezia, mentre a me pare che esso vada studiato (come tutte le opere antiutopistiche coeve, compresa quella di Huxley) soprattutto per capire il contesto storico in cui è nato. Ciò lo ha scritto chiaramente lo stesso Orwell in una lettera a Francis A. Henson del 16/6/1949. Ecco le sue parole:
“Io non credo che il tipo di società che descrive debba necessariamente arrivare, ma sono convinto che qualcosa del genere potrebbe verificarsi” 32.
Ha, quindi, ragione Ferdinando Castelli, quando scrive:
“In realtà, Orwell non ha voluto fare profezie (anche se ciò lo ha lusingato); ha voluto mostrare dove potrebbero approdare talune concezioni e tendenze politiche e scientifiche, se non corrette e frenate. Più che di profezia, si tratta dunque, d’intuizioni e di premozioni” 33.
L’antiutopia, quindi, non è (o, almeno, non lo è stato per Orwell) un fantasticare sul futuro, ma una presa di coscienza critica del presente. In questo senso, come direbbe Lucàcks, in 1984 c’è il “rispecchiamento della realtà”, come in tutte le grandi opere.
X
La storia ufficiale è un inganno: individuo, società e potere
“It was a bright cold day in April, and the clocks were striking thirteen. Winston Smith, his chin nuzzled into his breast in an effort to escape the vile wind, slipped quickly through the glass doors of Victory Mansions, though not quickly enough to prevent a swirl of gritty dust from entering along with him” 34.
Con questo “incipit” dall’andamento lento, pausato, quasi annoiato, incomincia una delle più terrificanti avventure che mente umana abbia mai partorito. Qui, in verità, Orwell rivela tutta la finezza della sua arte. Egli ci porta, infatti, nella società del 1984 senza ricorrere ad alcuna descrizione spettacolare. Mostra e descrive col tono dimesso di chi parla delle cose più normali.
Tale scelta di stile è funzionale al messaggio dell’opera. Non avendo alcuna intenzione di fare profezie e di darsi alla fantascienza, come ho già dimostrato nel paragrafo precedente, il Nostro ha voluto descrivere quello che poteva essere un possibile sviluppo di certi atteggiamenti mentali a lui contemporanei.
L’ambiente di 1984 non è il frutto di radicali ed improvvisi cambiamenti (cosa che poteva giustificare la scelta della spettacolarità), ma il risultato di una lenta evoluzione. Per questo, le persone che vivono nel contesto descritto nel romanzo non possono comportarsi se non secondo le regole della più banale quotidianità. Ad esso, infatti, hanno avuto tutto il tempo di abituarsi. Lo stile, così, ha l’effetto d’ingigantire la dimensione paranoica e pessimista nella quale sono collocati gli avvenimenti. Forse è stato ciò che ha fatto scrivere al Phelps:
“The tone is frequently shrill and histerical, and the characterization notably wooden” 35.
Ma a risposta si possono citare queste parole dell’Howe:
“Lo stile di 1984, che molti lettori ritengono sciatto e poco ispirato e faticoso sarebbe stato apprezzato da un Defoe, perché egli avrebbe capito subito che le esigenze imperiose della materia scelta da Orwell, come nel caso suo, richiedevano una puntigliosa aderenza alla realtà. Lo stile di 1984 è quello di un uomo il cui impegno di rendere integralmente una visione spaventosa entra in conflitto con la nausea che quella visione gli dà. Questa visione è così acuta che delicatezza di fraseggio e abbellimenti retorici finiscono per sembrare qualcosa di futile – egli non ha tempo, egli deve registrare tutto con fedeltà -. Coloro che non lo capiscono hanno ceduto, ne sono convinto, alla dolce tirannia dell’estetismo”36.
Maggiore aderenza alla realtà, quindi, per sottolineare più efficacemente l’incredibile aspetto che essa avrebbe assunto. E in ciò Orwell volle essere coerente fino in fondo. Per questo il protagonista del romanzo si chiama Winston Smith. Con un nome del genere egli sarebbe stato davvero poco credibile come eroe d’un romanzo di fantascienza (come rischiava di essere recepito 1984).
Egli si pone, piuttosto, come simbolo dell’inglese medio. Winston era, infatti, il nome di Churchill, colui che nel 1949 (l’anno in cui il romanzo uscì) pareva incarnare l’anima inglese, con tutto il suo carico di orgoglio e frustrazioni (orgoglio per la recente vittoria sul nazismo; frustrazioni perché dalla guerra, rispetto agli U.S.A. e all’U.R.S.S. che s’erano spartite il mondo, l’Inghilterra ne era uscita piuttosto malconcia). Smith, poi, è il cognome inglese più diffuso.
Winston Smith, lungi dall’essere un eroe, perciò, è l’incarnazione di una condizione umana, un simbolo astratto della “lower-upper middle-class”. In ciò è parente del “pukka-sahib” Flory di Burmese Days, di Gordon Comstock, lo scrittore di slogans pubblicitari di Keep the Aspidistra Flying, di George Bowling, l’assicurazione di Coming up for Air. Tutti e quattro sono vittime, uomini la cui personalità è stata nullificata dal sistema. E inoltre (e in ciò sono uguali a tutti i protagonisti orwelliani e allo stesso Orwell) tutti e quattro, più che la rivoluzione, concepiscono la rivolta isolata, in termini che sempre si rivelano velleitari.
Ma torniamo al romanzo. Il mestiere di Winston Smith è quello del giornalista. Ma, nella società del 1984 quando il Socing (Socialismo Inglese), sotto la guida di un mitico e sempre incombente Grande Fratello, ha ormai consolidato il suo potere in Oceania (il grande raggruppamento di nazioni del quale fa parte l’Inghilterra), il mestiere del giornalista è diventato piuttosto strano. Esso, infatti, non consiste più nel riferire le notizie, ma nel cancellarle; nel far cioè scomparire dalle collezioni di giornali delle biblioteche di stato tutti quegli avvenimenti e tutti quei personaggi che il regime ha deciso di far dimenticare.
Inoltre, Winston deve riempire gli spazi che così restano vuoti inventando di sana pianta fatti nuovi, seguendo le indicazioni delle veline che gli arrivano continuamente.
Così, i giornali, ciò che in futuro sarà la fonte degli storici, vengono sistematicamente riempiti solo di “verità” ufficiali. In tal modo il passato viene totalmente cancellato e continuamente “aggiornato” e la storia, almeno nei termini in cui la intendiamo noi, finisce di esistere.
Gli unici documenti che vengono lasciati ai posteri sono un cumulo di spudorate bugie e, man mano che gli uomini dimenticano, tutti gli eventi scompaiono nel nulla. Nel futuro a tecnologia avanzata di 1984 si ritorna a una nuova preistoria, a un “passare” silenzioso dell’umanità, senza che resti traccia alcuna dei suoi sogni e delle sue sofferenze.
Per questo può succedere che:
“The Party said that Oceania had never been in alliance with Eurasia. He, Winston Smith, knew that Oceania had been in alliance with Eurasia as short a time as four years ago. But where did that knowledge exist? Only in his own consciousness, which in any case must soon be annihilated. And if all others accepted the lie which the Party imposed – if all records told the same tale – then the lie passed into history and became truth. “Who controls the past”, ran the Party slogan, “controls the future: who controls the present controls the past”” 37.
La creatività del Partito, quel suo proiettarsi sul futuro confezionando una storia ufficiale, ha le sue radici nello spirito di distruzione. Anzi, si potrebbe dire che la sua opera consiste solo nel distruggere ogni traccia di vera esistenza; in cambio esso dà solo vuoto, facciate di slogans che non vogliono dir nulla, non-esistenza.
Non si sa nemmeno se esiste realmente il Partito e lo stesso Grande Fratello. Per quel che Orwell ci fa capire, egli potrebbe benissimo essere solo un’immagine, un’icona del potere, senza che dietro vi sia una persona reale. L’ipotesi è terribile davvero: lo svuotamento dell’uomo in cambio di che cosa?
Di puro vuoto!
XI
Il Grande Fratello, ovvero il Male Assoluto è il totalitarismo statolatrico
Il correre dell’umanità verso il vuoto Orwell – sebbene ancora a un livello confuso e larvale – l’aveva intuito in Keep the Aspidistria Flying. Gordon Comstock, il poeta vittima della società basata sul denaro, era anch’egli caduto in questa negatività. Infatti, in tutto il periodo della sua “boheme”, nel tentativo disperato di scrivere il poema della sua vita, anzicchè scrivere nuovi versi, era andato man mano distruggendo i pochi che aveva scritto prima.
Il mestiere del poeta non ha senso, infatti, in una società schiava della ferrea logica del profitto. È stata, forse, questa la grande intuizione di Orwell. Egli è andato, anche se senza molta coscienza teorica, alla radice dei mali a lui contemporanei: vedeva che piano piano la società andava prendendo uno sviluppo unidimensionale.
Adesso, in 1984, la negatività della quale era stato vittima Comstock si è allargata a tutta l’esistenza. La logica del denaro si è sempre più inaridita, è diventata razionalismo deteriore, trovando nella tecnologia avanzata il suo più efficace supporto.
In un simile contesto, le differenze fra individuo e individuo sono venute sempre più scomparendo, l’alienazione si è fatta totale. La tecnologia avanzata, così, ha portato il totalitarismo. L’uomo è stato espropriato della sua anima e reso schiavo da un potere che ha riempito di slogan il suo vuoto interiore.
La morte della storia, per questo, non va intesa come conseguenza della società totalitaria. È vero il contrario: il totalitarismo nasce e si sviluppa sull’assenza della storia.
Infatti, scrive l’Howe:
“Lo stato totalitario presuppone che – data la tecnologia moderna, il completo controllo politico, i mezzi per realizzare il terrore e un disprezzo razionalizzato per la tradizione rurale – qualsiasi cosa sia possibile. Si può fare qualunque cosa agli uomini, arrecare qualunque offesa alla loro mente, alla loro storia, alla loro morale” 38.
Uno stato di così sinistra efficienza, in fondo in fondo, nasce dall’utopia razionalista, dalla pretesa di risolvere tutti i problemi in termini geometricamente astratti.
L’archetipo del Grande Fratello è Robespierre. La logica del profitto, infatti, nasce dall’assenza di motivazioni ideali. Negata la sfera etica, i “valori”, l’unica motivazione che fa agire l’uomo, a questo punto, può essere solo l’interesse, il profitto. Così, astraendo sempre di più, l’uomo finirà per negare se stesso in nome del profitto.
La tradizione storica, invece, è ricca di pregiudizi ereditati dal passato e non di rado irrazionali. Se però, in nome dell’efficienza, si negano e si distruggono tali pregiudizi, si nega e si distrugge la storia.
Dal razionalismo spinto all’eccesso nasce uno stato che vorrà risolvere tutti i problemi, che spingerà il suo interesse in tutti i campi della vita dei suoi sudditi. Uno stato che, immancabilmente, finisce per diventare elefantiaco e totalitario.
“Dal feticismo dello stato scaturisce quello dei beni di consumo” 39.
E così:
“… acquisterete un gran numero di oggetti costosi dei quali non avete assolutamente bisogno”40.
“Successivamente la grade società si preoccuperà di garantire il benessere psicologico della maggior parte dei suoi membri. Questo si chiama: “l’educazione alla democrazia in condizioni di industrializzazione di massa”
E questa è la Sociolatria:
“Si tratta di adattare l’individuo al ruolo sociale senza liberare alcun altra forza di natura…” 41.
L’antiutopia di 1984 nasce da un’analisi di questo tipo. Anzi, forse tutta l’opera di Orwell non è altro che la rappresentazione della dicotomia tra individuo e organizzazione sociale. Per il Nostro i due termini erano inversamente proporzionali. Se prendiamo, per esempio, il mondo del sottoproleriato di Down and Out in Paris and London vediamo che lì, dove i lacci sociali sono ridotti al minimo, grande è la sfera della libertà individuale e la descrizione di Orwell si avvale di un tono brioso e leggero, anche quando si sofferma sulla più squallida miseria.
Ciò dimostra che egli fondamentalmente fu un anarchico, più proteso ad affermare se stesso che a seguire disegni di cambiamento globale del mondo. Questi, infatti, per Orwell avevano il grosso difetto di portare alla sociolatria, all’origine del totalitarismo.
Ha poca importanza, a questo punto, se la sociolatria si esprime con la brutalità della dittatura o con l’ipocrisia democraticistica. Ciò sembra trasparire in maniera abbastanza evidente in Coming up for Air. Lì l’individuo viveva in un contesto come quello della democrazia inglese, ancora oggi da molti additata a modello.
In chiusura del libro, poi, Orwell descrive un fatto degno delle peggiori dittature latino-americane: una bomba viene sganciata per errore in un quartiere di una grande città, causando la morte di molte persone. Ebbene, l’allucinante episodio viene ridotto dalle autorità a pura statistica. La bomba, secondo loro, ha causato un numero relativamente basso di morti. L’effetto, quindi, è stato “deludente”. Meno di così l’individuo non so quanto potrebbe contare!
Come si vede, Orwell non si lascia incasellare facilmente, la sua critica colpisce dove c’è da colpire. Per questo forse è risultato odioso a molti. Per questo molti hanno cercato di limitarne e banalizzarne la tematica.
Ciò lo ha messo ben in evidenza l’Howe, scrivendo:
“Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che 1984 sia essenzialmente un sintomo della condizione psicologica di Orwell, l’incubo di un uomo afflitto da scompensi psichici e da fantasie paranoiche, fortemente turbato dalla sporcizia e timoroso del contatto sessuale che potrebbe provocargli una punizione da parte delle autorità. A parte la sua intollerabile superficialità, una “spiegazione” del genere, spiega troppo o troppo poco. Quasi tutti hanno degli incubi e moltissime persone hanno opinioni ambigue nei riguardi del sesso, ma pochi riescono a scrivere libri della potenza di 1984. Il libro può essere un incubo e non vi è dubbio che esso affondi le radici, come ogni altro libro, nella psiche dell’autore, con le sue turbe. Ma le affonda anche nella parte sana della sua psiche, altrimenti non potrebbe penetrare così a fondo nella realtà sociale della nostra epoca. L’incubo personale, se pur incide, è in rapporto assai stretto con gli avvenimenti pubblici e ci aiuta a comprenderli” 42.
Ma torniamo al racconto. Nella società di Oceania il malessere di Winston Smith si fa sempre più evidente. Egli vorrebbe tornare a sentirsi un uomo, avere un minimo di autonomia, uno spazio tutto suo, lontano dal controllo sociale. Nasce così il conflitto tra l’incipiente coscienza del proprio “io” di Smith e la sociolatria dominante.
Qui il romanzo perde quell’immobilità che l’argomento e il tono iniziale avevano fatto temere.
Sarebbe però sbagliato pensare al contrasto tra Smith e la società in termini eroici. La rivolta del giornalista, infatti, non si pone mai in termini che non siano larvali e passivi. Tutte le sue azioni di dissenso si svolgono, per così dire, “in difesa”. Egli tira solo a sopravvivere, cercando di conservare il più a lungo possibile se stesso.
È conscio della sconfitta finale, come ha già fatto notare il Greenblatt, che così ha scritto:
“The dramatic tension of 1984 is not wether Winston will be able to revolt successfully against the Party, for such revolt is inconceivable. By means of a spying device called a telescreen, the thought police keep all Party members under constant surveillance, and Winston knows that he is doomed from the moment he has his first heretical thought. The tension of the novel concern how long he can stay alive and whether it is possible for Winston to die without mentally betrayinh his ribellion” 43.
Il dramma, quindi, si pone in termini di libertà interiore. Per quanto concerne la libertà nel suo senso più ampio, infatti, Orwell era ormai arrivato a un pessimismo senza scampo.
E non aveva torto. La pericolosa novità del potere nella civiltà contemporanea è, infatti, la sua enorme forza fagocitante. Il potere di tipo tradizionale si poneva come pura espressione di rapporti di forza e ciò lo rendeva intimamente debole. I rapporti di forza possono sempre cambiare, e, soprattutto, chi subisce quel tipo di potere ha sempre la chiara consapevolezza di subire un’ingiustizia, quindi potenzialmente è già un ribelle e, in ogni caso, interiormente è un uomo libero.
Il potere che incombe su Winston Smith, invece, è chiuso e inaccettabile. Esso già con la continua sorveglianza, oltre a premunirsi efficacemente rispetto alle ribellioni, uccide ogni germe d’intimità, di solitudine. Difficilmente, infatti, chi è in compagnia pensa.
Il potere così non dà all’uomo il tempo di pensare. In compagnia, inoltre, ci si sente sempre sorvegliati, spiati, tanto più che il potere favorisce in tutti i modi la delazione, anche quella dei figli contro i padri.
Infatti:
“It was almost normal for people over thirty to be frightened of their own children. And with good reason, for hardly a week passed in which the “Times” did not carry a paragraph descriving how some eavesdropping little sneak – “child hero” was the phrase generally used – had overheard some compromising remark and denounced its parents to the Thought Police” 44.
A furia di reprimere i loro pensieri, a furia di avere paura di assumere atteggiamenti eterodossi, gli abitanti di Oceania hanno finto per perdere ogni capacità di pensieri autonomi.
A questo punto scatta il secondo livello dell’azione del potere: il bombardamento psicologico. In tal modo, il potere riempie i cervelli che prima ha svuotato dei suoi “pensieri”. Ecco perché dappertutto campeggia la scritta che perseguita Winston come un incubo:
“WAR IS PEACE
“FREEDOM IS SLAVERY
“IGNORANCE IS STRENGHT” 45
È chiaro che in questo contesto è impensabile una qualsiasi opposizione organizzata che abbia speranza di successo.
La lotta di Winston deve per forza esprimersi ad un livello larvale. Non può pensare di rovesciare il potere, gli basterebbe ritardare un po’ prima di diventarne completamente succube, avere alcuni brevi attimi di libertà interiore.
Winston, così, inizia la sua battaglia recuperando la dimensione intima dell’uomo. Compra in un negozio un vecchio diario e di nascosto comincia a scriverlo.
Dal momento in cui comincia a narrare la sua versione del mondo che si vede intorno, evadendo la sorveglianza degli onnipresenti teleschermi, anche se lo fa nel segreto della sua camera e nessuno è destinato a leggere le sue note, comincia la sua ribellione e sa già di essere un condannato. È un fuorilegge e per questo in una pagina, a lettere cubitali come quelle degli slogan, può scrivere:
“DOWN WITH BIG BROTHER
“DOWN WITH BIG BROTHER
“DOWN WITH BIG BROTHER” 46.
Più avanti, egli passa a forme più coscienti di ribellione.
Per esempio s’innamora (ed è ricambiato) di una sua collega, Julia. Potrebbe sembrare una banalità, ma in una società dove si parla di sesso nei termini in cui se ne parla in Oceania (e vedremo più avanti la funzione che ha per il potere la repressione sessuale) innamorarsi appare come il peggiore dei delitti, naturalmente dopo l’alto tradimento.
Col rapporto sessuale che gli permette di esprimersi a un livello naturale, Winston esce dalla generica insofferenza, da quelli che Vittorini avrebbe chiamato “astratti furori”, e si apre agli altri. Ma col gusto del dialogo aumentano vertiginosamente anche i rischi di essere scoperto. Così, Winston e Julia, parlandosi e amandosi, cominciano a cercare anche una coscienza teorica della loro ribellione. E qui cadono nella trappola di O’Brien, un gerarca del regime che finge di assecondare i loro disegni eversivi per intrappolarli meglio.
Il bisogno di capire, in questo modo, porta i due amanti a leggere l’opera di Emmanuel Goldstein (e non a caso il nome è riconoscibile subito come quello di un ebreo), colui che il regime di Oceania addita come il nemico pubblico n. 1.
XII
Il Principe (ovvero, l’idea del Potere) è l’altro nome del mondo
In quest’opera viene esposta quella che, a mio parere, è la concezione della storia di George Orwell. Estremamente pessimista nei confronti della possibilità di progresso verso la libertà da parte dell’umanità, essa ci ricorda un po’ la morale che Giuseppe Tommasi ha espresso nel romanzo Il Gattopardo (bisogna, cioè, cambiar tutto affinchè tutto resti come prima).
Infatti:
“Throughout recorded time, and probably since the end of the Neolithic Age, there have been three kinds of people in the world, the High, the Middle and the Low.
“They have been subdivided in many ways, they have borne countless different names, and their relative numbers, as well as their attitude towards one another, have varied from age to age: but the essential structure of society has never altered.
“Even after enormous upheavals and seemingly irrevocable changes the same pattern has always re-asserted itself, just as a gyroscope will always return to equilibrium, however far it iss pushed one way or the other.
“The aims of these groups are entirely irreconcilable…” 47.
E qui si vede bene lo stretto legame che unisce 1984 alla restante produzione orwelliana.
Tutti i suoi eroi sono dei perdenti, gente che tenta un’impossibile ribellione ad una logica che è superiore a loro. Così, ogni tentativo di ribellarsi alla logica della storia è inutile.
La storia dell’uomo comune, infatti, non esiste; egli passa inosservato o al massimo “utilizzato”, e soprattutto dietro di sé non lascia alcuna traccia. Esiste solo la storia delle “élites” che si combattono per il potere.
Questo tipo di intuizione su ciò che muove la storia, a ben guardare, erano già presenti in Homage to Catalonia. Orwell, infatti, lì s’era accorto che i comunisti pensavano relativamente poco a sconfiggere il franchismo. Erano molto più impegnati a manovrare per eliminare fisicamente gli anarchici, per loro più pericolosi dei franchisti in quanto, in un certo senso, concorrenti. I comunisti, quindi, più che gli ideali, inseguivano il potere, la guida del movimento ideologico del quale erano parte.
In Animal Farm, poi, Orwell il discorso lo aveva fatto in maniera più scoperta. La descrizione della parabola rivoluzionaria, sotto la satira, rivelava la preoccupazione dello scrittore che dietro l’illusione del cambiamento che dava il comunismo, ci fosse solo l’eterna manovra del potere che in quell’illusione aveva scoperto un nuovo potentissimo strumento.
Perciò, la teorizzazione di 1984 appare un semplice “tirare le somme” da parte di Orwell dopo lunga meditazione. Per questo ha ragione Greenblatt quando scrive:
“God is power” is the final revelation of Nineteen Eighty-Four” 48.
Al potere, quindi, bisogna pensare come alla costante tematica dell’ultimo Orwell. Ciò è già stato evidenziato dal Thomas, che così ha scritto:
“Power is a word that is always occurring in Orwell. Yet it is arguable that it is something he never thought about at lenght or dispassionately. He never analyses the psichology of power in the individual, or the mechanics of power in the working of institutions. Instead, it is always the cosmic, nightmare force, seen from the point of view of the victim who is suddenly and uncomprehendingly crushed” 49.
Orwell, però, per costume di vita e per sensibilità di scrittore, non poteva evidentemente indossare i panni di colui che analizza freddamente. Egli fu sempre un passionale. Ecco perché i suoi accenti sono spesso esagitati, poco curati da un punto di vista estetico. Come in The road to Wigan Pier aveva agitato il problema dei minatori col piglio sdegnato del moralista, così in 1984 affronta il problema del potere mostrandone soprattutto le piaghe e le sofferenze che esso procura.
Sul potere Orwell non può disquisire, può solo urlare; esso gli brucia troppo sulla pelle. E così, di crescendo in crescendo, il paradosso finale dell’opera è il paradosso finale del potere. Esso s’instaura, infatti, in una società ad alto livello tecnologico, dove può tentare il salto di qualità e portare alle estreme conseguenze la sua logica.
1984, come:
“Il mondo nuovo di Huxley rispecchia l’avvento di società totalitarie tipicamente moderne, lo sviluppo tecnologico delle industrie dei consumi e la presa di coscienza della possibilità di manipolazioni genetiche” 50.
Per questo nel romanzo il potere si esprime in maniera estremamente compiuta: non solo sottomette il genere umano, annichilisce la personalità dell’individuo e dà al mondo un ordine di morte; ma vuole anche dalle sue vittime il consenso assoluto.
Così, quando O’Brien, il gerarca del regime, scoperta con l’inganno la sua ribellione, cattura Winston Smith, non elimina subito il ribelle, ma lo sottopone ad una terribile tortura che ha il solo scopo di convincerlo della bontà del potere. Il vero potere, infatti, nella sua espressione più pura, deve per forza essere incondizionato. Se nei suoi confronti esiste un qualche dissenso, anche il più piccolo, il potere già non è più un “vero” potere.
Ma la “bontà” del potere non va misurata secondo parametri esterni ad esso, perché il potere ha una logica a circuito chiuso, ove esso stesso è inizio e fine di ogni cosa.
Ciò Orwell lo dice molto chiaramente. Ad un certo momento, infatti, O’Brien chiede a Winston sotto tortura il perché, a suo parere, i gerarchi del Socing ritenessero necessario esercitare un così assoluto potere. Winston risponde:
“You are ruling over us for out own good… You believe that human berings are not fit to govern themselves, and therefore” 51.
La contro-risposta di O’Brien è netta e precisa:
“Now I will tell you the answer to my question. It is this. The Party seeks power entirely for its own safe. We are not interested in the good of others; we are interested solely in power. Not wealth or luxury or long life or happiness: only power, pure power. What pure power means you will understand presently. We are different from all the oligarchies of the past, in that we know what we are doing. All the others, even those who resembled ourselves, were cowards and hypocrites. The German Nazis and the Russian Communists came very close to us in their methods, but they never had the courage to recognize their own motives. They pretended, perhaps they even believed, that they had seized power unwillingly and for a limited time, and that just round the corner there lay a paradise where human beings would be free and equal. We are not like that. We know that no one evere seizes power with the intention or relinquishing it. Power is not a means, it is an end. One does not establish a dictatorship in order to establish the dictatorship. The object of persecution is persecution. The object of torture. The object of power is power. Now do you begin to understand me?” 52.
Winston Smith, insomma, dopo le atroci torture, si convincerà che il potere, per essere veramente tale, deve essere incontrastato ed arbitrario. Per questo saprà che le persecuzioni finiranno solo quando egli cederà su tutta la linea.
Il potere non lo lascerà in pace sino a quando egli non avrà rinnegato tutto se stesso, anche dentro di sé. Così, prima tradirà la donna amata, per allontanare da sé la tortura, la rinnegherà nella maniera più feroce urlando:
“Do it to Julia! Do it to Julia! Not me! Julia! I dont’ care what you do to her. Tear her face off, strip her to the bones. Not me! Julia! Not me!” 53.
Poi accetterà tutto, proprio tutto, quel che gli sarà deto. 2+2, così, sarà uguale a 5, o a 3, o a 6, o a 4, o a qualsiasi altra cifra piacerà al potere. Alla fine, ci sarà la vittoria assolita del regime contro cui assurdamente Winston aveva tentato di ribellarsi. Il romanzo si chiude con un Winston ormai interamente sottomesso, dato che, commenta amaramente Orwell: “He loved Big Brother” 54.
Come si vede le strutture logiche, qui, sono state completamente stravolte. Il totalitarismo ha trionfato non solo sugli uomini; ma anche sulla natura, sulla stessa storia, sulla realtà più oggettiva.
XIII
La Neo-lingua, cioè la comunicazione semplificata, crea il paleolitico contemporaneo
La solidarietà tra gli uomini nasce dal dialogo. Un uomo che riesce a intravedere l’interiorità di un altro difficilmente ne diventerà persecutore. A far paura sono il diverso, l’altro, l’incomprensibile. Tutto ciò che non si conosce lo si vede sempre pronto ad attaccare e per questo si è portati ad eliminarlo, ad ucciderlo.
Il dialogo, però si avvale di un mezzo che lo condiziona in maniera determinante: il linguaggio. Più ricco, più articolato, più pieno di sfumature sarà il linguaggio, più il dialogo andrà a fondo, più la conoscenza reciproca andrà avanti.
Tutto ciò il potere di Oceania lo ha capito molto bene. Per questo esso dedica una particolare cura al linguaggio. Operando sul linguaggio, esso cerca di far in modo che gli uomini non comunichino mai veramente fra loro.
Evita in tal maniera il nascere della solidarietà. Tenendo i suoi sudditi divisi gli uni dagli altri può dominarli meglio. A questo scopo il potere ha inventato la “Newspeak” (la Neo-lingua) e l’ha fatta adottare come lingua ufficiale in Oceania. In essa, la comunicazione, oltre ad essere ingabbiata, viene scarnificata al massimo. Lo scopo dichiarato dalla Neo-lingua, infatti, è quello di eliminare ogni parola “inutile” dal linguaggio quotidiano.
È facile, a questo punto, immaginare come il dialogo così si riduca a semplice comunicazione. Ancorata alle cose concrete, la Neo-lingua toglie agli uomini la possibilità di parlare di cose che escono dalla più banale quotidianità.
I concetti astratti (quali, per esempio, la libertà), così, pian piano scompaiono dal pensiero. Per questo, per il potere la manipolazione del linguaggio appare importante quanto (e forse più) l’opera di polizia.
Gli uomini sotto l’azione della Neo-lingua diventano omogenei e ben governabili. La povertà del linguaggio impedisce loro perfino di pensare, se non le cose più strettamente ortodosse.
Al riguardo scrive Jenni Calder:
“The Thought police, terror and torture are instruments of prescriving order, Newspeak is a means of controlling the thoughts and inclinations that inspire disorder. Syne, Winston’s colleague, describes the aim of Newspeak: “In the end we shall make thought erime literally impossible, because there will be no words in which to express it. Every concept that can ever be needed will be expressed by exactly one word, with its meaning rightly defined and all its subsidiary meanings rubbed out and forgotten”. The manipulation of language is essential to the manipulation of history” 55.
Ma lo scopo della Neo-lingua non è solo quello di togliere agli uomini, attraverso l’eliminazione delle parole che li esprimono, i pensieri sgraditi al potere. Essa ha anche una funzione “in positivo”, cioè quella di strutturare il pensiero, di indirizzarlo nel senso deciso dal regime di Oceania.
La Neo-lingua, così raggiunge l’effetto di scardinare dall’origine (dal pensiero) le vecchie strutture logiche e di crearne delle nuove.
Per questo la sua azione è duplice. Da un lato abolisce le sfumature e le sottogliezze, dà ad ogni parola un significato netto e preciso, ancorandolo soprattutto a cose visibili, materiali. Dall’altro favorisce i giri di frase sloganistici e (ed è la cosa che conta di più) dà ad ogni parola il significato particolare che le vuol dare il regime, diverso da quello che alla lettera le è proprio. “The Ministry of Truth”, per esempio, anche se il suo nome lo pone come “Ministero della Verità”, in effetti, svolge il solo compito di manipolare le notizie, di costruire delle menzogne.
Col tempo, gli abitanti di Oceania, a furia di usare le parole nel significato voluto dal regime, ad esse daranno soltanto “quel significato”. Il pensiero del potere, quindi, il suo modo di ragionare, attraverso le parole si trasferirà nella mente dei cittadini. I loro sentimenti, le loro emozioni, tutti i loro processi razionali saranno stati istillati dal regime. Ogni cosa in loro sarà artificiale, costruita “ab imis” da un’ingegneria occulta al servizio del potere. La manipolazione del linguaggio si rivela in tal modo l’arma più efficace per la manipolazione del pensiero. Il duplice aspetto della Neo-lingua che ho appena finito di esporre è stato colto di recente in maniera molto chiara da Ferdinando Castelli.
Egli così scrive:
“Scopo della Newspeak non è soltanto fornire un mezzo d’espressione per la concezione del nuovo mondo e per le abitudini mentali proprio del Socing, ma soprattutto far credere ciò che si vuole e rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Il pensiero stesso, nella Newspeak, è addomesticato, ridotto schiavizzato, grazie alla progressiva degenerazione del linguaggio, all’imposizione di nuovi significati e all’eliminazione di parole indesiderabili o di senso eterodosso. Il lessico sarà ridotto, perché sia ridotta la capacità intellettiva (“Ogni anno ci saranno meno parole, e la possibilità di pensare delle posizioni sarà sempre più ridotta” p.62). Strumentalizzare e distruggere l’uomo mediante la strumentalizzazione e la distruzione del linguaggio è l’obiettivo della Neo-lingua” 56.
Lo scopo della spoliazione e della strumentalizzazione è raggiunto con i primi due livelli della Neo-lingua: i cosidetti vocabolari A e B. Questi due livelli riguardano l’uso quotidiano della Neo-lingua e il suo uso nella prassi politica. C’è poi un terzo livello: il vocabolario C.
Esso consiste quasi interamente nei termini scientifici e tecnici. Le parole sono ridotte alle radici delle parole originarie, ripulite dai prefissi, dagli infissi e dai suffissi che servono a creare le sfumature di significato.
Si arriva così a un vocabolario estremamente ristretto, fatto di termini specializzati e incomprensibili ai non addetti ai lavori. Lo scopo, evidentemente, è quello di chiudere le varie categorie sociali anche ad un livello linguistico; di farle arrivare all’incomprensibilità generale.
Così, paradossalmente, nella società ultra-tecnologica del 1984 si ritorna all’individuo solo e impaurito, come nel paleolitico.
Ma, soprattutto, nel vocabolario C si vede chiaramente lo stretto legame che c’è tra la Neo-lingua è l’altra faccia della tecnologia.
Ambedue traggono origine (o, almeno, prendono ufficialmente lo spunto) dal mito dell’efficienza e ambedue rinnegano “astrattezze ed oziosità”. Il risultato è che ambedue cadono nell’utilitarismo; tolgono all’uomo ciò che non è immediatamente spiegabile o razionalizzabile, uccidendone la sfera estetica e quella etica. Tutto in tal maniera si riduce a cosa, a materia, ad oggetto.
XIV
Sesso e pornografia
Se la Neo-lingua campeggia su tutti i cartelloni, stordisce dagli articoli di fondo sui giornali e s’impadronisce inesorabilmente della conservazione quotidiana, la risposta del ribelle Winston non può essere se non quella di riscoprire il linguaggio naturalissimo del corpo. Contro la truffa celata dietro la mediazione della lingua, Winston fa sua l’immediatezza di dialogo dell’amore e del sesso. Non è un caso, infatti, che il Partito osteggi in maniera particolare il sesso. Un uomo sessualmente non represso possiede l’equilibrio sufficiente a renderlo refrattario a ogni isteria sociolatrica. Inoltre, in amore ci si sente uguali, si ritrova il gusto di sapersi individuo di fronte ad un altro individuo.
Di ciò Winston è cosciente. Infatti: “In the old days, he thought, a man looked at a girl’s body and saw that it was desirable, and that was the end of the story.
But you could not have pure love or pure lust Nowadays. No emotion was pure, because everything was mixed up with fear and hatred. Their embrance had been a battle, tle climax a victory. It was a blow struck against the Party. It was a political act” 57.
Allo stesso modo, però, Winston ha capito che la naturalezza del sesso è una maniera di riappropriarsi di se stessi e di lottare contro la soffocante tirannia del Partito.
Il Partito, dal canto suo, ha capito di avere nel sesso uno dei suoi peggiori nemici. Infatti, come disinvoltamente dice Julia: “When you make love you’re using up energy; and afterwards you feel happy and don’t give a damn for anything. Thery can’t bear you feel like that. They want you to be bursting with energy all the time. All this marching up and down and cheering and waving flags is simple sex gone sour.
If you’re happy inside yourself, why should you get excited about Big Brother and the Three-Year Plans and the two Minutes Hate and all the rest of their bloody rot?” 58.
Questo tipo di analisi sarebbe piaciuta molto, io credo, a Reich. Egli, infatti, nel suo libro Psicologia di massa del fascismo sviluppa argomentazioni parallele a quelle di Julia, mettendo in evidenza la funzione della frustazione sessuale a sostegno della dittatura. Ma l’analisi del sesso di Orwell non si ferma nello scoprire la sua funzione liberatoria.
Il sesso, come tutte le cose, è un’arma a doppo taglio…
Evidenzia, infatti, Jenni Calder: “For him sex represents an energy that can be both creative and corrupting” 59.
Il Partito, perciò, nei confronti del sesso attua, più o meno la stessa politica che ha adottato per il linguaggio. Non lo combatte frontalmente e non cerca di eliminarlo del tutto. Gli basta ingabbiarlo, irrigidirlo nelle classi medie e stravolgerlo, farlo diventare strumento di alienazione di massa fra i proletari. Per questo: “There was a direct intimate connection between chastity and politacl orthodoxy. For how could the fear, the hatred and the lunatic credulity which the Party needed in its members be kept at the right pitch, except by bottling down some powerful instinct and using it as driving force? The sex impulse was dangerous to the Party, and the Party had turned it to account. They had played a similar trick with the instinct of parenthood. The family could not actually be abolished, and, indeed, peolpe were encouraged to be fond of their children in almost the old-fashioned way. The children, on the other hand, were systematically turned against their parents and taught to spy on them and report their deviations. The family had become in effect an extension of the Thought Police. It was a device by means of which everyone could be surrounded night and day by informers who knew him intimately” 60.
Non solo, ma l’azione corrompente del sesso assume nella società di Oceania dimensioni di massa presso i proletari. Questi sono gli unici che il Partito non riesce (e non tenta nemmeno) a plagiare troppo. Infatti essi non sono molto pericolosi per il regime. Sebbene mentalmente più liberi, sono troppo disorganizzati e troppo privi di strumenti intellettuali per riuscire ad organizzare una rivolta che abbia una minima speranza di successo. Con i proletari il regime si limita ad una azione di corruzione. E in questa sua politica il sesso di presenta come un mezzo formidabile. O meglio, la mercificazione del sesso, la sua riduzione a cosa: la pornografia. Che questa politica sia condotta con mente lucida e fredda è dimostrato dall’organizzazione che il regime ha tirato su “ad hoc”.
Alla produzione del materiale pornografico, infatti, il potere destina le persone di più provata “moralità”, e ciò ci dà la misura della sostanziale “frigidità” con cui questo materiale è preparato. Le donne che costruiscono le storie (quasi sempre si tratta di donne perché il regime ritiene che questa siano più lente a infiammarsi per i richiami del sesso) intrecciano in modo meccanico (usano una specie di caleidoscopio) un numero limitatissimo di trame e di situazioni erotiche. Nasce così una produzione a getto continuo, ma sostanzialmente sempre uguale a se stessa, i cui titoli sono sempre squallidamente ammiccanti. In tal maniera, i giovani proletari col sesso si confinano in una dimensione ripetitiva e meccanica completamente fuori dalla realtà. E, inoltre, comprando tutta la robaccia che il regime ha confezionato per loro, magari sotto banco, hanno la sensazione di far qualocosa d’illegale. E in quest’atto inutile essi scaricano e soddisfano il loro istinto di ribellione. Puritanesimo e pornografia, quindi, in effetti sono due facce della stessa medaglia, due maniere di abbandonare la naturalezza dell’istinto sessuale (irrigidendolo o stravolgendolo); in definitiva, due forme diverse di lussuria. Non è un caso che la caratteristica maggiore di quelle che oggi sono le società più retrive è la forte repressione sessuale e, contemporamente, un invadente “gallismo” maschile e una diffusa mercificazione del corpo femminile. E proprio l’analisi della funzione dlla repressione sessuale in una società totalitaria, tanto addentro alla realtà contemporanea dello scrittore, a mio parere toglie ogni dubbio sul carattere “non profetico” del romanzo. Orwell qui come mai, non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze fenomeni e realtà che lo circondavano.
XV
Il nemico interno e il pericolo esterno
Un dominio assoluto sui propri sudditi come quello attuato dal regime di Oceania, però, nonostante tutte le truffe sociali (tipo la New-speak e l’alienazione sessuale) ed i potentissimi mezzi che ha a disposizione (come la Psico-polizia), non può resistere a lungo se a sostenerlo a non c’è il contesto eccezionale dell’”emergenza” o del “pericolo imminente”.
Anche se si prova l’uomo dei mezzi per esprimere la sua vitalità, se lo si castra intellettualmente, se col terrore se ne comprime lo spirito di ribellione, a lungo andare il conto viene saldato. Prima o poi emergeranno nuove forze che aspireranno al potere; e queste, per i loro scopi, utilizzeranno lo scontento della maggioranza dei sudditi. Nessun regime finora è durato in eterno. Nel momento steso, ifatti, in cui un potere si stabilizza, sorge nel suo seno il contropotere che finirà per sotterrarlo. Paradossalmente, un regime autoritario è più forte nella precarietà. Di fronte al pericolo la gente tende a far quadrato. La paura di cadere in mano al nemico fa passare in secondo piano il problema della libertà. Per questo, da sempre, le dittature sono state amanti della guerra. Tutto ciò l’IngSoc lo ha capito moltobene e per questo mantiene aalta la tensione dei suoi sudditi, sia con la pressione di una guerra esterna, sia dilatando (o forse addirittura inventando) il pericolo di una controrivoluzione interna. Il nemico interno è rappresentato da Emmanuel Goldstein, un vecchio che dal Partito viene sempre rappresentato con la barbetta da capra e i capelli crespi e bianchi, sempre occupato a tramare contro Oceania. Il fatto, poi, che Goldstein sia ebreo non è affatto casuale. Goldstein sembra addirittura concentrare in sé riferimenti a Trotsky e all’ebreo della propoganda nazista, quasi un esplicito riferimento da parte di Orwell ai due regime autoritari che aveva conosciuto. Ecco, comunque, come lo stesso Orwell ci presenta questo nemico pubblico n.1: “Goldstein was the renegade and backslider who once, long ago (how long ago, nobody quite remembered), had been one of the leading figures of the Party, almost on a level with Big Brother himself, anf then had engaged in counter-revolutionary activities, had been condemned to death and had mysteriously escapedand disappeared. The programmes of the two Minutes Hate varied from day to day, but there was none in wich Goldstein was not the principal figure. He was the primal traitor, the earliest defiler of the Party’s purity. All subsequent crimes against the Party, all treacheries, acts of sabotage, heresies, deviations, sprang directly out of his teaching. Somewhere or other he was stilla live and hatching his conspiracies: perhaps somewhere beyond the sea, under the protection of his foreign paymasters, perhaps even – so it was occasionally rumoured – in some hiding-place in Oceania itself” 61.
Comunque, a detta delle autorità, la sua attività aveva qualcosa di diabolico, veramente impensabile se si pensa che dipendeva da un uomo solo, che presumibilmente era braccato da tutte le polizie. In condizioni tanto difficili, a quanto pare, Goldstein riusciva a tenere le fila di tutta una organizzazione pronta a rovesciare il regime di Oceania. Infatti: “He was the commander of a vast shadowy army, an underground network of conspirators dedicated to the overthrow of the State. The Brotherhood, its name was supplosed to be. There were also whispered stories of a terrible book, a compedium of all heresies, of which Goldstein was the author and which circulated clandestinely here and there. It was a book without a title. People referred to it, if at all, simply as “The Book”. But one knew of such things only through vague rumours. Neither the Brotherhood nor “the book” was a subject that any ordinary Party member would mention if there was a way of avoiding it” 62.
Alle trame di Goldstein si aggiunge la guerra esterna. In 1984, infatti, il mondo appare diviso in tre grandi blocchi: Oceania, Eurasia ed Eastasia. Queste tre superpotenze sono sempre in guerra fra di loro, anche se, di tanto in tanto, le alleanze cambiano. Questo eterno conflitto, a quanto pare, è lungi dal prendere una svolta decisiva, in un senso o nell’alro. Anzi, si ha quasi l’impressione che la svolta decisiva non sia neanche voluta. La guerra, infatti, ha per il regime una funzione stabilizzatrice, dato che crea la minaccia di un’invasione straniera, che, a quanto pare, è sempre più temuta della repressione interna. Per l’uso strumentale che della guerra fa il regime, a questo punto, appare abbastanza indifferente l’avere un preciso nemico o un preciso alleato. Così può accadere che: “At this moment for example, in 1984 (if it was 1984), Oceania was at war with Eurasia and in alliance with Eastasia” 63.
In altri momenti l’alleanza era stata diversa.
L’unica cosa che mai ad Oceania era cambiata era il fatto di essere in guerra. Questa interpretazione è anche quella di Jenni Calder che così ha scritto: “War is being used as a means of controlling the population of the State’s own territory rather than of destroying or conquering enemy territory. It is a concept that Orwell frequently touched on, and, for us now, perhaps represents the most valuable warning the book contains. The connection that he draws between a totalitarian society and atomic war is still very relevant” 64.
E a queste parole credo che nulla si possa più aggiungere.
XVI
Il proletariato è morto?
Già ad una lettura della precedente opera di Orwell, balza agli occhi che le lunghe mani del potere non abbracciano mai l’intero corpo sociale. Le classi più povere e le frange emarginate sfuggono sempre al suo pieno controllo. In Down and Out in Paris and London, per esempio, il mondo dei vagabondi (specie nella sezione parigina del libro) appariva intellettualmente più vivo della
piccola-borghesia medio-elevata in Keep the Aspidistra Flying e di Coming up for Air.
In Homage to Catalonia, poi, il cencioso esercito anarchista del P.O.U.M. (lesercito dei perdenti, quello nelle cui fila, tanto per cambiare, si trovava Orwell) lascia nel lettore un’indelebile traccia di simpatia per la grande libertà interiore che i suoi soldati posseggono. Sarebbe, però, sbagliato interpretare questi riscontri che si trovano nell’opera di Orwell come semplice equazione povertà=libertà. La povertà (e ciò che Orwell l’ha detto più volte a chiare lettere) porta con sé colo squallore. L’equazione giusta è un’altra ed è di tipo inversamente proporzionale: più vicini si è ai centri decisionali e meno si è liberi. Il potere, paradossalmente, priva chi lo inseue della libertà di dire chiaramente ciò che pensa. I poveri di Down and Out in Paris and London e gli anarchici di Homage to Catalonia sono lontani anni-luce dal potere e il potere non li tiene nemmeno in considerazione. Per questo, e non per la loro povertà o per la loro emarginazione, essi sono più liberi.
Così, in 1984 l’unica classe che ha conservato l’antica autenticità è quella dei proletari. Essi solo si permettono il lusso di dire liberamente ciò che pensano, senza alcuna paura delle conseguenze che potrebbero derivare loro. Questo perché fa di tutto per circondarli del disprezzo generale. Anzi, mira quasi a rinchiuderli in una specie di limbo sociale, in un recinto di pregiudizi. Il commento di un membro del Partito riguardo ai proletari (in Neo-lingua: proles) è infatti questo: “The proles are not human beings” 65.
Ma l’isolamento in una società impazzita è forse la sola speranza d salvezza. Per questo il ribelle Winston può scrivere nel suo diario: “If there is hope, wrote Winston, it lies in the proles. “If there was hope, it must lie in the proles, because only there, in those swarming disregarded masses, 85 per cent. Of the population of Oceania, could the force to destroy the Party ever be generated. The Party could not be overthrown from within. Its enemies, if it had any enemies;
had no way of coming together or even of identifying one another. Even if the legendary Brotherhood existed, as just possibily it might, it was inconceivable that its members could ever assemble in larger numbers than twos and threes. Rebellion meant a look in the eyes, an inflection of the voice; at the most, an occasional whispered word. But the proles, if only they could somehow become conscious of their own strength, would have no need to conspire. They needed only
to rise up and shake themselves like a horse shaking off flies. If they chose they could blow the Party to pieces tomorrow morning. Surely sooner or later it must occur to them to do it” 66.
Io credo, pero, che Orwell in questo romanzo era ben lungi dal coltivare persino questo tipo di “speranze”. I proles infatti vi appaiono più una remota possibilità, che una concreta realtà. Il regime ha lavorato bene al loro abbrutimento, li ha ben corrotti con la pornografia e con un livello di vita puramente vegetativo. Il risultato è che, almeno per il momento, essi sono del tutto incapaci di pensare in termini alternativi al potere. I proles sono un gigante dal corpo gigantesco e dalla forza invincibile, ma senza testa. L’operazione di creare loro una coscienza, perciò, non può essere portata a termine dall’oggi al domani. Essa, se mai sarà fatta, sarà lenta, lentissima e nel frattempo il ribelle Winston avrà tutto il tempo di soccombere. Quindi, non ha torto il gerarca O’ Brien quando dice a Winston che la rivoluzione proletaria prevista da Goldstein nel suo “libro’ (che poi lo stesso O’Brien ha scritto) è una solenne sciocchezza. Infatti: “The programme it sets forth is nonsense. The secret accumulation of Knowledge – a gradual spread of enlightenment – ultimately a proletarian rebellion – the overthrow of the Party. You foresaw yourself that that was what it would say. It is all
nonsense. The proletarians will never revolt, not in a thousand years or a million. They cannot. I do not have to tell you the reason: you know it already. If you have ever cherished any dreams of violent insurrection, you must abandon them. There is no way in which the Party can be overthrown. The rule of the Party is for ever. Make that the starting-point of your thoughts” 67.
Se speranza i proles sono, a voler proprio essere ottimisti, sono una speranza molto lontana.
XVII
Siamo già nel Paleolitico contemporaneo, dove regna il Grande Fratello?
‘Few novels written in this generation have obtained a popularity as great as that of George Orwell’s 1984. Few, if any, have made a similar impact on politics. The title of Orwell’s book is a political by-word. The terms coined by him – “Newspeak”, “Oldspeak”, “Mutability of the Past”, “Big Brother”, “Ministry of Truth”, “Thought Police, “Crimethink”, “Doublethink”, “Hateweek”, etc. – have entered the political vocabulary; they occur in most newspaper articles and speeches denouncing Russia and communism. Television and the cinema have familiarized many millions of viewers on both siedes of the Atlantic with the menacing face of Big Brother and the nightmare of supposedly communist Oceania. The novel has served as a sort of an ideological superweapon in the cold war. As in no other book or document, the convulsive fear of communism, which has swept the West since the end of the Second World War, has been reflected and focused in 1984″68.
Le parole di Isaac Deutscher dimostrano che, quando uscì, il libro di Orwell colse elementi precisi della realtà del suo tempo, tendenze preoccupanti che, se si fossero sviluppate, avrebbero portato velocemente l’umanità verso la più chiusa delle dittature e verso la morte spirituale. Adesso che nel 1984 ci abbiamo vissuto viene spontaneo domandarsi fino a che punto le previsioni di Orwell hanno trovato riscontro nella realtà.
Fortunatamente, almeno in Occidente, nessun Grande Fratello ci osserva con faccia paterna e minacciosa dai cartelloni affissi lungo le strade e la psico-polizia e lo psico-crimine (almeno ufficialmente) sono ancora considerati un obbrobrio.
Ma in certe intuizioni particolari, però, sembrerebbe proprio che Orwell abbia colto nel segno. A proposito della New-speak, per esempio, come non dar ragione a Tullio De Mauro quando scrive:
“Sì, la “Neolingua” è tra noi. Orwell (letto bene) aveva ragione. Guardate alla recente, ormai inarrestabile fortuna di un aggettivo come “disomogeneo”: sta scacciando “eterogeneo” e sta perfino attentando alla vita di “diverso”. Guardate a “‘maggiormente” che ormai ha quasi annientato “più” e “di più”. Si potrebbe continuare da tutte le parti siamo assediati dalla tendenza a sostituire giri di parole con aria pseudo-tenica a modi più diretti e lineari d’espressione” 69.
Fortunatamente, a quanto pare, non è la prima volta che il mondo conosce il fenomeno della neo-lingua. Essa, infatti, più che con la stabilità di morte della dittatura, sembra coincidere con l’incertezza delle epoche di crisi.
Per questo De Mauro può affermare:
“Ma ciò è avvenuto altre volte nel lungo corso della storia: il sanscrito grammaticale, il greco d’età bizantina, la prosa cortese ed epistolare italiana ed europea del Cinque e Seicento hanno conosciuto possenti ondate neolinguistiche. Ma siamo poi riusciti a sopravvivere” 70.
Un’altra grande intuizione di Orwell è stata forse la diffusione di massa della pornografia, per la quale mi sembra giusta la definizione che ne ha dato l’Augias:
“Al contrario dell’erotismo, la pornografia è sempre uguale a se stessa. Il suo scopo è di escogitare alcune possibili varianti prima dell’immutabile conclusione. Ridotto il meccanismo alla pura fisicità, non c’è granchè da dire, nè da vedere”71.
Ebbene, in questo senso si può dire che l’intuizione di Orwell è stata quanto mai giusta. Nella realtà odierna la pornografia è davvero diventata un fenomeno di massa ed ha inciso fortemente sui nostri costumi.
Il processo di mercificazione dell’amore, fra l’altro, ha avuto maggiore diffusione fra le classi più povere e fra gli emarginati e ne ha stravolto il sistema dei valori.
Il sotto-proletariato urbano, così, ridottosi ai margini della società dei consumi, sottoposto a tutti gli stimoli della pubblicità, ma non in condizione di soddisfare uno solo dei suoi desideri, trova un’evasione a buon mercato nei cinema a luci rosse.
La pornografia, quindi, è uno dei tanti sfoghi per l’insoddisfazione di una umanità continuamente bombardata dai mass-media che impongono di fatto un modello di felicità basata sull’avere anzicchè sull’essere: la fisicità, lo squallore, l’artificialità degli strumenti per arrivare ad una illusione di felicità, oltre che dalla pornografia, è rappresentata, questa volta a un livello ben drammatico, dalla droga (non a caso anch’essa oggi ha molta presa fra le classi più emarginate).
Pornografia e droga, per questo, sono il sintomo della incapacità della gente a sostituire i valori tradizionali che il progredire della tecnica ha distrutto.
Si è persa la concezione qualitativa del vivere, quella che faceva molto uso delle parole “moralità” o “rispetto degli altri”. Allora la mancanza di ricchezza poteva, in qualche modo, essere resa più accettabile da questo tipo di “sovrastruttura” (come la chiamerebbe Marx).
Oggi, il povero è caduto in una emarginazione doppia: alle disgrazie di sempre, si è aggiunta la polverizzazione di valori ai quali credeva.
La coscienza di una vita retta ed onesta oggi non consola proprio nessuno. Ecco, quindi, che l’insoddisfazione si è fatta più cruda e il bisogno d’evasione più impellente e brutale.
Sia per il regime di Oceania, sia per la nostra società consumistica la pornografia rappresenta la valvola di scarico dei rancori degli emarginati.
Infine, ciò che di 1984 mi pare di estrema attualità è che la tecnologica finisce per diventare un formidabile strumento di dominio, anzi uno strumento apparentemente invincibile.
Ma, a questo proposito, credo che le idee non possano essere ancora molto chiare. Nonostante il tanto parlare che si fa di società “post-industriale”, penso che i contorni di quello che sarà il volto del mondo sotto il dominio dell’alta tecnologia siano ancora molto sfumati e confusi. Il trapasso non è ancora del tutto avvenuto. Speriamo bene.
A suggello di questa speranza, non mi resta che citare questo brano di Conor Cruise O’Brien:
“We are near enough now to 1984 to see that the world then, whatever it may be like, will not be very like Orwell’s imagining of it” 72.
1 Cfr.: Edward M.Thomas, Orwell, Edinburg, Oliver and Boyd, 1971, pag. 2.
2J. Walsh, “‘George Orwell”‘, in Marxist Quartely, vol. 3, n. 1. gennaio 1956, pp. 35-36; citato in Raymond Williams, Cultura e Rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1968, pag. 547.
3Irving Howe, “Orwell: la storia come un incubo”, in Politica e Romanzo, Milano, Lerici, 1962, p. 248.
4. Giovanni Zanmarchi, Invito alla lettura di Orwell, Milano, Mursia, 1975, pag. 19.
5 Cit. in Stefano Manferlotti, Orwell, Firenze, Il Castoro, La Nuova Italia, Maggio 1979, p. 27.
6 Cit. in Stephen Jay Greenblatt, Three modern satirists: Waugh, Orwell and Huxley, New Haven-London-Yale Univ.
Press, 1974, p. 53. Trad.: “Non avevo soldi, ero debole, ero impopolare, avevo una tosse cronica, ero vigliacco,
puzzavo”
7 Giovanni Zanmarchi, op. cit., p. 22.
8 Raymond Williams, op. cit., pag. 341.
9 Giovanni Zanmarchi, op. cit., p. 23.
10 Edward M. Thomas, Op. cit., p. 8; trad. “Shooting an elephant and A hanging sono tra gli studi migliori che Orwell ha mai scritto e certamente forniscono gli esempi più classici del suo metodo di procedere dalla esperienza individuale a una conclusione generale”.
11 Edward M. Thomas, op. cit., p.8. Trad. “Quello che è caratteristico è la sua abilità nel riportare sulla pagina l’evoluzione di una intelligenza creativa, producendo idee non dalle idee degli altri, ma dall’esperienza personale”.
12 Stefano Manferlotti, op.cit., p.21.
13 Mario Maffi, “Introduzione”, in George Orwell, Giorni in Birmania, Milano, Mondadori, 1983, Pg. 9.
14 Raymond Williams, “Observation and imagination in Orwell” in George Orwell: “A collection of critical essays”, Clewood, Prentice Hall, 1974, pag. 52.Trad. “La rigida distinzione tra scritto “documentario” e “scritto” immaginativo è un prodotto del diciannovesimo secolo, e più grandemente distribuito nel nostro tempo. Essa si basa su una ingenua definizione del “mondo reale”, e poi su una ingenua separazione di esso dalla osservazione dall’immaginazione degli uomini”.
15 Stephen Jay Greenblatt, op.cit., pag. 58. Trad.: In Down out in Paris and a London, per esempio le esperienze di Orwell nel mondo degli ubriaconi, dei mendicanti dei vagabondi, dei ladri e delle prostitute che vivono ai margini della società civilizzata sono viste come una discesa dentro un ribollente squallido inferno un mondo fantastico dove tutto è bruttezza, rumore, marciume, rovina”.
16 Elena Croce, “‘Introduzione”, in George Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra, Milano, Mondadori, 1981, pag. 6.
17 Giovanni Zammarchi, op.cit., pag. 60.
18 Terry Eagleton, “Orwell and the lower-middle-class novel”‘, in George Orwell: A collection of critical essays, op.cit., pag. 25: “Secondo il credo di Gordon il denaro è il fattore determinante in ogni sentimento e relazione umana, il racconto mantiene la tensione attraverso la critica del mondo superficiale e attraverso i tentativi di scappare da esso”.
19 Elena Croce, “Introduzione”, in George Orwell, Una boccata d’aria, Milano, Mondadori, 1980, pag. 6.
20 S. Spender, World Within World, Londra, 1951, citato in Stefano Manferlotti, op.cit., pagg. 49-50.
21 Stefano Manferlotti, op.cit., pag. 50.
22 Mario Maffi, “‘Introduzione”, in George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Milano, Mondadori, 1982, pag. IX.
23 Lionel Trilling, George Orwell and the politcs of truth in George Orwell: “a collection of critical essays”, op. cit., pag.62:”il lbro trad: di Orwell in uno dei suoi aspetti più significativi, parla della disillusione nei confronti del comunismo, ma non è una confessione”.
24 Bernard Crick, “Un’introduzione all’introduzione che Orwell soppresse”, in George Orwell, La fattoria degli animali, Milano, Mondadori, 1979, pag. 19.
25 Ibidem, pag. 20.
26 Ibidem, pag. 21.
27 Armando Plebe, “La fattoria degli animali”, in II Secolo d’Italia del 6/4/1975.
28 Mario Praz, Storia della letteratura inglese, Firenze, Sansoni, 1965, pag. 706.
29 In David Daiches, A critical history of English literature, volume three ,London,Secker & Warburg, 1969, pag.618.Trad.: “Gli houyhnhnms, creature senza storia, continuano generazione dopo generazione a vivere prudentemente, mantenendo la popolazione sempre all’identico livello, sottraendosi a tutte le passioni, non soffrendo alcuna malattia, andando con indifferenza incontro alla morte, educando le nuove generazioni agli stessi principi; e tutto per che cosa? Affinchè lo stesso processo possa continuare indefinitivamente”.
30 “Il futuro è già cominciato”, Panorama, anno XXII, n. 925, del 9/1/1984, pag.89.
31 In italiano: Edward Bulwer-Lytton, La razza ventura, Carmagnola (TO), Edizioni Arktos, 1980, pag. 228.
32 Riportato in Stefano Manferlotti, Orwell, Firenze, Il Castoro, La Nuova Italia, Maggio 1979, pag.27.
33 Ferdinando Castelli S.I., “L’anno ‘1984’ visto da George Orwell (profezia, intuizione, parodia)”, in La civiltà cattolica, quindicinale, anno 135, n. 3205, del7/1/1984, pag. 24-25.
34 George Orwell, Nineteen Eighty-Four, Napoli, Ferraro, 1979, pag.21. Trad. it.: G. Orwell, 1984, traduzione di Gabriele Baldini, Milano, Mondadori, 1973, pag. 25. “Era una fresca limpida giornata d’aprile e gli orologi segnavano l’una. Winston SMith, col mento sprofondato nel bavero del cappotto per non esporlo al rigore del vento, scivolò lesto fra i battenti di vetro dell’ingresso agli Appartamenti de la Vittoria, ma non tanto lesto da impedire che una folata di polvere e sabbia entrasse con lui”.
35 Gilbert Phelps, “The Novel Today”, in The Pelican Guide to English Literature, vol. 7, The Modern Age, Harmondsworth, Penguin, 1973, pag.492. Trad.: “Il tono è spesso stridulo e isterico, e la caratterizzazione notevolmente impacciata”.
36 Irving Home, “Orwell: la storia come un incubo”, in Politica e romanzo, Milano, Lerici, 1962, pag. 250.
37 George Orwell, Nineteen Eighty-Four, op.cit., pag.41. Versione italiana, G.Orwell, 1984, op.cit., pag.57-58.
Trad.: “Il Partito diceva che l’Oceania non era mai stata alleata dell’Eurasia. Lui, Winston, sapeva che l’Oceania era stata alleata dell’Eurasia appena quattro anni prima. Ma dove esisteva quella nozione? Solo nella sua coscienza, la quale, in ogni caso, doveva essere presto annullata. E se tutti gli altri accettavano quella menzogna che il Partito imponeva (se tutti i documenti ripetevano la stessa storiella), la menzogna diventava verità e passava alla storia.
“Chi controlla il passato” diceva lo slogan del Partito “controlla il futuro: chi controlla il presente, controlla il passato”.
38 Irving Howe, op.cit., pag. 254.
39 Ibidem
40 Theodor Roszak, La nascita di una controcultura, Milano, Feltrinelli, 1971, pag. 203.
41 Ibidem
42 Irving Howe, op. cit., pag.252.
43 Stephen J. Greenblatt, op.cit., pag. 69-70. Trad.: “La tensione drammatica di 1984 non consiste nell’ipotesi che Winston sia capace di ribellarsi con successo al Partito una tale rivolta per lui è inconcepibile. Per mezzo di una telecamera, la psicopolizia mantiene tutti i membri del Partito sotto una costante sorveglianza, e Winston sa che egli è condannato fin dal momento in cui ha avuto il primo pensiero eretico. Le tensioni del racconto riguardano quanto tempo egli potrà restare vivo e se sarà possibile per Winston morire senza tradire dentro di sè la sua ribellione”.
44 George Orwell, Nineteen Eighty-Fo, op.cit., pag.36. Vers.it. G.Orwell, op.cit., pag.48. Trad.: “Era un fatto del tutto comune, per le persone al disopra dei trent’anni, d’esser spaventate e tenute in soggezione dai loro stessi figliuoli. e con ragione, perché non passava settimana senza che il Times pubblicasse una notizia su uno di cotesti piccoli farabutti di delatori (“fanciullo eroe” era tuttavia la parola generalmente usata) che, avendo udito pronunciare una qualche frase compromettente dai suoi stessi genitori, li avevano denunciati alla Psico-polizia.
45 Ibidem, pag. 31. Vers.it. ibidem p.39 “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”.
46 Ibidem, pag.32. Vers.it. Ibidem, pag.42: “Abbasso il Grande Fratello, abbasso il Grande Fratello, abbasso il Grande Fratello”.
47 Ibidem, pag. 110. Vers. it.: Ibidem, pag. 212: “Fin dall’inizio del tempo che si possa ridurre alla memoria, e probabilmente fin dalla conclusione dell’Età Neolitica, ci sono state, nel mondo, tre specie di persone, le Alte, le Medie e le Basse. Esse sono state suddivise in vari modi, hanno avuto nomi diversi, in numero infinito, e la loro proporzione relativa, così come l’atteggiamento dell’una verso l’altra, sono stati diversi a seconda delle età: l’essenziale struttura della società non si è però alterata. Anche dopo enormi rivoluzioni e apparenti irrevocabili mutamenti, si è sempre ristabilito il solito schema, così come un giroscopio ritornerà sempre in equilibrio per quanto venga spinto lontano sia in una direzione, sia in quella opposta. Gli scopi di questi tre gruppi sono del tutto inconciliabili fra loro …”.
48 Stephen J. Greenblatt, op;cit. pag. 71. Trad. “Dio è il potere” è la rivelazione finale di 1984″
49 Edward M. Thomas, op.cit., pag. 85. Trad.: “Il potere è una parola sempre ricorrente in Orwell. Tuttavia è discutibile che sia qualcosa al quale egli abbia pensato in termini di lunghezza o spassionatamente. Egli non analizza la psicologia del potere nello specifico, o i meccanismi del potere nelle istituzioni di lavoro. Invece, è sempre il cosmico, la forza da incubo, vista dal punto di vista della vittima che improvvisamente e incomprensibilmente è schiacciata”.
50Bernard Bergonzi, The Situation of the Novel, in George Orwell, 1984, op.cit., pag.14.
51 George Orwell, Nineteen Eighty-Four, op.cit., pag. 159-60. Vers. it. G.Orwell 1984 op.cit., pag. 291: “Voi ci governate per il nostro bene” disse Winston a voce bassa. “Voi credete che gli uomini non sono capaci di governarsi da sé, e quindi…”
52 Ibidem.Vers. it.: Ibidem., pag. 291-292: “Ora risponderò io stesso alla mia domanda. Sta a sentire. Il Partito ricerca il potere esclusivamente per i suoi propri fini. Il bene degli altri non ci interessa affatto; ci interessa soltanto il potere. Nè la ricchezza, nè il lusso, nè una vita lunga, nè la felicità hanno un vero interesse per noi; ci interessa soltanto il potere, il potere puro. Ti dico subito ciò che significa potere puro. La differenza tra noi e le oligarchie del passato consiste in questo, che noi sappiamo quel che facciamo. Tutti gli altri, anche quelli che ci rassomigliarono più da vicino, erano tutti vili e ipocriti. I nazisti tedeschi e i comunisti russi si avvicinarono molto ai nostri metodi, ma non ebbero mai il coraggio di dichiarare apertamente i loro motivi, le loro ragioni. Essi pretesero, e forse persino credettero, d’essersi impadroniti del potere contro la propria elezione e iniziativa, e per un tempo limitato, e che all’angolo della strada ci fosse un paradiso nel quale gli uomini potessero essere liberi e uguali. Noi siamo tutt’altra cosa. Noi sappiamo benissimo che nessuno s’impadronisce del potere con l’intenzione di abbandonarlo in seguito. Il potere non è un (-(-(–mezzo, è un fine. non si stabilisce una dittatura nell’intento di salvaguardare una rivoluzione; ma si fa una rivoluzione nell’intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere. Cominci a capirmi, ora?”
53 Ibidem. p. 171 Vers.it Ibidem, pag.315: “Fatelo a Julia! Fatelo a Julia! Non a me! Julia! Non me ne importa niente di quel che le fate. Laceratele la faccia, rodetela all’osso. Non a me! Julia! Non a me!”.
54 Ibidem. p.177 Vers.it: Ibidem, pag.327: “Amava il Grande Fratello”.
55 Jenni Calder, Orwell: “Orwell’s Post-War Propecy”, in George Orwell: “a collection of critical essays”, op.cit., pag. Traduz. “La psico-polizia, terrore e tortura sono strumenti di conservazione dell’ordine costituito; la Neolingua è un mezzo per controllare i pensieri e le inclinazioni che ispirano il disordine. Syme, un collega di Winston, descrive lo scopo delle Neo-lingua: “Alla fine renderemo letteralmente impossibile lo psico-crimine, perché non vi saranno parole nel quale esprimerlo. Ogni concetto che può essere usato sarà espresso da una sola precisa parola, con il suo significato esattamente definito e tutti i suoi significati secondari scacciati e dimenticati’. La manipolazione del linguaggio è essenziale per la manipolazione della storia”.
56 Ferdinando Castelli, op.cit., pag.23.
57 George Orwell, op.cit., pag.83. Vers.it. G.Orwell, op. cit. pag.153: “Nei tempi antichi, pensò, un uomo guardava il corpo d’una ragazza, si accorgeva di desiderarlo e tutto finiva lì. Non si sapeva più godere dell’amore puro o della pura libidine, oggidì. Nessuna emozione era più pura, perché ogni cosa era mescolata con la paura e con l’odio. Il loro amplesso era stato una battaglia. L’attimo di godimento, una vittoria. Era un colpo inferto al Partito. Era un atto politico.
58 Ibidem, pag. 86. Vers. it. Ibidem, pag. 160: “Quando fai all’amore, spendi energia; e dopo ti senti felice e non te ne frega più di niente. Loro non possono tollerare che ci si senta in questo modo. Loro vogliono che si bruci l’energia continuamente, senza interruzione. Tutto questo marciare su e giù, questo sventolio di bandiere, queste grida di giubilo non sono altro che sesso che se ne va a male, che diventa acido. Se sei felice e soddisfatto dentro di te, che te ne frega del Gran Fratello e del Piano Triennale, e dei Due Minuti di Odio, e di tutto il resto di quelle loro porcate?”.
59 Jenni Calder, op. cit., pag. 140. Trad.: “Per lui il sesso rappresenta un’energia che può contemporaneamente essere creativa o portare alla corruzione”.
60 George Orwell, op.cit., pagg.86-87. Vers. it. op.cit. pag. 160: “C’era un rapporto diretto e intimo fra l’astinenza sessuale e l’ortodossia politica. In che modo si sarebbero potute mantenere sempre eccitate la paura, l’odio, la folle credulità di cui il Partito abbisognava, nelle persone dei suoi membri, se non coll’imbottigliare un istinto potente come quello del sesso, e sfruttarlo, invece, come una forza motrice? L’istinto sessuale era un pericolo per il Partito, e il Partito l’aveva messo a frutto snaturandolo. Avevano fatto un trucco del tutto simile con l’istinto materno e paterno. La famiglia non si poteva abolire, e anzi la gente era incoraggiata, di solito, a esser fiera e amorosa della propria prole, press’a poco nella solita maniera del passato. Ma i figli, invece, venivano sistematicamente istigati a rivoltarsi contro i genitori, e si insegnava loro a far la spia del loro operato e a denunciare le loro mancanze. La famiglia era divenuta, in
sostanza, una sottosezione della Psicopolizia. Era una trovata geniale mediante la quale tutti erano circondati, notte e giorno, da delatori che li conoscevano intimamente bene”.
61 George Orwell, op.cit., pagg. 27-28. Vers.it.: G.Orwell, op.cit., pag. 35: “Goldstein era il rinnegato, l’apostata che, una volta, molto tempo prima (quanto tempo prima, nessuno poteva ricordarsi con precisione), era pure stato fra i dirigenti del Partito, importante quasi quanto il Grande Fratello stesso, ma s’era poi dato a organizzare attività controrivoluzionarie, era stato condannato a morte ed era misteriosamente evaso e scomparso. I programmi dei Due Minuti d’Odio variavano a seconda dei giorni, ma non ce n’era nessuno in cui Goldstein non fosse la figura principale. Egli era stato il supremo traditore, il primo che avesse osato profanare la purezza del Partito. Tutti i delitti che erano stati commessi in seguito contro il Partito, tutti i tradimenti, gli atti di sabotaggio, le eresie, le deviazioni, ecc. erano sorti direttamente dal suo insegnamento. Era ancora vivo, in qualche parte del mondo, e stava preparando le sue cospirazioni. Forse al di là del mare, con la protezione e il soldo dei suoi padroni stranieri…forse anche, si diceva pure questo, era nascosto nella stessa Oceania”.
62 Ibidem, pag. 29. Vers.it. ibidem, pag.37: “Egli era a capo di un vasto esercito fantasma, una vasta trama di complotti clandestini intesa al rovesciamento dello Stato. Si credeva che si chiamasse la Fratellanza. Si mormorava anche d’un certo terribile libro che costituiva il compendio di tutte quelle eresie, del quale Goldstein era l’autore e che circolava clandestinamente qua e là. Era un libro senza titolo. La gente vi alludeva, seppure osava farlo, semplicemente come a il libro. Ma queste cose si sapevano solo molto nel vago, per sentito dire. Nè la Fratellanza, nè il libro erano argomenti che un comune membro del Partito avrebbe toccato, se poteva evitarli”.
63 Ibidem, pag.41. Vers.it., Ibidem, pag.57: “In quel momento per esempio, e cioè nel 1984 (seppure quello era il 1984) l’Oceania era in guerra con l’Eurasia ed era alleata con l’Estasia”.
64 Jenni Calder, op.cit., pag. 146. Trad.: “La guerra viene usata come mezzo per controllare la popolazione che vive nel territorio del proprio Stato piuttosto che per distruggere o conquistare territorio nemico. È un concetto che Orwell ha frequentemente toccato, e che per noi oggi forse rappresenta il più importante avvertimento che il libro contiene. La stretta connessione che egli disegna tra una società totalitaria e la guerra atomica è ancora molto rilevante’.
65 George Orwell, op.cit., pag.48. Vers.it., op. cit., pag.76: “I prolet non sono esseri umani”.
66 Ibidem, pag.54. Vers.it., Ibidem, pag.93: “Seppure c’è una sola speranza, scrisse Winston, si trova fra i prolet.
Seppure c’era una sola speranza, doveva trovarsi fra i prolet, perché solo fra essi, in quelle masse disprezzate,
stipate in alveari (e che formavano, si badi, 1’85 per cento della popolazione di Oceania) poteva generai la forza capace di distruggere il Partito. 11 Partito non si poteva rovesciare da dentro. I suoi nemici, seppure ne aveva, non potevano trovare il modo di riunirsi, e nemmeno quello di riconoscersi. Anche se esisteva la leggendaria Fratellanza, come tuttavia era possibile, era in concepibile che i suoi membri si riunissero in più di due o tre per volta. La ribellione consisteva tutta in poco più che una guardata negli occhi, una inflessione della voce; una parolina sussurrata, di quando in quando. Ma i prolet, se soltanto fossero riusciti a rendersi conto di quale era effettivamente la loro potenza, non avrebbero avuto alcun bisogno di cospirare. Avevano soltanto bisogno di levarsi e di scuotersi, proprio come un cavallo che si scuote di dosso le mosche. Se l’avessero voluto, avrebbero potuto fare a pezzi il Partito anche l’indomani mattina. Prima o poi avrebbero dovuto capirlo!”
67 George Orwell, op.cit. pag.159. Vers.it., op.cit., 290: “Il programma che difende, naturalmente, è tutt’una sciocchezza. Quel mettere da parte una serie di conoscenze segrete, quella graduale diffusione di una verità e da ultimo quella rivolta proletaria e il rovesciamento del Partito… Tu stesso prevedevi benissimo che avrebbe detto tutte queste cose, no? Bè, sono tutte sciocchezze. I prolet non si ribelleranno mai, nemmeno fra mille anni, nemmeno fra un milione d’anni. Non lo possono. Non c’è bisogno che te ne spieghi la ragione: la sai già. Se hai mai accarezzato alcun sogno d’insurrezione violenta, bisogna che lo metta definitivamente da parte. Non c’è nessun modo per rovesciare il Partito. 11 dominio del Partito è per sempre. Cerca di mettere questo concetto a fondamento di tutti i tuoi pensieri”.
68 Isaac Deutscher, “1984 – The Mysticism of Cruelty”, in George Orwell: “A collection of critical essays”, op. cit., pag. 119. Trad.: “Pochi racconti scritti in questa generazione hanno ottenuto una popolarità così grande come
quella di 1984 di George Orwell. Pochi, seppure qualcuno lo ha avuto, hanno avuto un’impatto simile sulla politica. Il titolo del libro di Orwell è già politico nella parola. I termini da lui coniati – “neolingua”, “archeolingua”, “trasformabilità del passato”, “‘Grande Fratello”, “Ministero della Verità”, “psicopolizia”, “psicocrimine” “bi spensiero”,”settimana dell’odio”, ecc. – sono entrati nel vocabolario politico; essi ricorrono in diversi articoli di giornali e in diversi discorsi che denunciano la Russia e il comunismo. La televisione e il cinema hanno reso familiari a molti milioni di spettatori su entrambe rive dell’Atlantico la faccia minacciosa del Grande Fratel lo e l’incubo di una immaginaria Oceania comunista. Il racconto è servito come una specie di super-arma ideologi ca durante la guerra fredda. Come in nessun altro libro o documento la paura convulsa del comunismo, che ha percorso l’ovest fin dalla II Guerra Mondiale, è stata riflessa e focalizzata in 1984″.
69 Tullio De Mauro, “Quando una parola uccide l’altra” in ” Il futuro è già cominciato”, in Panorama, anno XXII, n.925, del 9/1/1984, pag. 97.
70 Ibidem.
71 Corrado Augias, “Quei bagliori a luci rosse”, in “Il futuro è già cominciato”, in Panorama, cit., pag.89.
72 Conor Cruise O’Brien, “Orwell looks at the world”, in George Orwell: “a collection of critical essays”, op.cit., pag.160. Trad.: “Noi siamo abbastanza vicini al 1984 per vedere che il mondo poi, in qualsiasi modo possa essere, non assomiglierà quello che Orwell aveva immaginato”.