SALVATORE PAOLO GARUFI TANTERI
CAPITOLO QUARTO DEL LIBRO
I MOMENTI DELLA VITA DELLA GENTE DI CATANIA (E PROVINCIA)
4
In verità, l’idea di scrivere dei racconti sulle feste patronali e le lotte politiche nella sua città Jacopo Amari l’aveva in testa da tempo.
Ma, si decise in una notte di dicembre, quando insegnava a Cortemilia, provincia di Cuneo, parlando con un’amica.
Voleva definire per lei la sua identità provinciale, secondo gli insegnamenti degli scrittori delle Langhe – Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Nuto Revelli –.
Non c’era – non c’era mai stata – antropologia nella sua testa -. C’era soltanto letteratura, cioè ragione più sentimento, qualcosa di meglio della mera e pretenziosa “ricerca scientifica” dei cattedratici.
Letteratura a meno venti sotto zero, purtroppo!
E non era un particolare da poco, perché, se lasci perdere la retorica e le frasi fatte, scopri che il cuore della Sicilia lo puoi cogliere soltanto se parli dal freddo, cioè da lontano. Con questo, voleva dire che la Patria non indica la terra in cui si è nati, ma la mentalità che quella terra ci ha dato.
La migliore Sicilia è la proiezione mentale di chi ne sta lontano. E’ la Sicilia di Ibn Hamdis, il grande poeta siculo-arabo, la Sicilia di Giovanni Verga e di Luigi Pirandello. E’ una Sicilia personalizzata e mai esistita fuori dal loro cuore.
Quella notte la neve era una spessa crosta, opaca come un muro. Di fronte a casa sua, il fiume Bormida, nero di acido fenico, pareva il corvo di Edgar Allan Poe, mentre gracchia “nevermore!” alla natura.
Nella cucina, sotto la luce del neon, c’era Jacopo e lei… la sua amica bionda, alta e irresistibilmente nordica.
“Fra poco sarà Natale” le disse Jacopo. “Domenica si va a Ginevra. Mi piacciono i suoi alberi addobbati lungo le strade.”
“Parlami del tuo paese, invece.”
“Militello?… E’ famosa perché c’è nato Pippo Baudo!”
“Soltanto?”
“Anche altri… I Majorana per esempio… un cantastorie…”
“No, non è di questi che voglio sapere, ma della gente comune…”
Nel dirlo, la donna prese un’aria sognante. Da quando stavano insieme non s’era persa un film dove si recitasse con accento siciliano. Ella conosceva tutte le smorfie mafiose di Giancarlo Giannini e Jacopo aveva appena ventiquattro anni e una gran voglia di far colpo.
Fuori, il paesaggio gli dava bianco su bianco (tranne la striscia nera del Bormida). Da quelle parti il freddo era immobile come la morte; non aveva il fragore dei temporali della Piana di Catania. Era clima senz’anima e senza storia, quello langarolo!
Chissà perché, guardandolo, gli ricordava il suo caldo, le sue sieste, quando, madido di sudore, se ne stava chiuso nella cagnola – cioè, come i cani che si sdraiano a terra, stremati, senza alcuna voglia di muoversi -.
“Ecco” cominciò a dire alla sua amica, “la nostra anima dorme sotto il peso del torpore estivo, nella silenziosa penombra di una stanza piena di sogni erotici. Laggiù siamo tutti dei velleitari. Aspiriamo all’Assoluto e, aspettandolo, non facciamo nulla!”
Andò vicino alla finestra, a guardare fuori.
“Però” riprese a dire, “ci misuriamo in grande, convinti che siamo i più furbi e che gli altri non fanno altro che congiurare contro di noi, per invidia o per interesse. Il che, forse, sarà vero. Ma, congiurando tutti contro tutti, ognuno non fa altro che combattere da solo, restando attaccato da tutti.”
Insomma, spiegò Jacopo, a Militello ci si conosce soltanto attraverso la guerra e la sconfitta è la divisa che si indossa.
I militellesi sono tanti secoli manzoniani, l’un contro l’altro armati. E nelle loro beghe non lasciano fuori né la Terra né il Cielo. Se Gesù venne a dividere i figli dai padri, nella provincia catanese sono saliti in Paradiso ed hanno diviso il figlio dalla madre.
Così, con la benevolenza dei Santi, come gli eroi omerici, un pulviscolo di guerrieri – un po’ massoni, un po’ guasconi, un po’ fanfaroni – furoreggia annualmente nelle guerre di campanile.
Più del calcio, più della politica, tutti tifano nella gara dei festeggiamenti. Nelle processioni non vedi pii devoti, ma partigiani incazzosi, pronti a rompere un’amicizia – e, se necessario, pure una testa – per questioni di dottrina teologica.
E’ una guerra continua, sotterranea, appiccicosa, tradimentosa.
Ormai ci si batte prevalentemente col gioco dello spionaggio, con le amicizie partitiche, coi voti di scambio, con le spiate, con le calunnie, coi sabotaggi… Vince chi ottiene un finanziamento per feste senza futuro, o chi riesce a farlo perdere all’avversario.
Resta, ovviamente, la parte più bella: la competizione, tutta concentrata sugli addobbi luminosi, sulle sguaiataggini sonore in piazza e, soprattutto, sui fuochi d’artificio!
La gara più affascinante è quest’ultima. A sentir parlare i capi delle due fazioni, par che ci voglia la cultura di Pico della Mirandola. Nei fuochi d’artificio l’egualitarismo è un non senso; su di essi si stabiliscono gerarchie onnipotenti, anche se momentanee.
Il vero spettacolo, quindi, è guardare i competenti fedeli col naso all’insù, mentre contano nel cielo ripetizioni, spaccate e napoletane.
Pare che anche le condizioni climatiche vadano messe in conto nel giudizio. Un rumore più o meno secco, rivelatore della qualità di una bomba, è oggetto di mille sottili discussioni, tali che farebbero impallidire i bizantini più pignoli. Tipi serissimi – di quelli che ridono soltanto quando si siedono a tavola, o intascano soldi – saltano di gioia e battono le mani, come tifosi di calcio, o i leccaculo nei comizi elettorali.
Ogni botto è un goal ed un po’… anche una bella coltellata al cuore dei nemici!
Bombe è mortaretti sono le armi ideali. Il loro rumore fragoroso e provvisorio è lo specchio dell’impegno umano.
E’ un grido labile, che per un istante copre ed illumina l’intero universo… e subito si spegne e fa rivedere il buio ancora più buio.
E’ un ricamo fra le stelle!
La neve scintillava sotto le luci della strada. Da dietro l’angolo spuntarono i fari di un’auto, che presto passò, lasciando due scie di sporco.
Jacopo si volse verso la sua amica.
“Charmant!” ella disse.
Era una storia lunga, comunque, quella delle guerre di campanile. Nei secoli passati, infatti, era addirittura più vivace.
Nella cittadina di Militello in Val di Catania, infatti, da un lato c’erano i parrocchiani della Chiesa di San Nicolò, riuniti attorno al primo potere della città, la famiglia dei baroni Majorana Cocuzzella.
Prevalentemente, si trattava di contadini, di popolani, di personale di servizio.
Dall’altro militava – ed il verbo non è casuale – la setta del quartiere dell’Immacolata Concezione, in realtà della Madonna della Stella.
Era composta, soprattutto, da artigiani, nuovi possidenti e professionisti.
Le famiglie più in vista erano i Natale, i Reina, i Reforgiato (e, dalla metà dell’Ottocento, i Majorana Calatabiano).
Su queste guerre lo storico secentesco Pietro Carrera aveva già scritto.
Fino al 1500 – egli narrava – l’unica parrocchia funzionante della città era la chiesa di San Nicolò. Santa Maria della Stella, invece, prima di quella data, era la cappella privata dei Barresi e dei Branciforte, cioè dei Signori della Terra di Militello.
Il titolo di parrocchia, perciò, le fu dato soltanto ai tempi di Blasco II Barresi, grazie al prestigio della moglie, Eleonora Speciale, figlia del vicerè di Sicilia, Pietro.
La conseguenza fu che si aprì una lotta per la preminenza, che portò a un’autentica guerra per bande.
Nel 1710, per superare la diatriba, che aveva già provocato l’esodo di più di cinquecento famiglie, si pensò di unire le due chiese in una collegiata.
Se non che, quando le cose sembravano aver preso la giusta piega, su delazione del canonico don Giuseppe Malacrìa, la collegiata venne denunciata come illegittima.
Avvennero, poi, fatti davvero brutti; il più grave dei quali fu l’assalto all’arciprete di San Nicolò, don Paolo Sciacca, nel giorno del Corpus domini del 1781.
Di conseguenza, il viceré Caramanico non tardò a considerare la situazione militellese una sopravvivenza medievale da eliminare, per cui:
Informato il re dei continui scandalosi litigi tra le Chiese di San Nicolò e di Santa Maria la Stella di Militello Val di Noto, indipendenti tra loro, determinò con Reale Dispaccio del 28 luglio 1787 che le dette Chiese si sopprimano, e che delle due se ne formi una […], con sopprimersi ed estinguersi i titoli d’ambe le Chiese ora esistenti, per togliersi alla radice ogni fomento dell’antica divisione di Parrocchiani, dovendosi denominare la Chiesa del SS. Salvatore quella che sarà designata per Matrice ed unica Parrocchiale e l’altra la Chiesa dell’Immacolata Concezione che dovrà rimanere in qualità di Chiesa privata.
Va chiarito subito, ad onore dell’intelligenza dei lettori, che nell’intervento del viceré c’era qualcosa di più sostanzioso della determinazione di porre fine a una lotta per il patronato della città, fatto assolutamente diffuso e banale.
L’occasione era perfetta, invece, per dare una mano alla massoneria locale, il cui capo, l’avvocato don Alfio Natale, qualche anno dopo raggiunse una certa notorietà, vincendo una causa che portava all’abolizione dei privilegi baronali.
Con la chiusura delle due parrocchie, insomma, si dispiegava l’attacco degli illuministi alle rendite parassitarie della Chiesa e la corona poteva tranquillamente incamerarsene i beni e metterli in vendita.
Purtroppo, lungi dal raffreddarlo, questa decisione surriscaldò il fronte di guerra, perché ci fu lo sgradevole particolare di scegliere la vecchia San Nicolò come chiesa principale, anche se ora intitolata al SS. Salvatore – scelta, in sé, razionalmente ineccepibile, dato che l’edificio era il più grande di Militello e si trovava in un quartiere centrale -.
Infatti, da quella soluzione scaturirono due risultati, ambedue pessimi. Il primo fu quello di cambiare i devoti di San Nicolò in devoti del SS. Salvatore – probabilmente, il loro interesse era più per l’edificio che per il suo Titolare -. Il secondo fu che i mariani diventarono ancor più mariani, pronti a ogni congiura eversiva.
Nelle questioni religiose – soprattutto se ingigantite ad arte – non è detto che la razionalità sia la scelta migliore.
Da qui il fiorire di altri disordini e di vivaci libelli, che si leggono con divertimento, tanto che con divertimento, oggi, si può provare a scriverne…
Scriveva Padre Ludovico Fazio:
Nella bellicosa città di Militello, esistente nella Valle di Noto, tra il Regno di Sicilia, siccome ritrovansi due Chiese Parrocchiali, così vi sono sempre state due fazioni: dei Nicolaisi, ovver dei Nicolani,, così chiamata da S. Nicolò di Bari, titolare della loro Chiesa Maggiore; dei Mariani nominata l’altra, così detta da Santa Maria, sotto il titolo della Stella, parimenti titolare della loro propria Chiesa Parrocchiale.
Ma, la prima di queste, perché amante di novità e non so qual nuovo prurito di disputare, da non molto gran tempo godette allontanarsi dalla vetustissima e mai interrotta tradizione, con la quale ha sempre fermamente tenuto Santa Maria, sotto titolo della Stella, di detta Città Unica e Principale Padrona. E, intorbidando l’antico possesso e la quiete della seconda, senza aver riguardo veruno a tradizione e ai Dottori, si ha persuaso, sol perché l’ha piaciuto, sostenere S. Nicolò il Grande di Militello Patrono Principale…
A questo punto, aleggiò sulla testa di Jacopo il sorriso beffardo dell’ombra del suo Maestro, quell’Alessandro Manzoni che la becera supponenza dei progressisti contemporanei non legge più.
“Ma, quando avrai durato la fatica di copiare una tale accozzaglia di involute disquisizioni” gli disse l’Ombra, “ci sarà mai qualcuno che durerà la fatica di leggerla?”
“Si vede che non siete siciliano, maestro!” rispose Jacopo. “E, soprattutto, che non siete di Militello… Per noi, queste, sono cose serie, importanti. A causa della Guerra dei Santi, come la chiamò Giovanni Verga, è successo di tutto, perfino sommosse popolari, persino coltellate! Il grande Leonardo Sciascia cominciò la sua carriera di scrittore con un libro dal titolo Feste religiose in Sicilia; un antropologo contemporaneo ci ha cucinato un saggio grosso come un grosso mattone, dove solo nella prefazione si viaggia a dieci citazioni a riga…”
“Un vero e proprio fuoco di sbarramento!” commentò l’Ombra. “Come per intimare al lettore di non andare avanti!”
“Non è finita, maestro!” continuò Jacopo. “Nello Musumeci, l’unico politico popolare da queste parti, su questa diatriba ha prodotto conferenze e saggi storici. Per non parlare di Pippo Baudo, che si è sempre dimostrato mariano sfegatato…”
“La gente è davvero strana! Ma, in fondo, Dio ha inventato gli scrittori perché così va il mondo…” commentò l’Ombra.
Sorrise, assumendo quell’espressione inquietante, che la critica chiama ironia manzoniana e aggiunse:
“O, almeno, così andava a Militello nel Vallo di Catania!”
Dopo queste parole, Jacopo capì che, visto l’interesse del contenuto, non era il caso di deporre lo scartafaccio – o, per meglio dire, il quaderno manoscritto – su cui si affaticava, anche se, già per il titolo, nonostante qualche aggiustata alla punteggiatura, una persona sana di mente lo avrebbe sconsigliato di insistere.
La Verità in Trionfo
Ovvero
Ragioni storiche con le quali si sostiene Santa Maria,
sotto il titolo della Stella, Unica e Singolare Padrona
della Città di Militello Valle di Noto.
Raccolta e disposta da un devoto nato a Militello e
battezzato nella Chiesa di San Nicolò, a 25 Settembre dello anno 1707, Padre Ludovico Fazio dell’ordina dei
Venerandi Padri Conventuali di S. Francesco d’Assisi.
Dedicato al Santo dei Miracoli e Miracolo dei Santi
S. Nicolò il Grande, Arcivescovo di Mira.
Beneficiale Sacerdote Giuseppe Ragusa Falcone da
Militello Valle di Catania copiò, addì 1 Novembre 1895.
Una vistosa e ripetuta variante ortografica attirò l’attenzione di Jacopo. Fra’ Ludovico Fazio indicava la Madonna, non come Patrona (cioè avvocata), ma come Padrona di Militello.
Con questo titolo, pensò, Ella non era e non appariva una Presenza Celeste, verso cui provare devozione, e neppure una madre a cui rivolgersi; ma, diventava un feudatario qualsiasi, davanti a cui ci si inchina per avere in cambio protezione.
Esagerando, si poteva dire che l’imprudente canonico, come qualche volta accade al clero, travisava la Dottrina.
“Per fortuna, se Dio perdona quelli che non sanno quel che fanno… vuoi che si metta a spaccare il capello in quattro per gente che non sa quel che scrive?”
Però, il lapsus restava interessante, perché confermava un passo del libro di Leonardo Sciascia:
“Ma una festa religiosa – che cosa è una festa religiosa in Sicilia?
“Sarebbe facile rispondere che è tutto tranne che una festa religiosa […] E’, innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di “uomo solo”, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io (stiamo impiegando con approssimazione i termini della psicanalisi), per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città.”
Realizzare un omaggio ad Alessandro Manzoni – e, perché no?… anche a Leonardo Sciascia -, fu questo, insomma, il motivo per cui lo scritto del Fazio a Jacopo parve bello lo stesso, tanto che il perderlo sarebbe stato un peccato.
Ad ogni buon conto, non c’era alcun dubbio che anche il grande don Lisander era arrivato ad una scelta simile, dopo un attimo di sbandamento per il periodare sgangherato del suo Anonimo.
Così, Jacopo decise di dare all’opera una lingua un po’ più urbana, senza pretendere di essere uno storico, ma con la superbia di recuperare almeno le intenzioni della migliore prosa italiana moderna.
Se lo poteva permettere. Gli scrittori – almeno quelli che non sono grigi burocrati della scrittura – non sopportano i canoni ope legis.
In fondo, la loro intelligenza serve per scovare negli interstizi del particolare inediti gli scampoli dell’universale.
Tutti sanno – scrisse Ludovico Fazio – che un modo convincente di sostenere le proprie ragioni è quello di cercare autorevoli testimonianze a proprio favore… o, almeno, testimonianze antiche. Ciò vale, in particolar modo, nella pubblicistica sulla disputa che oppone mariani e nicolesi, dove “a niuno è lecito discorrere di proprio capo.”
Non mancherebbe, a questo punto, chi potrebbe obiettare:
“Dipende da che punto di vista si guardano le carte antiche. E poi, chi l’ha detto che l’antico sia veritiero solo perché è antico? Le bugie, come la morte e come le ideologie, sono eterne!”
Le testimonianze antiche, infatti, di solito sono la voce di chi comandava. Se il Fazio, perciò, trovò i mandati di pagamento, dal 1601 al 1645, per la festa della Madonna della Stella a spese dell’Università (il municipio di allora), ciò potrebbe essere sì un omaggio alla fede popolare; ma, lo si può guardare pure come uno sforzo del potere per vivacizzare la vita di un popolo, che aveva molti motivi per essere furioso nei suoi riguardi.
Il Seicento fu un secolo pieno di ribellioni popolari, come ci narrano le cronache siciliane.
Molto più interessanti, quindi, risultano le tecniche della festa, come da quei mandati ci arrivano.
In due, specialmente, spediti l’otto settembre 12 indizione 1628:
“Don Ioseppi Romano Depositario della Università di questa terra di Militello V. N: dati e pagati a Giuseppe Pitradilo di Palazzolo onza una tarì diciotto diciamo 1.18 quali si ci pagano per aviri andatu sulla corda corda, ed aviri vulatu a lu Campanaru di S. Maria della Stella, insinu allu Pianu, e questo disbrio è stato fatto per solennizzarsi detta Festa, acciò tanto lu populu di questa terra, quanto li Forasteri insieme solennizzare la Festa di la nostra Padrona, acciò anche aversi fatto altri fiati in ditta Festa.”
Infatti, lo stesso Depositario in un altro mandato:
“Dati e pagati a M.ro Vincenzo Baudanza onze dodeci diciamo 12, quali si pagano per accordio di farsi un Giuoco di fuoco con boni forgarelli ad affetto spararsi per questa festa di Santa Maria della Stella nostra Padrona, quale festa si celebra all’otto di Settembre misi presenti, d’accordio è solita farsi festa a spese di questa Università, come antica consuetudine a Padrona di questa terra di Militello V. N.”
Altra, ancor più interessante, notizia sulla cura con cui il potere costruiva la festa, la si può desumere quando il nostro Ludovico Fazio, nel fervore delle sue innamorate e febbricitanti argomentazioni, si appoggia all’autorità dello storico Pietro Carrera:
“Ma si permette pure (quello che mai si concede) che l’addotte ragioni siano d’autorità negativa, non so però come possono resistere senza piegare il Capo i Nicolaisi a quello che si cava da colui, quale con esattezza ci descrive le circostanze del fatto, per cui si conchiude con evidenza positiva Pietro Carrera, inclito rampollo di Militello […] dopo d’aver investigato da per se stesso tutte le memorie dell’antichità di sua patria, raccolte principalmente dalle antiche pubbliche scritture, come egli medesimo afferma che, tra le altre cose parlando della Chiesa di Santa Maria sotto titolo della Stella, le tramanda alla notizia dei posteri suoi concittadini ciò che siegue:
“La Chiesa di Santa Maria della Stella della quale ha preso il nome il quartiere situato nel basso fuor della terra è ricordata nel suddetto testamento che citiamo di Blasco primo fatto in Catania agli undici di Agosto dell’anno 1390, per quello egli lascia un legato alla suddetta Chiesa…”
“La memoria è del semplice nome di Santa Maria, sicché allora forse non avea quel titolo che è oggi della Stella, e dopo una lunga descrizione della Chiesa siegue a dire:
“La festa è quella della Università, si celebra del Nascimento di Maria Vergine nostra Padrona a dì otto settembre, si conduce una devotissima statua della Madonna composta di stucco, dentro una grande e ricca bara, e questa si serba in un tabernacolo adorno di belle immagini dorato, vi si fa la fiera, e si corre il palio a spese del pubblico, e dal primo di settembre, insino ai quindici la fiera franca.”
Fiera franca, appunto, cioè senza i soliti pesi fiscali e burocratici, meglio di quel che accade oggi con le tante bruttissime sagre che involgariscono i nostri prodotti tipici.
In ogni caso, l’importanza di detassare i commerci nella fiera della festività mariana venne ribadita nella legislazione fiscale di don Carlo Maria Caraffa, Principe di Butera e Marchese di Militello:
“Neanche si intende derogata l’antica consuetudine e libertà delli primi predetti giorni di settembre della fiera per la festività di nostra Signora Santa Maria della Stella Padrona di detta Città.”
E’ ovvio, quindi, che ci sono stati tempi in cui chiese e manifestazioni religiose erano cosa ben più importante di ciò che sono oggi.
Il che non era, in sé, un fatto negativo. La mentalità e la vita di ognuno si strutturava al loro interno e, tutto sommato, c’era un controllo sociale.
Lo stretto legame tra il culto della Madonna e la politica arrivò in Sicilia con Ruggiero il Normanno nell’XI secolo. Fu la sua alternativa ideologica agli arabi, ai bizantini, ai regni barbarici.
E’ probabile che Militello, magari dopo aver massacrato gli abitanti della vicina città di Catalfaro, sia stata fondata dai normanni. Militum tellus, terra di soldati, può benissimo riferirsi a loro, dato che furono loro a reintrodurre il latino nell’isola.
Detto questo, è automatico pensare che l’otto settembre sia nato come festa dell’aristocrazia guerriera e feudale.
Poi. con l’eterno girare della ruota della storia, sotto le monarchie siciliane dei secoli XV, XVI e XVII – angioina prima, aragonese poi e infine spagnola -, in polemica verso un potere in putrefazione, crebbe la devozione per San Nicolò.
Oltre ai popolani, ora c’erano i membri della burocrazia: gabelloti e funzionari, nuovi nobili, cioè la cosiddetta nobiltà di toga.
La famiglia dei baroni della Nicchiara, i Majorana, ne fu la principale esponente. Piuttosto elastica verso i valori morali e le leggi – come tutti, nel momento dell’ascesa al potere -, essa, anche facendo ricorso alla violenza e all’abigeato, tolse il feudo ai legittimi titolari, i Russo, e per molti anni restò la vera padrona della città.
A contrastarla, questa volta a parti rovesciate, naturalmente accorsero i mariani – a cui si aggiunsero, prevalentemente, artigiani, liberi professionisti, possidenti -.
La massoneria prima e la carboneria dopo, per loro, fu lo sbocco più naturale.
A saper leggere fra le righe, perciò, lo stesso Ludovico Fazio ci ha consegnato la giusta chiave interpretativa della lotta fra i campanili che ha dilaniato tanti paesi siciliani.
Egli, probabilmente, si riferiva al sottoproletariato ed ai nobili senza storia – todos caballeros aveva decretato l’iniziatore di quella rivoluzione sociale, l’Imperatore Carlo V -, scrivendo:
“Or sinora i Nicolaisi non mostrano altri storici coetanei o vicini al fatto contrarii a quello da me citato; anzi mostrar non possono neppure i susseguenti, alla riserva di puochi vagabondi (per non dir birbi) d’animo sedizioso, i quali di non molto gran tempo godettero d’allontanarsi dalla tradizione universale e costante, per più secoli custodita dai loro Maggiori, e l’hanno avanzato a seminare, non senza rossore, nel cieco ed ignorante Volgo novità zizaniose e non mai udite, e perciò non sono d’alcuna autorità, non essendo mai costume, neppure dalle genti più inculte, decidere le controversie per le testimonianze sospettissime di coloro i quali godettero nel suscitarle.
“Non è vero, anzi falsissimo, che quello vocabulo di Padrona debbasi prendere in senso abusivo e non in senso proprio, rigoroso; è scritto soltanto perché nel registrare i mandati lo scriba servivasi del titolo or di Nostra Signora, or di nostra Avvocata, or di nostra Padrona, con ciò che sia cosa che, se per ogni variazione che nelle antiche scritture troviamo di circostanze, vorremmo negare la fede alla sostanza dei fatti narrati.”
Per la verità, la vera sostanza riscontrabile in un’epoca disincantata come la contemporanea, qualsiasi cosa ne dica il Fazio, sarebbe che le feste in generale, a quei tempi, come oggi, erano e sono:
1) Funzionali al prestigio delle classi dominanti;
2) un’occasione di circolazione monetaria;
3) un modo per dare falsi bersagli all’aggressività dei dominati.
Paradossalmente, questo si è sempre saputo, dato che i nicolesi, alle argomentazioni del Fazio, opponevano un’osservazione piena di buon senso.
La Madonna, infatti:
“Dall’anno 15 Indizione 1601 sino all’anno 3 indizione 1620 vien chiamata col titolo di nostra Signora, dall’anno suddetto 1620 sino all’anno 7 Indizione 1624 nella spedizione del mandato non si fa menzione del titolo di nostra Signora o di nostra Padrona, nell’anno 9 Indizione 1625 vien detta nostra Avvocata, la quale variazione di titoli segno è che se qualche volta si scorgesse il titolo di Padrona, questo vocabulo non debba pigliarsi in senso proprio e rigoroso, ma in senso abusivo; e soggiungono che il farsi la festa a spese della Università non è prova che la Gran Vergine Maria, sotto il titolo della Stella, sia l’Unica e Principal Padrona, altrimenti molti sarebbero i Principali Padroni, come molte erano in quei tempi le feste, che si solennizzavano a spese del Pubblico, come ad evidenza si vede nel registro dei mandati spediti a tal fine.”