S. P. Garufi Tanteri, “L’isteria del potere e dell’anti-potere nell’Iliade di Omero” – da “Principi, faccendieri e accidiosi – Racconti dell’Anti-Utopia”

S. P. Garufi Tanteri, “L’isteria del potere e dell’anti-potere nell’Iliade di Omero” – da “Principi, faccendieri e accidiosi – Racconti dell’Anti-Utopia”

Salvatore Paolo Garufi Tanteri

Principi, faccendieri e accidiosi

Racconti dell’Anti-utopia

L’Anti-utopia di Omero

Intellettuali e criminali si dividono in due categorie: gli integrati (burocrati e mafiosi) e i ribelli (populisti e pirati). Ambedue, però, hanno scelto di fare i parassiti di Stato. Sempre uguali a loro stessi, come un unico liquido, che evapora col caldo e poi torna con la pioggia.

Se, per esempio, torniamo fra gli achei, troviamo questa genia indifferentemente, o dal lato di Agamennone, o da quello di Achille. Come oggi, indifferentemente, possono stare a Destra, o possono stare a Sinistra. Non è tanto una questione politica, ma il risultato del mero opportunismo.

Gli integrati hanno un concetto verticale della guerra fra principi e faccendieri e tutto si risolve in una scalata senza fine. Per loro crescere significa salire nell’opinione sociale e di questa idea rimangono prigionieri, anche dopo essere arrivati ai piani più alti.

“Neppure i Re sono uomini liberi” arriva a pensare don Socrate Sciusciapinseri. “Sopra di loro resta sempre la Ragion di Stato.”

I contestatori, invece, operano su un piano orizzontale e gli scontri sono una messa in discussione del Potere costituito. Si può usare la forza, la ricchezza, o l’egemonia culturale delle caste sacerdotali, delle magistrature, delle burocrazie.

Nell’Iliade, per esempio, i due assi cartesiani della scrittura vengono delineati con articolata genialità. Agamennone è l’icona del Re prigioniero della ragion di Stato e Achille è la narrazione dell’eversione populista. Calcante è l’immagine della burocrazia stipendiata e senza intelligenza, mentre Ulisse rappresenta gli arabeschi concettuali di antiche e sempre nuove ambizioni politiche, molto simili a quelle che, ai giorni nostri, caratterizzano i magistrati schierati.

Tutto ciò, per conseguenza, non può mancare di mettere in crisi il concetto di verità. Pablo Picasso e i futuristi – non parliamo dell’immenso Jorge Louis Borges – ci hanno già mostrato come ogni cosa cambia, se cambia il punto di osservazione.

Cosi, Siusciapinseri arriva a dar ragione alla memoria di Julius Evola, esecrata dagli intellettuali spocchiosi (e un po’ ignorantelli) della Sinistra:

“La storia è un sofisma della pigrizia e dell’ignavia” (in I tempi e la storia, Roma, 1982, p.17).

“Insomma” pensa Sciusciapinseri, “pure la Storia può diventare una serie di icone bizantine ricche e monotone.”

La narrazione letteraria, quindi, può essere vista come la negazione delle verità a buon mercato che infestano la società di massa.

“Non c’è alcun binario sopra il quale procede la corsa degli eventi, non ci sono leggi. Chi vuol conoscere il passato soddisfa… forse… qualche curiosità! Ma, non è sicuro che tale curiosità sia utile o piacevole.”

D’altro canto, gli uomini imparano poco dal passato. I grandi, scrisse Niccolò Machiavelli:

“Son più presto ammirati che imitati” (in Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Il principe e pagine dei “Discorsi” e delle “Istorie”, Sansoni, Firenze, 1951, p. 205).

Anche nell’ipotesi che la storia si svolga seguendo una logica evoluzionistica, a Sciusciapinseri risulta impossibile capirla. I libri più documentati sono pur sempre costruiti su documenti parziali, o salvatisi per caso, o fatti apposta per ingannare i posteri.

I documenti, in ogni caso, non dicono quali furono i sentimenti reconditi degli attori, i loro desideri, le loro paure. I libri di storia, quando va bene, presentano un’icona e non una verità. E l’icona è la più pericolosa delle bugie. Ricordatevi la novella “Ser Ciappelletto” di Giovanni Boccaccio.

Detto ciò, l’icona può avere, come i libri, finalità nobili o ignobili. In 1984, romanzo di George Orwell, c’è un dittatore, The Big Brother (il Grande Fratello), che fa riscrivere continuamente la storia, perché egli pensa che chi controlla il passato controlla il presente e chi controlla il presente controlla il futuro:

“Tutto si confondeva in una specie di nebbia. Certe volte, ad essere sinceri, si poteva mettere la mano su qualche menzogna sicura. Non era vero, per esempio, com’era dichiarato nei manuali di Storia del Partito, che il Partito avesse inventato gli aeroplani. Lui ricordava di aver visto gli aeroplani fin da quando era bambino. E tuttavia non si poteva provarlo. Non c’era nessuna prova” (1984, Mondatori, Milano, 1979, p. 59).

“L’arte” pensa Sciusciapinseri, in risposta a Orwell, “riportando l’attenzione sulle assurdità, se non ripropone la verità, almeno smaschera il falso. Da un lato la pretesa ufficiale delle Icone, dall’altro il marameo della narrazione.”

Ne Il Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia il concetto ritorna in maniera sublime e con i mezzi più pacati dell’articolazione romanzesca. Sciascia toglie alla storia ogni credibilità nella ricostruzione dei fatti. Nella trama c’è un certo abate Pella – un poveraccio che sbarca il lunario dando i numeri ai giocatori di lotto – che per caso ha l’occasione di inventarsi una falsa storia della conquista araba della Sicilia. Arriva quasi a ingannare i più esperti e smaliziati intellettuali… Per un po’, addirittura, ce la fa…

Ma, sarà smascherato.

Per caso, come per caso ha avuto l’occasione dell’inganno.

A Sciusciapinseri, perciò, viene il sospetto che forse gli scrittori ufficiali di storia sono stati semplicemente autori più fortunati.

Non potrebbero, infatti, essere false le storie che crediamo vere?

Gli storici più scrupolosi finiscono per realizzare fumose architetture di fatti, selezionando fra i caotici avvenimenti del passato, così come l’abate Pella:

“Inseguiva i fatti della vita, il passato e il presente, a cavarne sentimenti e significati come un tempo dai sogni degli altri estraeva i numeri al lotto” (Il Consiglio d’Egitto, Einaudi, Torino, 1977, p.164).

Conseguentemente, il canto primo dell’Iliade è un raffinatissimo trattato di politica. Più di Achille, però, mi è simpatico Agamennone. Questi è forse la figura più vera e tragica dell’epica greca: incompreso, disprezzato e sempre costretto a cedere nei suoi affetti per il bene comune. Sua figlia Ifigenia è già morta, perché la pretesa degli dei è che il capo non deve avere sentimenti privati. Il capo, come Il Padrino del romanzo di Mario Puzo, è l’uomo meno libero e più solo del mondo.

Così, per il buon fine della guerra di Troia, Agamennone, nell’interesse di tutti e contro il suo interesse, non può che chinare la testa. A guerra finita e vinta, il suo premio è la morte per mano della moglie Clitennestra.

Come si vede, l’Iliade prende avvio dalla sua personale tragedia (altro che ira di Achille!)… La bella Criseide, finalmente, era riuscita a donargli qualche attimo di umanità: la gioia dei rapporti sessuali e un po’ di tenerezza nel vederla intenta nei lavori donneschi…

E’ vero. La fanciulla era una schiava, una preda di guerra, qualcosa insomma che ripugna alla coscienza moderna. Questo, però, era il costume di allora. Agamennone non pensava di essere cattivo. O meglio, non pensava che essere cattivo fosse un male.

Eppoi, Achille non era più buono di lui. Anzi, era molto più rozzo; perciò – come un Marco Travaglio qualsiasi – aveva bisogno di additare dei colpevoli per i mali che funestavano gli achei. La peste dà sempre una fifa invincibile, perché contro di essa s’infrange la forza e la invulnerabilità di uno psicopatico come Achille. In un’altra peste, quando l’aedo non si chiamò più Omero, ma Alessandro Manzoni, i moderni Achille processarono gli untori (ai giorni nostri, al posto degli untori, mettiamoci i renitenti ai vaccini).

Ora, tutti prendono per scusa il fatto che Agamennone ha respinto in malo modo le suppliche del vecchio Crise per riavere la figlia. L’ira di un Dio è il modo più facile per spiegare il diffondersi della peste. Achille ha il coraggio di dire chiaramente quello che tutti pensano. Magari, per giorni ci sarà stato un Beppe Grillo dell’epoca – probabilmente, l’orribile Tersite – che lo ha sobillato. Si sarà detto che Agamennone si comportava da ladro,  come tutti i politici… I più inquadrati dei mirmidoni in coro avranno gridato:

“Onestà! Onestà!”

Quale ingiustizia peggiore poteva farsi ad un uomo che per il bene comune aveva sacrificato la figlia?

Soren Kierkegaard ha scritto qualcosa sulla religione come scandalo: Abramo sta per uccidere Isacco perché così ha ordinato Dio. Ma, Dio all’ultimo momento ha fermato la mano omicida. La politica è una padrona più esigente e non ferma mai il dolore. Anzi, pare nutrirsi di dolore.

Il tutto perché, per superare il conflitto degli interessi individuali, è stato inventato il concetto di interesse collettivo. Soltanto a quest’ultima, astratta logica debbono render conto le istituzioni politiche.

Così, Omero – già vecchio, cencioso, cieco, deformato dai reumatismi e con una voce ormai ridotta ad un lieve sussurro – si presentò nel convito del Re di Nasso per rinnovare il racconto del suo “Trattato sul Principe”. Tutti lo guardarono con grande ed universale attenzione. Il suo pubblico diceva che una dea gli parlava dentro. Ecco perché egli non mancava di invocarla solennemente, la dea, all’inizio della sua rievocazione di quel terribile nono anno della guerra troiana. Proprio per dar ragione al pubblico, com’è normale fra la gente di spettacolo.

Quando per volere (o per capriccio?) di Zeus negli accampamenti achei scoppiò la rabbia di Achille… – prese a narrare Omero –

ne seguì una dolorosissima strage di eroi, alcuni dei quali lasciarono i loro corpi a far da pasto ai cani ed agli uccelli. Il tutto per la durezza del cuore di Agamennone, re di Micene e capo della spedizione.

Infatti, qualche tempo prima costui aveva rapito Criseide, figlia di Crise, vetusto e venerabile sacerdote del tempio di Febo a Crisa. Perciò, il povero genitore venne negli accampamenti achei, a chiedere indietro la fanciulla.

Dopo aver mostrato le bende e lo scettro che attestavano la sua condizione sacerdotale, egli si rivolse ad Agamennone, al cui fianco stava il fratello Menelao.

“Voi due” disse, “siete i figli del grande Atreo ed avete per compagni i nomi più famosi nell’arte delle armi. Che gli dei vi diano, dunque, la forza di vincere i troiani e di tornarvene salvi in patria!… Vi supplico, però, di ridarmi mia figlia. Vi offro un giusto riscatto; ma non offendete il dio Febo, oltraggiando il suo sacerdote.”

In tutti i presenti si alzò un mormorio di simpatia per l’uomo ed anche l’invito ad Agamennone ad accettare la proposta. Ma, il re non si lasciò intenerire.

“Vattene” intimò al vecchio, “e non farti vedere più! Altrimenti, non ti serviranno a nulla le insegne del tuo dio. Nessuno toglierà tua figlia dalla mia casa e dal mio letto.”

Sul momento a Crise non restò che obbedire. Però, incamminatosi lungo la riva del mare, appena fu fuori dalla vista degli uomini, si rivolse al dio Febo:

“Ascoltami, tu che proteggi la bellezza e distruggi i topi che attaccano i campi” pregò. “Io che ho sempre adornato il tuo simulacro con festoni di ghirlande e che per te ho fatto sacrifici di Giovenche e di capretti, ti chiedo di venirmi in aiuto. Vendica l’offesa fattami dagli achei.”

Forse il Dio non restò insensibile a questa preghiera, o forse il caso volle che il suo sacerdote avesse l’impressione di essere accontentato. Fatto sta che Omero, da poeta, se la cavò immaginando che Febo scendesse sdegnato dall’Olimpo, sede degli Dei, con in mano l’arco d’argento e sulle spalle la faretra:

“… Mettean le frecce orrendo

su gli omeri all’irato un tintinnìo

al mutar de’ gran passi…” (Canto I, vv. 58/60. Questa e le altre citazioni sono prese da Vincenzo Monti, Iliade di Omero, Milano, Fabbri Editore, 1997, pp. 129/139).

Arrivò, quindi, fra gli uomini e scese come una notte fosca sul campo acheo, portando la morte con le sue frecce argentee. Oggi, in termini più prosaici si potrebbe parlare di peste, tanto più che il contagio partì dalle carogne dei muli e dei cani. Anche se, subito dopo, probabilmente favorito dal violento caldo e dalle esalazioni infette, si estese agli uomini.

Per nove giorni i guerrieri non fecero altro che bruciare cadaveri. Al decimo Achille riunì tutti in assemblea.

Pure in questa occasione Omero parlò di un intervento dall’Olimpo, questa volta da parte di Era. Pare, infatti, che la dea dalle bianche braccia si fosse impietosita per tanti lutti ed avesse posto nella mente del suo protetto la decisione di convocare i compagni.

Così, alzatosi dal seggio, nel silenzio mesto degli altri, l’eroe si rivolse ad Agamennone e disse:

“Credo che, continuando così, dovremo tornarcene a casa, sempre se riusciremo a scampare la morte che si aggira fra noi. Consiglio, quindi, di interrogare, o un indovino, o un sacerdote, o un interprete di sogni, che ci dica il perché di un male che io sospetto ci venga da Febo.”

Detto ciò, sedette.

Allora, si alzò l’indovino Calcante, figlio di Testore. Egli era venuto a Troia, al seguito degli eserciti, poiché, di tutti, era considerato il più saggio.

“E’ difficile il compito che mi affidi, Achille” esordì. “Voglio, perciò, che tu ti faccia garante della mia sicurezza, se davvero debbo rivelare il motivo dello sdegno di Febo. Infatti, chi ci guida in questa guerra sarà molto contrariato per le mie parole. Purtroppo, l’esperienza insegna che se un potente si arrabbia con un suo sottoposto, magari sul momento sa nascondere i suoi propositi di vendetta: ma, prima o poi, trova l’occasione di farla pagare al malcapitato.”

“Parla senza paura” lo rassicurò Achille. “Io giuro davanti a Febo ed a Zeus che, finché sarò vivo, nessuno…”

E qui calcò la voce, guardando in faccia Agamennone.

“Nemmeno Agamennone potrà alzare la mano su di te.”

Tranquillizato da quel giuramento, Calcante diede il suo verdetto:

“Il Dio non si lagna, né dei nostri sacrifici, né delle nostre preghiere. E’ l’oltraggio che Agamennone ha recato al sacerdote Crise che lo ha fatto infuriare. Le morti non cesseranno, se la fanciulla non sarà restituita al padre, accompagnata dall’offerta di cento animali, da sacrificarsi davanti al suo tempio.”

E sedette.

Com’era immaginabile, la reazione di Agamennone fu pronta.

“Profeta di sventure!” ringhiò, guardando torvo l’indovino. “Pare che la tua sola gioia sia annunciare disastri!”

Tanta animosità da parte del re di Micene era davvero il minimo che Calcante doveva aspettarsi. Per quegli, infatti, più della sua, era migliore la bocca di una vipera. All’inizio della guerra, quando la flotta era bloccata da una tempesta nel porto di Aulide, l’indovino coi suoi vaticinii lo aveva costretto al sacrificio di sua figlia Ifigenia. Pare che quella volta, ad essere offesa, fosse la dea della caccia, Artemide. Tanto per cambiare, Agamennone aveva combinato un guaio, uccidendo una cerva sacra. Fortunatamente, alla fine la dea si era impietosita per il tragico destino della fanciulla ed all’ultimo momento l’aveva sostituita con una cerva. Ironia della sorte, anche allora c’era in mezzo pure Achille: ad Ifigenia avevano detto che andava all’altare, non per essere ammazzata, ma per sposare lui.

“Quella fanciulla mi è più cara di mia moglie Clitennestra…” continuò Agamennone.

Guardò i suoi guerrieri. Ma, non trovò occhi solidali con lui. Allora, come in quell’altra occasione, si ricordò che era pur sempre un capo ed il fatto comportava dei doveri, imponeva dei dolori…

Quindi, riprese con voce sorda:

“Ma, se il mio strazio è necessario al bene del mio popolo, sia fatta la tua volontà di gufo iettatore! Lascio libera la ragazza…”

A questo punto, guardò Achille con rabbiosa sfida e concluse:

“A patto che mi si dia un’adeguata ricompensa!”

Com’era prevedibile, Achille saltò su dal seggio.

“Parli come un mercante e non come un Re!” esclamò. “Che ricompensa dovrebbero darti gli achei? Non mi pare che sia rimasto granché da spartire ed il bottino già diviso non può essere rimesso in discussione… Rimanda indietro la fanciulla e vorrà dire che riceverai per tre, o per quattro, il giorno in cui Zeus ci concederà di saccheggiare Troia.”

“Le promesse non sono un gran guadagno” disse Agamennone, con voce determinata. “Ed io non sono il tipo che ci conta troppo. Tu hai detto belle parole; ma, le tue parole a che portano? Che a te resta la tua parte di bottino ed a me non resta nulla.”

Ebbe un sorriso che avrebbe reso inquieta una montagna e riprese a parlare:

“Facciamo così, invece: datemi un’altra femmina che compensi la perdita a cui mi costringete…”

Poi, tornatogli l’espressione furiosa, urlò:

“E, se non me la date, me la prendo lo stesso! La rapirò ad Aiace, o ad Odisseo, o proprio a te!”

Si ricompose e, senza dar tempo a nessuno di manifestare la propria reazione, finì il suo discorso:

“Ma, forse è meglio che, di questo, parliamo dopo. Per ora, pensiamo subito a caricare su una nave i cento animali e la figlia del vecchio e mandarli a Crisa, per placare l’arrabbiato Febo. Capo della spedizione sia uno dei nostri uomini migliori: o Aiace, o Idomenèo, o Odisseo, o tu stesso, Achille.”

Forse, con queste ultime, riconcilianti parole sperava di uscire dalla penosa situazione di scontro in cui s’era cacciato. Già il dover restituire Criseide al padre era una doppia perdita: per il suo piacere e per la sua autorità di capo. Ma, purtroppo, quel giorno le cose non erano destinate a finir lì.

Infatti, già le occhiate di Achille sarebbero state sufficienti ad uccidere uno meno coriaceo del re di Micene. In più, quello lì non era tipo da fermarsi alle occhiate. Le parole non tardarono ad arrivare e promettevano di essere seguite dalla spada:

“Anima avara e senza vergogna! E chi sarà il vile che continuerà ad obbedire agli ordini di un tipo come te? A me i troiani non hanno fatto nulla. Essi non hanno toccato le mie mandrie, non si sono presi il mio cavallo, non hanno saccheggiato la mia patria… C’è troppo mare tra Ftia e Troia per esserci pure la guerra. Se sono qui è per difendere l’onore di tuo fratello… eppure, nei saccheggi sei sempre tu il primo a pretendere la parte ed io l’ultimo… e, per ringraziamento, sai offrirmi soltanto minacce.”

A questo punto fermò gli occhi proprio sugli occhi di Agamennone, prima di annunciare:

“Perciò, penso ch’è meglio lasciar perdere e tornarmene a casa. Preferisco coltivare i campi, anzicché star qui, a farmi insultare da te!”

“Vattene pure, scappa!” sbottò Agamennone. “A combattere con me restano Zeus in persona ed un gruppo di eroi che non ti faranno

rimpiangere. Non sarò certamente io a pregarti di restare. Di tutti i re di questo mondo, tu sei quello che disprezzo di più. Hai come unico piacere il sangue che sporca la tua spada! La forza che un dio ti ha regalato tu la usi soltanto per sfogare istinti di belva! Tornatene, perciò, coi tuoi mirmidoni a coltivare i campi! Io nemmeno mi ricorderò di te!”

Poggiò, quindi, la mano sull’elsa della spada e per la seconda volta in quel giorno si pose di fronte ad Achille, scandendo:

“Anzi, prima che tu parta… Verrò personalmente alla tua tenda a prendermi la tua schiava Briseide.”

Fece, poi, una smorfia che voleva essere un sorriso sarcastico e feroce:

“Io perdo la mia cara Criseide; ma tu, almeno, mi sarai compagno in una perdita!”

Ed, infine, volse lo sguardo a tutti gli altri guerrieri, ergendosi in tutta la sua regale altezza:

“Questo perché sia chiaro che non conviene a nessuno mettere in discussione l’autorità di un capo… Se tua alleata è una forza senza controllo, sarà da essa che verrà la rovina, prima che dal nemico!”

Il primo istinto di Achille fu di tirar fuori la spada, per riporla nella pancia di Agamennone. Il secondo fu quello di controllarsi, per poi operare a mente fredda. E’ questo l’eterno conflitto tra sentimenti e ragione. Su di esso, non a caso, sono stati costruiti tanti i trattati di politica. Omero, invece, la spiegò così: egli mise subito mano alla spada; ma, venne Atena dalle luci azzurre, dea della ragione, e lo trattenne, prendendolo per la rossiccia chioma (fra l’altro, mandata da Era, regina degli Dei molto di parte e protettrice di ambedue i contendenti). Ad Achille (come a Garibaldi, qualche secolo dopo) non restò che obbedire, perché:

“…Ai numi è caro

chi de’ numi al voler piega la fronte” (Canto I, vv. 289/290, p. 141).

L’immagine risulta di straordinaria efficacia poetica. Ma, disgraziatamente, la spiegazione omerica ha avuto la controindicazione di

dar la stura a reiterati accostamenti tra carattere guerriero e razza nordica, visto il colore biondo di quei capelli e il colore azzurro di quegli occhi divini.

In compenso, il nostro eroe non risparmiò sulle parole, né dal punto di vista qualitativo, né da quello quantitativo:

“Delirante ubriacone! Cane negli occhi e cervo nel cuore! Non ti ho mai visto combattere nella mischia, bravo come sei soltanto a salvare la pelle! Tu non puoi comandare se non gente vile e spregevole! Un popolo degno di questo nome ti avrebbe già ucciso! Perciò, io ti giuro: tu rimpiangerai Achille! Tu e gli achei lo invocherete inutilmente, quando resterete indifesi, in balia della spada di Ettore! Allora ti pentirai dell’offesa fatta al guerriero più forte che avevi!”

Ciò detto, con disprezzo gettò il suo scettro a terra e sedette.

Agamennone stava per riprendere la parola con rinnovato furore, quando Nestore, re di Pilo, si alzò prontamente. Questi era famoso per l’eloquenza. E di certo le sue capacità diplomatiche, data l’età avanzata, erano le maggiori che vi potessero essere in quegli accampamenti.

“Eterni Dei!” esclamò. “Quanti lutti per gli achei e quanta gioia per i troiani verrà da questa lite di eroi! Ascoltatemi, vi prego, rispettate la mia vecchiaia… Ho avuta la fortuna di combattere al fianco di valorosi, anche più di voi. Mi hanno stimato uomini che si chiamavano Driante, Piritòo, Cèneo, Essadio, Polifemo… e Teseo, che più che un uomo sembrava un Dio! Insieme abbiamo dominato i mari ed abbiamo fatto stragi di nemici, compresi i leggendari centauri! Tutti ascoltavano i miei consigli, quei consigli che erano il miglior contributo nelle battaglie, al di là delle deboli forze fisiche. Dunque, per il bene comune, potete pure ascoltarmi voi… Tu, Agamennone, sii degno del gran cuore di Atreo, tuo padre. Non disgustare Achille, togliendogli la schiava… E tu, Achille, non usare con un re parole buone per la plebaglia vile. Quando si vuole essere forti, si deve pretendere rispetto ed obbedienza alle istituzioni della Patria. Ed Agamennone, che è stato scelto come capo, è la prima delle nostre istituzioni… Non può stare, quindi, alla pari con gli altri… Achille, anche se sei figlio di una Dea e lo vinci per forza, devi accettare la maggiore potenza della sua Micene… E degno di tanta potenza devi mostrarti anche tu, Agamennone… Lascia stare l’ira ed anche Achille si calmerà… Perché perdere il nostro più valoroso braccio?”

“Dici bene, vecchio” rispose Agamennone, con tono rispettoso. “Costui pretende che la sua forza possa comandare anche sulla legge. Io non posso permetterlo. Me lo impedisce il mio dovere di Re.”

“Ed io sarei un vile” ribattè Achille, “se stessi pronto e ligio ai tuoi ordini. Puoi comandare sugli altri; non su di me. Io resto sciolto dal dovere di obbedirti. So dirti soltanto questo: né per te né per altri io combatterò, dopo l’ingiuria che ho dovuto subire. Prenditi la schiava e non pretendere altro da me, se non vuoi che ti uccida.”

E se ne andò via, con l’amico Patroclo ed i suoi mirmidoni, sciogliendo di fatto l’assemblea.

Agamennone fece preparare una nave a venti remi, dove caricò l’ecatombe (così veniva chiamato il sacrificio di cento animali) e la bella Criseide. Egli stesso la condusse sulla nave, col cuore agitato e nero come una notte d’inverno.

Alla fine, a capo della spedizione nominò lo scaltro Odisseo. Era il più adatto a trovare le parole giuste, per riavere l’amicizia del sacerdote Crise e di Febo.

Dopo, tutto solo, se ne stette a contemplare la nave che si allontanava all’orizzonte. Senza neppure una parola di dolore, senza

nessuna voglia né di vedere nessuno, né di farsi vedere da qualcuno.

Quando lo scafo scomparve dalla sua vista, tornò al campo ed ordinò che tutti si purificassero, bagnandosi nel mare. Ordinò pure che fosse gettata via ogni sporcizia e che fosse offerto agli dei un ricco sacrificio di capri e di tori.

Probabilmente, fu la lavata generale, più della restituzione di Criseide, a determinare la fine del contagio. E, forse, anche Omero lo

sospettava, se ritenne utile parlarne.

Però, il Re non si dimenticò di Achille. Quindi, chiamò gli araldi Euribate e Taltibio e, alzando il braccio, ad indicare la direzione da seguire, ordinò:

“Andate alla tenda di Achille e fatevi consegnare la schiava Briseide. Se si rifiuta, tornate a riferirmelo, che ci andrò io personalmente.”

I due partirono piuttosto malvolentieri, primo perché non è bello dare un dispiacere ad un compagno d’armi e secondo perché non si sa mai come reagisce la gente come Achille.

Trovarono l’eroe seduto, insieme al suo amico Patroclo, presso una tenda posta davanti alle navi e non si può dire che mostrasse gioia nel vederli. Non c’è meraviglia, perciò, se davanti a lui gli araldi se ne stettero per un bel po’ silenziosi, fermi e a capo chino.

“Non temete” disse infine Achille. “Siete dei messaggieri e non avete colpa nei miei confronti. Zeus stesso garantisce per la vostra incolumità. Qui c’è soltanto un colpevole: Agamennone!”

Si volse poi a Patroclo:

“Consegna a loro la ragazza.”

Patroclo fu pronto ad ubbidire. Entrò nella tenda e tornò con Briseide guance rosate, che consegnò agli inviati del re di Micene. Quando la donna, che mostrava d’esser contraria alla sua nuova destinazione, fu andata via, Achille pianse di rabbia. Egli era più estroverso di Agamennone e, per sua fortuna, aveva i doveri di un guerriero e non quelli di un capo. Dentro di lui gli istinti potevano averla vinta sulla ragione. Per aiutarlo a superare il momentaccio, i suoi lo accompagnarono fin sulla riva del grigio mare, dove rispettosamente lo lasciarono solo. Qui, sedutosi, guardando l’orizzonte, invocò sua madre Tetide.

“Madre mia” chiamò, “quando Zeus mi fece scegliere tra il morire giovane e nella gloria e una lunga vecchiaia senza nome, io non pensavo che aver preferito la vita degli eroi, la sola che ci qualifica come uomini, significasse farmi umiliare in modo tanto atroce!”

Ora, mi si permetta una breve digressione per capire l’invocazione di Achille. Secondo il mito greco, di tutti gli eroi achei venuti a Troia, egli era quello che vantava la maggiore familiarità con il capo dell’Olimpo, Zeus adunator di nembi. E non è che gli mancassero altri agganci importanti. Suo padre era Peleo, i cui genitori erano Eaco, re degli Eginti, ed Endeide, figlia del centauro Chirone (che sarà nonno affettuoso e maestro del nostro Achille). Sua madre era Tetide, una delle nereidi, le ninfe protettrici dei naviganti e dei porti.

Purtroppo, un giorno Peleo ed il fratello Telamòne avevano ucciso il fratellastro Foco, per cui erano stati costretti all’esilio. Peleo aveva poi sposato la figlia di Euritione, re di Ftia, nella Tessaglia. Dopo, durante una battuta di caccia (per disgrazia, egli disse) Peleo aveva ucciso il suocero ed era fuggito presso Acaste, re di Iolco. Pare che la moglie di quest’ultimo, poi, si fosse innamorata di lui e, come può succedere anche oggi, non sentendosi corrisposta, aveva finito per accusarlo al marito.

Irato (e un po’ minchione, come sa essere spesso un marito), Acaste lo aveva abbandonato sul monte Pelio, per farlo sbranare dalle belve. Qui era entrato in gioco Zeus che gli aveva mandato il figlio Efesto a fornirlo di nuove armi.

Così, Peleo aveva potuto uccidere Acaste e la perfida moglie e sposare in seconde nozze Tetide, di cui era invaghito lo stesso Zeus.

“Tu che puoi” implorò dunque Achille alla madre, nel frattempo accorsa (almeno, questo gli diceva l’animo), “chiedi a Zeus che mi venga in aiuto nella vendetta. Te lo deve, se è vero che quando Era, Poseidone ed Atena pensarono di incatenarlo e di rovesciarne il potere, tu chiamasti in suo aiuto il fortissimo Briareo, che solo con la sua possente figura fece spaventare tutti, convincendoli a desistere… Ricordagli tutto questo e, se è il caso, siedigli accanto, abbraccialo… Convincilo a dare una mano ai troiani! Fa’ che la flotta achea venga distrutta! Che se lo godano fino in fondo, il loro capo!”

Lasciamo perdere la disquisizione su un figlio che vuol convincere la madre ad abbracciare un maschio diverso dal padre. Ma, uno che opera per la vittoria dei nemici quasi sempre è stato considerato un traditore. Bisognerà aspettare le guerre ideologiche nell’Italietta del XX° secolo per sentirlo chiamare patriota.

Ma, ovviamente, questa considerazione non sfiorò neppure la testa di Tetide. Ella era soltanto una mamma, ansiosa nei confronti del figlio ed ingiusta nei confronti degli altri, come tutte le mamme mediterranee.

“Non ti ho partorito per vederti tanto triste, figlio mio” gli sussurrò Tetide nel cuore. “Ora potresti restartene tranquillo in questa riva… senza pensare più alla guerra e senza il pericolo di una morte prematura. Invece, vedo che il tempo che ti resta, non soltanto è poco, ma pure pieno di infelicità! Che brutta stella illuminava il mio letto quando sei nato!… Però, che può fare una madre, se non accontentare il figlio? Andrò sull’Olimpo e parlerò a Zeus. Ho saputo che ieri è sceso nelle terre degli etiopi. Dovrebbe tornare fra dodici giorni. Nel frattempo, stattene tranquillo sulle tue navi. Che gli achei sentano la tua mancanza!”

E se ne andò, lasciandolo solo, a piangere per la fanciulla perduta.

Nello stesso momento Odisseo arrivava a Crisa.

Entrato nel porto, ammainava le vele e le collocava dentro lo scafo. Poi, con le gomene metteva giù l’albero e lo poggiava nello spazio tra i castelli di prua e di poppa. Così, si accostava alla riva con la sola forza dei remi. Arrivatovi, gettava l’ancora e fissava alla poppa i cavi di ormeggio. Così, insieme alla ciurma, poté scendere a terra e sbarcare l’ecatombe per Febo.

Per ultima fece scendere Criseide. L’accompagnò davanti all’ara dei sacrifici, dove stava Crise, solennemente in piedi.

“Il re Agamennone” disse, “mi manda a restituirti la figlia e ad offrire un ecatombe al dio, sperando che questo basti a placarne lo sdegno.”

Quindi, consegnò la ragazza nelle mani del padre, che con visibile commozione se la strinse al petto.

Ebbe, perciò, inizio il rito sacrificale. Furono lavate le palme e preso l’orzo destinato ai sacrifici (che, cioè, veniva abbrustolito e mescolato a grani di sale). Poi, Crise alzò la mano, pregando:

“O Dio dall’arco d’argento, tu che proteggi Crisa e la divina Cilla, tu che sei possente signore di Tènedo, ascoltami. Se prima mi hai accontentato, quando ti chiesi di portare la morte nel campo acheo, accontentami anche ora, che ti chiedo di allontanare da quel campo ogni malattia!”

Venne subito sparso l’orzo e fatto alzare il collo alle vittime, per sgozzarle. Dopo averle scuoiate, le loro cosce tagliate vennero avvolte nella loro stessa membrana addominale e coperte con pezzi di carne cruda. Il buon vecchio si mise, quindi, ad arrostirle, di tanto in tanto spruzzandole di vino. I ragazzi gli stavano accanto, tenendo gli spiedi a cinque punte. E, quando le costate furono ben rosolate, assaggiate le viscere, il resto ancora da cuocere venne fatto a pezzi ed infisso negli schiodoni, per arrostirlo.

Ne venne fuori la conclusione di sempre, quando nei paesi mediterranei si trattano affari religiosi: un gran banchetto.

Ci fu cibo per tutti e non mancò il vino. Il giorno passò cantando in allegria. Alla fine, quando venne la notte, i pii partecipanti al sacro rito si lasciarono andare a dormire presso gli ormeggi della nave.

L’indomani ripartirono per il campo acheo, quando:

“…il cielo con le rosee dita

la bella figlia del mattino aperse” (Canto I, vv. 633/634, p. 158).

Fortunatamente, il viaggio fu reso facile dal vento che spirava da poppa, gonfiando le vele. Mentre correvano sopra un mare amico, li accompagnava la danza attorno alla carena dell’acqua vestita d’azzurro e di bianco.

Arrivati, posero in secco la nave sulla spiaggia, mettendovi sotto le travi. Infine, si sparsero per le tende ed i navigli.

Dopodicché, non ci furono gran novità. Achille se ne stette presso le sue navi, senza partecipare alle battaglie; anche se, sotto sotto, la cosa gli pesava. Aveva ragione Agamennone: il sangue gli piaceva troppo.

Al dodicesimo giorno, raccontò Omero, Zeus ed il suo corteo fecero ritorno all’Olimpo; così Tetide potè andar da lui.

Lo colse seduto in trono, fortunatamente solo. Con la sinistra gli abbracciò i ginocchi e con la destra gli accarezzò il mento.

“Sommo Zeus” disse poi, “se mai ti è stata cara ed utile la mia persona, accontentami. Restituisci a mio figlio l’onore che Agamennone gli ha tolto. Quel re prepotente si tiene la sua schiava! Dai più forza, perciò, ai troiani! Fai in modo che gli achei, senza le armi di Achille, sentano vicina la sconfitta e vadano a chiedergli perdono, restituendogli l’onore!”

Zeus ascoltò senza rispondere. Tetide, però, era troppo intelligente e cosciente della forza femminile per scoraggiarsi. Strinse con più forza i ginocchi del Dio e triplicò le carezze.

“Parla” diceva frattanto. “Dimmi sì o no, fammi sapere se fra le Dee io sono la più disprezzata da te…”

“Mia moglie Era!” sospirò Zeus. “Vuoi farmi bisticciare con lei? Non puoi immaginare di quante offese sia capace la sua linguaccia! E non perde mai l’occasione di scagliarsi contro di me! Anche davanti a tutti! Già mi accusa per le mie simpatie troiane… Facciamo così, dunque: ora va’ via di qua. Se ti vede, sospettosa com’è… Dopo troverò il modo di accontentarti.”

Come pegno della sua promessa, Zeus fece il giuramento del dio:

“…i neri

sopraccigli inchinò. Su l’immortale

capo del sire le divine chione

ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo” (Canto I, vv. 700/703, p. 160/161)..

A questo punto, come il lettore avrà già notato, gli unici a pagare – in una vicenda in cui non avevano avuto alcuna colpa – furono i poveri animali sacrificati nell’ecatombe.

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Pubblicato da terrazze Studio Garufi&Garufi

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi ha insegnato Lettere, Storia dell0Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie su Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini e Enrico Guarneri (Litterio).

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