Salvatore Paolo Garufi Tanteri
IV – “Senza un soldo a Parigi e a Londra” e “La strada per Wigam Pier”
Nella pozzanghera del sottoproletariato: “Senza un soldo a Parigi e a Londra” e “La figlia del reverendo”
Orwell ritornò dalla Birmania nel 1927. Era arrivato in Inghilterra per una licenza; ma, una volta giuntovi, l’aria di casa lo fece rimanere.
Era confuso e deluso. Lui stesso scrive che a quell’epoca il fallimento gli sembrava la sola virtù di questo mondo. Troppi anni aveva passato al servizio di una politica da lui ritenuta ingiusta. Per troppo tempo aveva visto l’arroganza degli inglesi, le loro prepotenze sui birmani.
Tutte queste esperienze di vita oltrepassano in Orwell la pura esperienza personale per diventare palpitante materia d’arte.
D’altro canto, scrive Williams:
“The rigid distinction between “documentary” and “imaginative” writing is a product of the nineteenth century, and most widely distribuited in our own time. Its basis is a naïve definition of the “real world”, and then a naïve separation of it from the observation and imagination of men” [1].
Così Orwell, dal 1927 al 1932 fece il suo viaggio agli inferi con sempre più frequenti sortite nei bassifondi inglesi e francesi (nel periodo 1928-29, infatti, abitò a Parigi), fino a confondersi con la gran massa dei barboni, dei lavapiatti e dei ladruncoli di periferia.
In questa sua scelta a prima vista rivoluzionaria, personalmente credo che sia più da vedere una grande fame di dialogo. Orwell, infatti, volle vivere la povertà un po’ per espiare le colpe della sua classe – idea, in fondo, cristiana – e un po’ nel tentativo di scendere nel concreto dei problemi e di trovare una nuova comunità umana.
Delle sue esperienze sottoproletarie Orwell e lasciò traccia in Down and out in Paris and London del 1933 è in A elargyman’s daughter del 1935.
Con la prima delle due opere, il Nostro usò per la prima volta lo pseudonimo di George Orwell. Sembra che lo scrittore offrì al suo editore la possibilità di scegliere per lui fra tre nomi – Kenneth Miles, George Orwell, H. Lewis Hallways – mostrando però la sua preferenza per il secondo. George è uno dei nomi più diffusi in Inghilterra ed Orwell è il nome di un fiume del Suffolk.
L’aver scelto uno pseudonimo tanto artisticamente scialbo ce la dice tutta sulle intenzioni dello scrittore. Egli volle ergersi a portavoce dell’uomo medio dei suoi tempi. I suoi scritti volevano essere testimonianza della diuturna lotta dell’individuo comune alla ricerca di uno spazio di libertà contro l’oppressivo condizionamento sociale.
In questo senso, Down and out in Paris and London è il “reportage” di un’esperienza scapigliata nel tentativo impossibile di una evasione sociale.
Per questo: “In Down and out in Paris and London, for example, Orwell’s experiences in the world of the drunks, beggars, tramps, thieves, and prostitutes who live on the fringes of “civilized” society is seen as a descent into a seething, squalid inferno, a fantasy world where all is ugliness, noise, decay, rot, collapse” [2].
Un antecedente di questa opera può essere individuato in The people of the abyss di Jack London (in Italia potremmo citare “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao, come in Francia sarebbe d’obbligo ricordare “L’Assomoir di émile Zola).
Ma il Nostro non riesce – e forse non tenta nemmeno – a tenersi emotivamente lontano dai personaggi che descrive. Il libro, infatti, non vuole essere “realista” nel senso che al termine poteva dare uno Zola. Orwell non si propone semplicemente di descrivere il mondo dei poveri. Egli, piuttosto, vuol diventare uno di loro, vuole scrivere da povero.
Quindi, su uno sfondo estremamente razionale, connaturale alla natura dello scrittore:
“l’esigenza di espiazione dichiarata da Orwell è di natura moralistica così inerente alla sua personalità che non si presta ad essere analizzata più di quanto abbia fatto egli stesso. Ma ciò non vieta qualche ulteriore riflessione sul tratto del suo carattere che si è spesso definito “masochistico”, e su come tuttavia egli non sia riconducibile ad alcuna formula psicanalitica, ma soltanto all’implacabilità intellettuale che egli esercitava innanzitutto contro se stesso” [3].
L’andamento del libro, almeno nella sezione parigina, è vivace e lo stile è serrato e pieno di sottintesi ironici. L’opera è divertente ma vi è però una insanabile dicotomia tra la sezione parigina e quella londinese.
C’è ancora da dire che qui Orwell inaugura un procedimento che porterà alla massima espressione in 1984: l’alternarsi delle parti narrative con vere e proprie pagine sagistiche.
In A Clergyman’s Daughter, invece, la discesa agli inferi Orwell la attua attraverso la mediazione della protagonista femminile, Dorothy Hare. Qui lo scrittore è lungi dall’avere raggiunto la disinvoltura nel maneggiare il materiale della sua opera. In lui ancora il rapporto tra letteratura documentaristica e letteratura immaginativa non era stato risolto nemmeno su un piano pratico (dato che su quello teorico egli non lo risolvette mai).
Nel romanzo vi è una sostanziale dualità, un essere, da parte dell’autore, dentro la protagonista per ciò che concerne la problematica interiore e fuori quando affronta la questione sociale, cosa che ci fa considerare l’opera fallita. Per noi il suo interesse consiste solo nel considerare come un momento di apprendistato di uno scrittore che deve ancora venire.
La trama appare piuttosto macchinosa. La protagonista è la pia, candida e zitella figlia di un reverendo. Il padre è taccagno, arido e frustrato. Alla mancanza di calore del suo ambiente, ella reagisce dedicando sia accanitamente ai suoi doveri parrocchiali. Ma sotto la fede religiosa in lei covano dubbi e turbamenti.
Una sera la ragazza subisce il tentativo di seduzione da parte di un tipo sensibile solo ai piaceri materiali e per questo ha una improvvisa perdita di memoria. Da qui incomincia la sua avventura tra i vagabondi, finché le tante peripezie non la fanno ritornare alla vecchia vita, ormai indifferente ai problemi della fede.
Dei libri del Nostro, comunque, questo è il meno riuscito e lo stesso Orwell, in seguito cercò di recuperarne tutte le copie per distruggerlo.
V
Il sistema liberista inglese, ovvero il totalitarismo contemporaneo: “La strada per Wigan Pier”
Dopo le sue esperienze sottoproletarie – tanto dure che nel febbraio del ’29 era stato ricoverato all’Hôpital Cochin come paziente non pagante – Orwell, tra il ‘32 e il ‘36, insegnò a più riprese in alcune scuole private e lavorò come commesso in una libreria.
In questo periodo si espresse soprattutto a livello narrativo.
Nel 1936, per conto dell’editore Victor Collacz e del Left Book Club (di carattere comunista), il Nostro svolse una indagine nell’Inghilterra settentrionale, nelle zone più colpite dalla depressione economica. La sua attenzione, quindi, si spostò dal sottoproletariato al proletariato.
Anche questa volta Orwell non si limitò ad avvicinarsi alla materia del suo libro con lo spirito di chi vuole semplicemente fare un “reportage”. Egli si tuffò letteralmente nell’ambiente dei minatori. Volle abitare nelle loro case e scendere insieme a loro nelle miniere di carbone. Condivise disagi e ansie dei disoccupati. Per i suoi spostamenti, anche sotto le intemperie, volle sempre andare a piedi. Arrivò persino ad ambire ad ammalarsi ed a vivere la malattia nella casa di un minatore, come uno di loro.
Il volume che venne fuori da questa esperienza, The Road to Wigan Pier, apparve nel 1937, ma Orwell non ne vide la pubblicazione, perché a quell’epoca già da alcuni mesi si trovava in Spagna.
Nel libro colpisce il fatto che gli avvenimenti, gli ambienti, i personaggi scelti da Orwell appaiono immersi in una miseria ossessiva e sorda. Tutto in essi, più che il risultato di obiettiva registrazione, sembra il frutto di bisogno di espiazione. Nessuna gioia schiarisce mai il loro volto, nessun sorriso li sfiora. Più che esseri viventi, essi appaiono i fantasmi della coscienza inquieta e tormentata di Orwell.
L’opera, quindi, va giudicata più col metro della letteratura che con quello della sociologia. Non a caso essa appare divisa in due parti. Nella prima sono descritte le condizioni di vita dei minatori – evidentemente visti come simbolo universale della classe operaia inglese -. Nella seconda Orwell svolge una interessante analisi della sua classe sociale e dei rapporti che intercorrono tra essa e quella proletaria.
Questa ultima parte suscitò un vespaio di polemiche negli ambienti della sinistra ufficiale. Infatti in essa egli fece una dura requisitoria contro il carattere snobistico che spesso contraddistingue gli atteggiamenti della Sinistra cicisbea e banale.
Il libro, quindi, era destinato a lasciare il segno. L’editore Victor Gollancz non si aspettava un’opera tanto polemica e anticonformista. E, se pure decise di pubblicare lo stesso il libro, vi premise un suo scritto in cui si dissociava nettamente dalle idee espresse dello scrittore.
L’aspetto morale unisce le due parti del libro, parti che ad una lettura superficiale appaiono assolutamente slegate.
A questo proposito colpisce l’ammirazione che Orwell mostra per i minatori. Egli più volte definisce “belli” i loro corpi e ciò ci riporta a Burmese-Days dove anche i birmani sono definiti “belli” pure quando sono ingrassati.
Così il corpo dei minatori e dei birmani è quasi la metafora della bellezza interiore degli oppressi contrapposta alla volgare bruttezza degli oppressori.
Alla descrizione della vigoria sana del proletariato si accompagna la spietata analisi della decadenza morale e fisica delle dominanti classi liberiste.
In questo senso The Road to Wigan Pier anticipa le tensioni che daranno vita a 1984. In essa vi è la denuncia senza ipocrisia di una tragedia storica che ha caratterizzato il nostro secolo e che ancora appare lungi dall’essere stata superata. Mi riferisco allo squallore di una realtà d’oppressione che spesso si cela sotto i luccichii delle parole più rivoluzionarie.
Se 1984 è il mostrarci da parte dell’autore come il potere possa diventare tanto assoluto, soffocante e totalizzante, The Road to Wigan Pier può significare l’analisi delle premesse che portano a tale tipo di potere. Qui sta la mirabile coerenza dell’impegno morale letterario di Orwell, la sua indiscutibile continuità, il suo angosciante gridare nel deserto.
[1] Raymond Williams, “Observation and imagination in Orwell” in George Orwell: “A collection of critical essays”, Clewood, Prentice Hall, 1974, pag. 52.Trad. “La rigida distinzione tra scritto “documentario” e “scritto” immaginativo è un prodotto del diciannovesimo secolo, e più grandemente distribuito nel nostro tempo. Essa si basa su una ingenua definizione del “mondo reale”, e poi su una ingenua separazione di esso dalla osservazione dall’immaginazione degli uomini”.
[2] Stephen Jay Greenblatt, op.cit., pag. 58. Trad.: In Down out in Paris and a London, per esempio le esperienze di Orwell nel mondo degli ubriaconi, dei mendicanti dei vagabondi, dei ladri e delle prostitute che vivono ai margini della società civilizzata sono viste come una discesa dentro un ribollente squallido inferno un mondo fantastico dove tutto è bruttezza, rumore, marciume, rovina”.
[3] Elena Croce, “‘Introduzione”, in George Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra, Milano, Mondadori, 1981, pag. 6.