Salvatore Paolo Garufi, Un Padre (Da “I Figli del Simeto, tra l’Etna ed il Mare Jonio”)

Salvatore Paolo Garufi, Un Padre (Da “I Figli del Simeto, tra l’Etna ed il Mare Jonio”)

Salvatore Paolo Garufi Tanteri

Un Padre

Cimitero di Militello Val Catania, Ossario comune

Di suo padre non ricordava neppure una parola che gli fosse stata di particolare insegnamento. I Calatabiano erano persone da poco, tranne che nei nomi. Quello del padre, per esempio, era Demetrio e lui si chiamava Pierraimondo, scritto unito, come se fosse un solo nome.

Erano, però, piuttosto conosciuti per la propensione al vizio: alcol e donnine avevano sempre avuto facile accesso ai forzieri di casa. Demetrio ci spese almeno il settanta per cento dei suoi guadagni. Il restante trenta per cento era quanto Rosa Boria, la madre (discendente della famosa Rosa A bedda a funtana), riusciva a rubargli… e doveva servire per mantenere una famiglia di tre persone.

Tornando a Demetrio, il giorno che lo videro nel chiuso di una bara, tutti sperarono che finalmente i tormenti della carne potessero consumarlo in santa pace. Quando nelle vene il gelo caccia via le passioni, c’è il vantaggio che non senti le scenate di tua moglie.

D’altra parte, Pierraimondo non giudicava mai nessuno. Egli stesso aveva avuto troppe debolezze fin dall’infanzia. Eppoi, proprio nel giorno del funerale del padre, non gli andava di essere obiettivo.

Ricordò, invece, un episodio lontano, forse del paleolitico familiare, quando aveva appena dieci anni.

Quell’anno il vento dell’autunno arrivò all’alba dell’ultimo giorno di ottobre e trasformò subito il paesaggio. Le foglie si accartocciarono sui rami e, una dopo l’altra, caddero con un ultimo tremito.

Appena toccavano terra, il vento ci giocava come il gatto col topo: le ammassava, le scompigliava, le sbatteva contro muri indifferenti…

Nel pomeriggio arrivò pure la pioggia. Nell’aria si levò un pungente odore di ozono e i giardini pubblici di quella magica Firenze degli Iblei ch’era la sua città presero le melanconie del post-impressionismo, perché la luce si trasformò in una tramatura puntiforme ed i colori si stemperarono. Anche gli sterpi in mezzo alle aiuole dei giardini pubblici presero venature di sangue, mentre già se li inghiottiva la terra gonfia d’acqua.

Pierraimondo se ne stava imbronciato, a guardare le panchine vuote e il monumento al Milite Ignoto, solenne e accantonato, a fare un’inutile guardia.

Era seduto sotto il portone delle scuole elementari di fronte, mal riparato dall’acqua che crosciava violenta, coi pugni stretti che affondavano nelle guance pienotte ed i gomiti sulle ginocchia.

A quel tempo aveva sempre i capelli irti ed arruffati e le gambe imbiancate dalla polvere, che uscivano come stecche dai calzoncini lunghi fino ai ginocchi (quelli che allora chiamavano all’inglese).

Il suo cuore era gonfio di delusione, proprio mentre (o, proprio perché…) gli altri bambini aspettavano con gioia i regali dei morti.

Era lì da diversi minuti quando si fermò un’automobile. Probabilmente veniva dall’ospedale, duecento metri più sotto.

“Vieni, che ti porto a casa” gli gridò il conducente, dopo avere abbassato il finestrino.

Lo guardò e poi scosse la testa. Non conosceva quell’uomo e non aveva voglia di tornare a casa, a vedere sua madre lamentarsi del marito.

“Così ti bagni!” disse ancora l’uomo.

“Non mi bagno” rispose. “Sono riparato dalla tettoia.”

“Contento tu!” fece l’uomo e scrollò le spalle.

Rialzò il finestrino e accelerò a folle, prima di ingranare la marcia e ripartire.

Pierraimondo lo vide procedere lentamente, quasi a fatica, sotto la pioggia, che rinforzava e si trasformava in grandinata.

Non mancava molto alla festa dei morti e quindi sperava che l’indomani avrebbe rivisto il sole. Non pioveva mai il primo ed il due novembre… come diceva sempre suo padre.

“La pioggia” diceva Demetrio, “non può disturbare i morti, che nella notte tra il primo ed il due novembre escono dalle tombe e vanno in processione per le vie del paese.”

Una volta il genitore gli raccontò un antico fatto.

“Non la pensano come noi, i morti” gli disse. “Se ne fregano della bellezza, del denaro e del potere! A loro interessa soltanto far contenti i nipoti. Ce ne fu uno, poverissimo, che, non avendo nulla da dare, regalò al nipote le braccia… e rimase senza braccia per l’eternità. Ecco perché c’è l’usanza in questi giorni di offrire ai vicini dei pani a forma di braccia incrociate.”

Purtroppo, quell’anno (ed era qui il motivo della sua malinconia) pareva che suo nonno Ermenegildo, morto da due anni, non avesse alcuna intenzione di venire a portargli la bicicletta che gli aveva chiesto.

Demetrio, tanto per cambiare, attraversava un brutto momento. S’era ridotto ai piccoli commerci, che gli occupavano l’intera giornata in cambio di che mangiare appena.

In casa c’erano sempre discussioni.

Il ragazzo, quindi, affondava la sua malinconia nella sfuriata della grandine. Ma, per l’invincibile ottimismo dell’età, sotto sotto, sperava di avere il suo regalo.

Perciò si disse:

“Ora comincio a contare e se smette di piovere prima che arrivi a cento vuol dire che domani notte nonno Ermenegildo viene a portarmi la bicicletta.”

Segno del cielo o pura coincidenza (in Sicilia, d’altra parte, non è un fatto raro), l’intensità della grandinata scemò quasi subito, quando era appena a trentaquattro, seppur contando lentissimamente.

A sessanta il sole, dopo aver indorato i bordi delle nuvole, uscì allo scoperto, di nuovo padrone del mondo.

L’indomani, per altri mille segni scaramantici di sua invenzione, Pierraimondo continuava ad essere speranzoso. Perciò, si vestì in fretta e decise di andare al cimitero, a far visita al nonno.

La giornata era splendida, quasi non fosse mai piovuto. Il maglione dava persino fastidio, per cui se l’appoggiò sportivamente a sciarpa sulle spalle, con le maniche che gli ciondolavano sul petto.

Al cimitero c’era l’animazione delle feste. Grappoli di famiglie coi fiori in mano andavano fra le tombe. Si sentivano i pianti per le morti più recenti e vide una bella ragazzina forestiera occhieggiata da cinque o sei bulli.

Il padre della ragazzina, un uomo ben vestito, andava leggendo le lapidi e raccontava vecchi aneddoti per ogni viso e per ogni nome.

“Spero che stanotte tu venga” disse Pierraimondo, guardando la fotografia di Ermenegildo, posta su una piccola lastra tombale di pietra calcarea, dove gli occhi sbiaditi e spaesati contrastavano coi fieri baffoni al vento.

Uscito dal cimitero, Pierraipmondo incontrò alcuni coetanei che si rincorrevano in bicicletta e interpretò la cosa come un messaggio positivo dall’aldilà.

Ovviamente, quella sera si coricò presto, sforzandosi di addormentarsi in fretta. Sapeva che i morti non devono essere visti dai bambini ai quali portano i regali.

Così, per non correre il rischio di impedirne la visita, si addormentò subito.

Al risveglio, purtroppo, trovò soltanto la sua delusione. Andò in cucina, sperando che l’ormai improbabile regalo fosse lì. Vide soltanto suo padre, grande e grosso com’era, abbarbicato e concentrato sulla tazza di latte della prima colazione.

Sua madre andava ciabattando di qua e di là, ingrugnata più del solito.

“Perché non provi a studiare?” lo rimproverò Demetrio, tanto per colpevolizzarlo. “Sono tre giorni che non tocchi un libro.”

“Oggi pomeriggio studio” rispose.

Aveva orgoglio e, seppure con grande sforzo, non fece spuntare alcuna lacrima.

Dopo un po’, Demetrio allontanò bruscamente la sedia dal tavolo e si alzò. Tirò fuori dallo sgabuzzino il ferro da stiro rotto (che avrebbe dovuto riparare da almeno tre giorni) e, tornato in cucina, cominciò ad armeggiare col cacciavite.

“E che bicicletta volevi dal nonno?” gli chiese senza distrarsi, come chi vuol parlare tanto per parlare.

“Quella da corsa…” rispose Pierraimondo. “Col cambio ed in lega leggera.”

“Acc…!” fece suo padre, poiché gli era scapolata una vite. “Costa un bel po’! Magari nonno Ermenegildo non aveva i soldi. Non ti pare?”

“Che ci stanno a fare i morti, se hanno i problemi dei vivi?” pensò Pierraimondo.

Ma, a suo padre non disse nulla.

Volle tornare a visitare il cimitero per un ultimo tentativo. Per strada, però, fu duro vedere gli altri ragazzi sfoggiare i giocattoli nuovi.

“Che t’ha portato tuo nonno?” gli chiese un pel di carota lentigginoso e basso, puntandogli contro una fiammante pistola ad aria compressa.

“Una bicicletta” rispose. “Ora l’ho lasciata a casa perché vado al cimitero per ringraziarlo.”

Per tutta risposta, l’amico sparò. Il gommino gli sibilò vicino e istintivamente egli portò le braccia davanti al viso.

“Attento!” disse. “Potevi accecarmi!”

L’amico sghignazzò.

“Fammi tirare un colpo…” disse ancora Pierraimondo.

“No” disse l’amico e si allontanò correndo, perché aveva visto un altro da spaventare con la sua pistola.

Al cimitero non fece alcun rimprovero a nonno Ermenegildo. In Sicilia, si sa, se c’è un rispetto è quello per i morti. Ebbe soltanto qualche lacrima e questa fu l’unica volta in cui fu lodata la sua sensibilità.

“Guarda come piange!” sentì dire, infatti, da una signora di mezza età. “Eppure sono già due anni che suo nonno non c’è più!”

Ritornò a casa tardi, quasi alle quattro del pomeriggio. Aveva girovagato, prima in paese e poi nelle vicine campagne di San Vito e di Oscina.

Da lontano vide suo padre davanti alla porta. Temette che lo volesse punire per il ritardo e fu tentato di scappare. Non lo fece perché notò che sorrideva.

“Vieni in garage” disse Demetrio.

Lì, appoggiata al muro, c’era una vecchia e pesante bicicletta, una ferraglia da pochi soldi. Era stata, però, riverniciata di un verde squillante e volgare, che a Pierraimondo piacque.

E funzionava perfettamente.

Per tutta la mattinata Demetrio aveva fatto il padre e ci aveva lavorato, dopo averla recuperata da qualche parte.

“E’ tutto quello che il nonno ha potuto portarti” disse. “Credimi, era davvero senza soldi! Magari l’anno prossimo… Chissà!”

“Coraggio, fatti un giro” aggiunse dopo un po’, prendendo il figlio per le ascelle e mettendolo sopra la bicicletta.

Allora Pierraimondo cominciò a pedalare, prima piano e poi con ritmo sempre più veloce e sicuro.

Dopo un breve giro tornò da suo padre.

“Sei contento?” gli gridò Demetrio.

“Sì!” gridò Pierraimondo a sua volta.

E andò via.

Si fece tardi prima che il ragazzo si ricordasse che dovevo ancora ringraziarlo, quel nonno che aveva tanto invocato. Non era, però, il caso di tornare al cimitero. Il buio avanzava e il sole ormai dava l’idea di chi voglia soltanto darsi un ultimo, pigro sguardo intorno. Alcune pennellate di fuoco si stagliavano basse contro il turchino del cielo, ma dal nord s’estendeva a vista d’occhio la nuvolaglia scura della pioggia.

“Vuoi vedere che fra poco diluvia?” si disse Pierraimondo, quasi sollevato, poiché, in fondo, cercava una scusa per mettere definitivamente da parte quel vecchio arnese a due ruote.

La pistola del suo amico Pel di carota – ne era sicuro – sarebbe stata un regalo molto più divertente.

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Pubblicato da terrazze Studio Garufi&Garufi

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi ha insegnato Lettere, Storia dell0Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie su Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini e Enrico Guarneri (Litterio).

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