S. P. Garufi Tanteri, il pensiero liberale di Vincenzo Natale e le riforme contro il baronaggio (ieri) e contro il notabilato politico, burocratico e giudiziario (oggi).

S. P. Garufi Tanteri, il pensiero liberale di Vincenzo Natale e le riforme contro il baronaggio (ieri) e contro il notabilato politico, burocratico e giudiziario (oggi).

Salvatore Paolo Garufi Tanteri

La rivoluzione dell’Autonomia per abolire i privilegi del baronaggio (oggi quelli di un notabilato politico che si sta mangiando l’Italia). L’esempio del Parlamento carbonaro di Napoli – gli interventi in aula di Vincenzo Natale.

Racconto tratto dal libro “Le logge della notte”

I

Le elezioni generali del Parlamento carbonaro di Napoli vennero celebrate secondo la Costituzione spagnola. Poi. il 22 settembre 1820, si riunì la giunta preparatoria del Parlamento delle Due Sicilie.

Due giorni prima, il Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie aveva comunicato:

Giungono in questo momento due basimenti di Messina, partiti da quella città il dì 17 del corrente. Con uno di essi sono arrivati i signori D. Francesco Strano di Catania, D. Paolino Riolo di Centorbi, D. Vincenzo Natale di Militello, Deputati del Valle di Catania al Parlamento Nazionale.”

L’1 ottobre ebbe luogo la seduta inaugurale. Presidente del Parlamento fu eletto Matteo Galdi, che nel discorso di insediamento, alla presenza di Ferdinando e di Francesco, suo vicario, affermò:

“La fraterna ed intima amicizia che ci unisce all’isola di Sicilia, la quale pur forma, mercé la nuova Costituzione, un solo Stato con noi, e ci unisce con più stretti vincoli ancora, si è accresciuta dall’arrivo dei suoi deputati che già siedono in Parlamento e ci aiutano nei nostri travagli coi loro lumi e con la loro esperienza; speriamo che giungeranno presto anche quelli dei paesi che furono agitati da passeggiero spirito di vertigine, e che di questa si estingua finanche la più lontana rimembranza.”

Quella sera, un compiaciuto Vincenzo annotava sul suo diario:

“Fin dalla prima riunione della giunta sono stato nominato segretario.”

L’attività parlamentare di Vincenzo, pur nel rigore di un concetto unitario del Regno, mirò a dare maggiore autonomia amministrativa alla Sicilia, creando nuovi organi istituzionali. Fu la parte non caduca della sua opera politica, quanto mai attuale ancor oggi, a distanza di duecento anni.

In quest’ottica, per esempio, presentò una mozione, affinché si elegesse un Consigliere di Stato in ciascun Valle dell’isola.

Guidato da tale idea di fondo, quindi, partecipò alla discussione sulle modifiche da apportare alla costituzione, sostenendo che per esse bastava il voto favorevole della metà più uno dei deputati e non la maggioranza di due terzi, come altri volevano.

In un importante intervento, poi, seppe chiarire quanto per lui fosse prioritaria la lotta al baronaggio, del quale il separatismo palermitano era il frutto avvelenato:

“Quale sarebbe la causa di tanta miseria, di tanta desolazione, se non è in massima parte questo mostro della feudalità? I baroni di Sicilia hanno formato fra di loro dai più remoti tempi una lega infernale. Essi, nuotando sempre nelle dovizie e nel lusso, si sono resi immuni dai pesi pubblici. I proprietari, che sono essi, non pagarono mai alcun dazio; tutte le imposte sono sempre ivi gravitate sopra generi di consumazione, sopra la bocca del povero. I baroni di Sicilia rassomigliano perfettamente ai di lei antichi tiranni, dei quali non vi erano sulla terra tiranni più atroci, più sospettosi, più intraprendenti e sottili, come porta l’acume nazionale, a trovare dei ripieghi a loro favore.”

La forza di quel messaggio era che andava ben oltre i problemi del momento. Oggi, infatti, identiche parole potrebbero applicarsi al notabilato politico, giudiziario e burocratico di questa povera e devastata Italia del 2024.

Su questa premessa, perciò, Vincenzo sviluppò un coerente ed alternativo programma di interventi economici, basato sull’abolizione delle dogane interne. Così, si liberavano i commerci, i traffici marini e le esportazioni.

Sarebbe nata da ciò una creatura che disgraziatamente non riuscì a nascere (e che attende ancora di nascere): una moderna borghesia meridionale, cosa molto più necessaria dell’indipendenza.

Ormai, le sue, come si vede, erano idee esattamente opposte a quelle dei suoi ex amici, il cosiddetto gruppo dei cronici.

Infatti, sempre in parlamento, egli ne demolì i furori propagandistici con la forza dei ragionamenti:

“Sia libera ed esente dei diritti nei porti del Regno l’importazione e l’esportazione di qualunque genere, produzioni, manifatture provegnenti dall’una e dall’altra Sicilia di qua e di là del Faro. Che tale facoltà si eserciti con le necessarie cautele disposte dalle leggi in vigore, per evitarsene l’abuso.”

Un altro cruciale campo di intervento riguardava il perenne conflitto tra contadini e baroni – o, se preferite, tra contadini e latifondisti (a Militello in Val di Catania, per esempio, c’erano i vaddunari – contadini e piccoli artigiani – e i pascimari – allevatori, latifondisti e loro dipendenti -).

Il punto dolente era rappresentato dagli effetti che si avevano dalla quotizzazione e dall’assegnazione delle terre ecclesiastiche e demaniali ai privati, dal momento che con quella privatizzazione c’era stata pure la:

“…perdita degli “usi civici”, i quali, per quanto ridotti da numerose usurpazioni di nobili e borghesi, ancora nel Settecento valevano ad attenuare la miseria delle popolazioni rurali

Le proposte di Vincenzo, pur avendo ben presente la necessità di superare lo sfruttamento promiscuo delle terre (tipico degli usi civici), necessariamente disordinato e poco redditizio, erano per realizzare quote sufficientemente grandi, che avessero le caratteristiche della moderna azienda agricola privata, con tutti gli annessi diritti: poter trasmettere in eredità, poter affittare e, magari dopo un certo numero di anni, poter vendere.

“Sono sicuro che passeranno” concluse ottimisticamente, parlandone, poi, con amici. “Così, i massari diventeranno moderni galantuomini e, finalmente, si uscirà dal medioevo.”

Purtroppo, i contrasti tra Palermo e Napoli non erano finiti con l’accordo tra Florestano Pepe ed il principe di Villafranca. Lo si scoprì, quando a novembre i termini di quella specie di armistizio arrivarono in parlamento.

“Si vuol spezzare l’unità del Regno delle Due Sicilie” insorse il deputato Gabriele Pepe.

“E’ vero!” confermò il deputato Matteo Imbriani.

Molti deputati volsero lo sguardo su Vincenzo Natale, che aveva già chiesto ed ottenuto di parlare. La sua dote più apprezzata era il tono di voce sempre pacato, cosa che rendeva piacevole ascoltarlo. Fra l’altro, era noto il cordiale incontro che in Sicilia c’era stato tra lui e Florestano Pepe. Quindi, ci si aspettava un invito alla moderazione.

Ma, ci fu una sorpresa:

“Dico subito” esordì Vincenzo, “che nego la corona civica, sia alla città di Palermo, sia al generale Florestano Pepe. Con la nostra capitolazione (tale la definisco io) a Palermo, come ha già detto il deputato Gabriele Pepe, è stata spezzata l’unità del Regno ed infranta la sua Costituzione.

“Propongo, in aggiunta, che si nomini una commissione d’inchiesta che indaghi su quei fatti.

“Ribadisco, una volta per sempre, che la Sicilia al di là del Faro è parte della Nazione, e parte non piccola, non ultima, non ignobile. Lo Statuto di tutto il Regno, quello soltanto deve garantire i diritti individuali del cittadino e quelli di tutti gli abitanti della mia isola!”

Vincenzo tirò fuori il fazzoletto, per asciugarsi un fastidioso sudorino al collo. Guardò i colleghi. C’era un silenzio che si tagliava a fette.

“Come può esserci, dunque, un proclama col quale militarmente si fa la requisizione di 300.000 ducati sopra la città di Palermo, fra un brevissimo corso di giorni? Chi in forza della Costituzione ha il diritto d’imporre contribuzioni o chiedere prestiti? Lo ha forse il potere esecutivo? No. Questo è un sacro diritto soltanto della rappresentanza nazionale!”

Fece un’altra pausa, per osservare la reazione dei colleghi. In quel momento pensò che la carboneria passava dalla congiura al governo.

“Quanto poi possa essere giusta la distribuzione, voi lo ravvisate dallo stesso proclama. Tutte le botteghe, tutte le entrate delle case sono gravate smisuratamente; e forse in quella tale casa una famiglia si ricovera, che manca del pane, e che non può covrire la sua nudità per le rapine sofferte. Con tutto ciò, se non paga prontamente, è condannata a pagare due volte!”

Si asciugò di nuovo il collo. Ormai, egli dominava l’assemblea. Vide Gabriele Pepe, che gli sorrideva con amicizia. Vide tutti gli altri pendere dalle sue labbra.

“Io non intendo graziare i rivoltosi di Palermo dall’obbligo delle spese di una guerra provocata. Ma, un tale esame deve conoscerlo il Parlamento, e le spese devono gravitare su de’ concitatori della insurrezione, su di coloro che la fomentarono, ed a cui giovava; e non mai su quella gran parte de’ cittadini, che animati da giusti sentimenti resisterono alla violenza de’ furibondi, si armarono, e batteronsi sintanto che, per effetto de’ loro sforzi, l’armata poté entrare nella città, ed impadronirsi de’ forti. Si indaghi, invece, su qual è lo stato generale dell’isola, si controlli che vi regni la tranquillità. Si chieda quali ricerche sono state fatte intorno alle cause ed agli autori della rivolta. Si facciano conoscere tutte le azioni di quel periodo in Sicilia, da qualunque funzionario e per qualsiasi titolo siano venute!”

Così, vistosi, così, rifiutare dal parlamento l’accordo fatto con Palermo, il generale Florestano Pepe si dimise, lasciando il comando al principe di Campana, suo luogotenente.

Inoltre, come aveva auspicato Vincenzo Natale, vennero arrestati alcuni carbonari che avevano combattuto nella guerriglia palermitana, fra i quali c’era il siracusano Giuseppe Abela.

“Ne conosco l’animo nobile” commentò, poi, amaramente con una sua amica. “Mai avrei pensato da parte sua a una scelta tanto dissennata!”

“E’ stato sempre al tuo fianco” disse lei. “Sai bene quanto ti è stato amico nei giorni in cui hai vissuto a Siracusa. Aiutalo!”

“Non posso. Perderei ogni credibilità, se lo facessi.”

La donna non ignorava le crudeltà che impone la politica. Quindi, non insistette. Però, per una volta, guardò Vincenzo con occhi non troppo adoranti.

“Alle volte” pensò, “sotto le vesti della fermezza, si cela soltanto l’opportunismo.”

II

Il 7 novembre arrivò in Sicilia, come comandante in capo del corpo di spedizione, il generale Pietro Colletta, il quale, più che per le virtù militari, lasciò poi gran traccia di sé come storico.

“Il primo atto che pretendo da voi” disse senza tanti complimenti ai primari di Palermo, “è che giuriate fedeltà alla Costituzione spagnola.”

Il 19 novembre i rivoltosi dovettero giurare e furono indette le elezioni per il parlamento nazionale a Palermo e provincia. Cominciò, così, una specie di resistenza passiva, dato che i deputati eletti si rifiutarono di andare a Napoli.

Dove, frattanto, continuava l’attività del parlamento. C’era, per esempio, da trattare la questione relativa al nome da dare al Regno.

“Col convertire” sostenne Vincenzo Natale, a nome della maggioranza dei deputati, “l’attuale denominazione di tutto il Regno in quella di Regno dell’Italia Meridionale si confonderebbe il presente linguaggio diplomatico, e susciterebbesi la gelosia delle potenze poco disposte a nostro favore. Le parole non sono né belle né brutte, se non per quanto esprimono le cose, o buone o cattive; ma servono a denotare gli oggetti; e quando ciò comunemente non si ottiene, manca il profitto essenziale del linguaggio. Come mai si vorrebbe pretendere che i nostri contadini, ed altri idioti, che è quanto dire la gran massa della Nazione, riconoscessero i vecchi nomi de’ Bruzii, de’ Lucani, de’ Messapii, e non si meravigliassero più tosto di tali nomi ignoti, non sapendo nemmeno sospettare che potessero appartenere a loro?”

La ribellione palermitana, fra gli altri guai, aveva messo in gravi difficoltà anche i deputati siciliani leali al nuovo ordine carbonaro. Le rivelò un contrasto sul numero della rappresentanza siciliana nell’Assemblea Permanente, il cui compito era detenere il potere legislativo nel periodo tra un’elezione e l’altra del parlamento. Secondo la costituzione spagnola, le province d’oltremare (cioè, la Sicilia) avevano diritto a tre rappresentanti; ma, non mancò chi, come il deputato Matteo Imbriani voleva dargliene soltanto due.

“I siciliani” disse Imbriani, “fino a questo momento non hanno contribuito al nuovo ordine di cose, se non con danni e rovine!”

Si votò, quindi, la modifica della Costituzione.

Quarantadue deputati votarono per portare a due i rappresentanti della Sicilia, venticinque per lasciarli a tre. A quel punto, prese la parola Vincenzo Natale:

“Voi avete modificato la costituzione, senza tener conto che per ogni sua modifica è necessario il voto dei due terzi del parlamento.”

Matteo Imbriani si levò prontamente:

“Il deputato Natale ha una memoria tanto corta da aver già scordato ch’egli stesso, qualche tempo fa, ha sostenuto la necessità di poter apportare le opportune modifiche costituzionali con la semplice maggioranza assoluta e non col voto dei due terzi…”

“Non la mia memoria corta me lo ha fatto scordare” rispose Natale. “Ma, il vostro egoismo napoletano, ancor più devastante del separatismo palermitano!”

Vi fu un applauso da parte dei deputati Francesco Strano e Paolino Riolo; ma, la votazione per appello nominale che seguì all’intervento confermò la scelta di due rappresentanti in tutto per la Sicilia.

Fu, però, il generale e storico Pietro Colletta colui che seppe meglio mettere in evidenza la natura della lotta politica di Vincenzo Natale:

Altre leggi, proposte dal deputato Natale, abolirono la feudalità di Sicilia; non essendo bastati fino al 1821 gli esempi de’ più civili regni, e la pazienza de’ tempi e i costumi dei signori, e la stessa costituzione dell’anno ’12, e parecchi decreti degli anni ’16 e ’17. Quella feudalità, cessata molte volte nel nome, non mai ne’ possessi, era finalmente per le nuove leggi distrutta, le stesse che sotto i re Giuseppe e Gioacchino operarono tra noi la piena caduta del barbaro edificio.

Ed, in effetti, il filo rosso che unì le vicende del massone Alfio Natale e quelle del figlio carbonaro Vincenzo potrebbe essere individuato nell’aver favorito il passaggio da un concetto feudale della ricchezza ai nuovi valori individualistici, con tutto il conseguente dinamismo dell’imprenditoria, del commercio e delle professioni.

Nella visione politica di Natale questo impegno si tradusse nell’idea di allargare il mercato, il che contrastava con qualsiasi indipendentismo. Al contempo, però, vedeva la necessità di un’autonomia gestionale, per rompere i lacci che impedivano quella che oggi si chiamerebbe un’economia liberista.

“Ho appoggiato la proposta” scriveva Vincenzo Natale al padre, con chiara coscienza, il 6 dicembre 1820, “di istituire un supremo tribunale di giusttizia o cassazione in Sicilia. Le mie argomentazioni hanno preso forza dal fatto che il mare separa la nostra terra dalla capitale.

“Ho chiesto pure al Ministero delle finanze di vedere la possibilità di una diminuzione dei gravami fiscali.”

Questo, mentre si accendeva il dibattito tra lui e il deputato Carlo Poerio.

“E’ l’abolizione della feudalità” disse Natale in parlamento, “il compito assegnatomi, fin da quando, più di venticinque anni fa, in una piccola città siciliana l’avvocato don Alfio Natale, mio padre, non cominciò ad attaccare i privilegi baronali, ottenendo una prima vittoria!”

“Non occorrono nuove leggi per questo” gli rispose Poerio. “Bastano il richiamo e l’esecuzione di quelle vigenti, che riguardano tutto il Regno.”

“La Sicilia non è Napoli” insistette Natale. “Noi non abbiamo avuto forze rivoluzionarie al governo per un tempo bastante ad incidere sugli usi e sui costumi. Ciò mi ha convinto dell’opportunità, non soltanto di una nuova legge per l’abolizione della feudalità, ma pure di una divisione dei demanii della Sicilia oltre il Faro.”

Così, il 20 gennaio 1821, Vincenzo Nataloe poteva orgogliosamente scrivere al padre:

“Il parlamento ha nominato una commissione per presentare al principe vicario le leggi sull’abolizione della feudalità e sul nuovo regolamento delle guardie nazionali. Con la presentazione di queste leggi, concernenti sì da vicino la prosperità nazionale, il parlamento ha voluto festeggiare nel modo più solenne il giorno natalizio del nostro re e padre della patria, che ricorreva il 12 gennaio. Io facevo parte di tale deputazione.”

Peccato che, quasi due mesi dopo, il 15 marzo, in Parlamento Vincenzo Natale era costretto a tornare sull’argomento: “E’ doloroso non sapere ancora i tempi di esecuzione della legge sull’abolizione della feudalità in Sicilia, mentre occorre una pronta decisione per liberare dall’antica tirannide baronale quest’isola infelice. Ma, so già che tutte le guerre private che mi sono state mosse nel passato e che mi saranno mosse nel futuro sono state causate dal mio interessamento e dalla mia opera contro la feudalità”

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Pubblicato da terrazze Studio Garufi&Garufi

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi ha insegnato Lettere, Storia dell0Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie su Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini e Enrico Guarneri (Litterio).

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