S. P. Garufi Tanteri, Dal baronaggio al notabilato, Storia di una Sicilia sempre uguale a se stessa.

S. P. Garufi Tanteri, Dal baronaggio al notabilato, Storia di una Sicilia sempre uguale a se stessa.

Un notabile

Cimitero di Scordia, Cappella gentilizia di don Ippolito De Cristofaro

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

Nella chiesa di Santa Maria della Stella, a Militello in Val di Catania, c’è un quadro di un secentesco e ingiustamente dimenticato pittore di Acireale. In verità, ingiustamente dimenticato è soprattutto l’aggettivo secentesco, perché nel generale pappagallismo culturale contemporaneo ci si dimentica che la politica raffinatamente cinica del Seicento ed il conseguente Barocco nacquero sostanzialmente da quella vera e propria Rivoluzione Culturale che fu il Concilio di Trento.

Per spiegarmi meglio, chiarisco che il mio riferimento iniziale per parlare del libro “Il Notabile” di Nello Musumeci. Mi riferisco a una Madonna della Stella di Giacinto Platania, che non bisogna guardare soltanto come un’immagine sacra. Meglio vederla come il ritratto di una Regina, che sta splendida e sicura sul trono.

Il suo ruolo è mettere ordine nel disordine del mondo. Ella non indica il Cielo, ma pone un terrestre e concreto programma di governo.

Così, Re e Papi diventano i vassalli della agostiniana Città di Dio e, a cascata, gli innumerevoli notabili che affollano gli angoli sperduti del mondo ne diventano i valvassori e – volendo estremizzare – diventano valvassini i professionisti, i burocrati, i preti e i monaci.

M’immagino che già qualche aulico professore ruspante del contado catanese mi dirà che l’ho fatta troppo semplice. Il “pedante filologo” a cui alludeva il poeta futurista Vladimir Vladimirovic Majakoskij è sempre pronto ad alzare il suo esangue ditino.

Ma, la vera verità è che nel Concilio di Trento – di cui il quadro del Platania è una piccola icona – viene inventata la più micidiale macchina del consenso di tutti i tempi, l’unica che poteva battere – ed ha battuto – il vitello d’oro del capitalismo e i furori ideologici egalitari, ambedue nati dalla Riforma luterana – almeno, stando alla tesi di Max Weber -.

In altre parole, la Chiesa Cattolica in quell’occasione capì che c’è un Potere che passa – quello politico – ed un Potere che resta – cioè, l’Egemonia Culturale – concetto chiarito dal comunista Antonio Gramsci, ma nei fatti anticipato dall’organizzazione cattolica -.

Proprio perché la società è una realtà complessa e, per intima natura instabile, la Chiesa diventò il vero cuore dello Stato. Cuore mutevole e sempre uguale. Lasciò, insomma, giocare liberamente le contraddizioni di classe, portandole tutte al suo interno: se i gesuiti poterono occuparsi dell’alta cultura e gli agostiniani delle scuole, i cappuccini furono gli alfieri dei poveri, le confraternite i sindacati degli artigiani, i preti secolari gestirono le feste patronali e i riti privati (battesimi, nozze, funerali e messe domenicali), tutte cose che ricompattavano le masse. I predicatori domenicani, infine, furono gli specialisti della comunicazione e dell’inquisizione…

Con questa mentalità, nella periferica Scordia, come ci racconta Nello Musumeci, don Ippolito De Cristofaro (Scordia, 1884 – 1963) poté diventare il padre-padrone della Città, senza essere mai stato eletto Sindaco.

Come si vede, un racconto su di lui è qualcosa di più serio di una biografia locale. James Joyce, forse, l’avrebbe chiamato un’epifania, cioè il manifestarsi di un motore occulto della storia che si studia – quando si studia – sui testi scolastici.

La statura culturale del personaggio, fra l’altro, giustifica tante dotte citazioni. Don Ippolito De Cristofaro – anche se confidenzialmente veniva chiamato don Popò – nacque a Scordia, in provincia di Catania, il 25 giugno del 1884 in una famiglia che già conteneva per intero una sicilianissima impassibilità di fronte al mutare delle ideologie politiche. Sotto il Re Borbone, i De Cristofaro erano imparentati con uomini d’ordine per antonomasia, i Majorana Cocuzzella della vicina Militello.

Così, per esempio, avevano potuto godere della speciale protezione del terribile ministro Del Carretto – anche se la pignoleria pettegola di certa storiografia ufficiale lo nega -, sceso in Sicilia a reprimere i disordini scoppiati per il colera (e a Scordia fomentati proprio da un rampollo liberale di quella stessa famiglia).

In don Ippolito, però, più che trasformismo, ci fu una forte consapevolezza del suo appartenere al notabilato, il che gli impose una severa cultura storica, che lo mise al riparo da delusioni ideologiche. Badò alla sostanza delle cose e degli eventi. Se volete, realizzò una versione più nobile dei Mazzarò descritti da Giovanni Verga, o più volgare dei Vicerè di Federico De Roberto.

Da giovane, perciò, Ippolito studiò prima nel Real Collegio di Lucca e poi a Mondragone, per intraprendere infine la carriera diplomatica.

Dopo qualche saltuaria presenza nelle ambasciate di San Pietroburgo e di Berlino, egli arrivò in Turchia, dove conobbe la donna della sua vita, Maria Vekil di Kiev, figlia di un turco facoltoso e di una nobildonna greca, dama di corte della zarina russa. Ne venne fuori una storia d’amore contrastato, tipica della frivola mentalità del Secondo Romanticismo. Ovviamente, finì come doveva finire, cioè col matrimonio.

La parte più interessante della vita di don Ippolito, comunque, cominciò dopo l’abbandono della carriera diplomatica e il definitivo ritorno in Sicilia. Egli, infatti, si legò all’emergente don Luigi Sturzo e, dopo la fondazione del Partito Popolare, ne diventò deputato e leader in Sicilia. Ebbe, quindi, modo di incrociare altre straordinarie carriere, spesso entrando in conflitto con esse. Un esempio per tutti fu Riccardo Lombardi, destinato a diventare un riferimento nazionale per la Sinistra socialista.

In questa occasione don Ippolito diventò davvero don Popò, realizzando una carriera che poi percorse l’ex sindaco di Catania, il prof. Magrì, che tanto affascinò il Leonardo Sciascia della commedia I mafiosi e, coerentemente, il suo successore, l’on. Nino Drago. In altre parole don Ippolito mise il suo notabilato a disposizione delle mille e mille esigenze dei singoli cittadini. Adattò, cioè, le geniali intuizioni del Concilio di Trento ai moderni strumenti della democrazia.

Se il capitalismo, sistema ideologico per eccellenza, fa della libera concorrenza – come capì Marx, indovinando l’analisi, ma sbagliando la soluzione – il suo feticcio, la politica di De Cristofaro diventò uno scudo a difesa dei singoli. Era una sorta di massoneria di massa, ben diversa dalla mafia. Essa, in qualche modo, rendeva visibile e percepibile il solidarismo e l’associazionismo. Le vecchie confraternite, insomma, si dinamizzavano nei gruppi fiancheggiatori.

Alla fine, sarebbe stata un’idea copiata da tutti, compresi i comunisti delle cooperative emiliane.

Il successo non mancò a don Popò, almeno fino all’avvento del fascismo. Fu, però, una parentesi in cui i De Cristofaro restarono i notabili di Scordia, dato che diventò podestà il cugino Alfredo De Cristofaro, un uomo perbene, che concesse qualcosa alla teatralità del regime, ma conservò intatta la concretezza amministrativa.

Caduto il fascismo, così, Ippolito De Cristofaro diventò il padrone del nuovo partito-Stato a Scordia. Furono gli anni in cui l’intera vita dei siciliani passò nelle mani dei democristiani. Egli decise sindaci, assessori, consiglieri, impiegati e posti di lavoro. Egli stabilì le infrastrutture che dovevano realizzarsi e come doveva scorrere la vita pubblica. Potrebbe sembrare il tipico baronato meridionale, ma c’era la novità che le catene usate erano invisibili, perché entravano nelle più riposte pieghe della mentalità meridionale. Era, appunto, l’egemonia culturale a cui accennavo all’inizio.

L’opera di Nello Musumeci, perciò, col suo raccontare piano e ricco di curiosità, dipana una matassa complicatissima e ci fa intravvedere nel piccolo lo spirito di un’epoca.

In verità, Nello Musumeci non è nuovo a queste operazioni. Molti interessi mi sono venuti da stimoli da lui ricevuti. Ricordo, a tal proposito, alcune monografie sull’ambasciatore Filippo Anfuso e sui lucidissimi scritti dell’on. Gaetano La Terza. Probabilmente, mi piacerà tornarci ancora, anche per dimostrare che il “cambiare tutto affinché tutto resti come prima” di lampedusiana memoria viene troppo spesso citato a sproposito.

Il notabilato non è stato – e non è – un fatto immobile. Esso cammina con la Storia, come confusamente ha intuito Bernard-Henry Levy in “La barbarie dal volto umano”. Il notabilato è stato il segreto e mobilissimo motore della storia siciliana più recente; è’ stato la faccia nascosta della Luna (o della mafia?); è stato il moderno Principe, come a dire l’Altro

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Pubblicato da terrazze Studio Garufi&Garufi

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi ha insegnato Lettere, Storia dell0Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie su Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini e Enrico Guarneri (Litterio).

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