Settecento siciliano: i giovani migliori sognano la Rivoluzione
di Salvatore Paolo Garufi Tanteri
C’è sempre un tempo in cui la società e i luoghi chiusi si assomigliano. Fu, infatti, proprio in un istituto scolastico brontese, il Collegio Capizzi, che, sul finire del Settecento, lo scrittore e deputato Vincenzo Natale provò le sue prime passioni forti e, come spesso disse, sognò di cambiare il mondo. Prima di lui, lo stesso sogno lo aveva fatto suo padre, l’avv. don Alfio Natale, che fu il prototipo di una lunga schiera di silenziosi commis, classe che è poi diventata il vento anonimo dei Colpi di Stato e delle rivoluzioni novecentesche.
Il loro paese di origine, Militello nel Val di Catania, giace nascosto nella provincia siciliana più sperduta. Ma, sorprendentemente, vi accaddero fatti che dimostrarono quanto sia falso ciò che la narrazione di regime ci impone come vero: la Sicilia borbonica non fu per nulla un mondo in cui il feudalesimo mai fu messo in discussione.
A Militello, per esempio, era molto presente e potente la categoria dei professionisti. Quando, dopo l’arrivo dei garibaldini, fu votata la decadenza del regime borbonico, in una popolazione che non arrivava a diecimila abitanti, si trovarono a dare il voto favorevole 28 sacerdoti, 6 padri benedettini, 15 avvocati, 12 medici, 5 farmacisti, 4 architetti e 3 notai. E, naturalmente, molti di quei professionisti provenivano dal collegio Capizzi.
Questo Istituto nell’Ottocento e per buona parte del Novecento, insieme al Pennisi di Acireale, fu un pilastro dell’educazione isolana. Divenuto laico dopo l’Unità d’Italia, col nome di Real Collegio Capizzi, ospitò personaggi destinati a farsi un nome, nella cultura e nella politica. Il giovane Luigi Capuana, fra gli altri, lì compose i primi versi e, in anni più recenti, vi studiò Marcello Dell’Utri, raffinatissimo bibliografo e testa pensante del partito di Silvio Berlusconi.
L’edificio stesso era simbolo della sua funzione. Aveva una solennità orizzontale e perentoria – posto com’era al centro della città -, incastonato negli angoli di pietra lavica. Per coerenza, le pretese di eleganza poggiavano sul gioco delle linee grigio-scure, che incorniciavano porte e finestre.
Tutto in esso dava l’idea di una solidità inattaccabile dalla povertà del contesto. Era stato pensato così, col nome di Reggie Pubbliche Scuole di Educazione, dal Venerabile don Ignazio Capizzi e costruito in soli quattro anni, dal 1774 al 1778. Ma, vista la generale tetraggine che ha dato ai collegiali nei secoli della sua esistenza – compreso a chi scrive -, parrebbe che ogni sua pietra sia stata tirata fuori da uggiose giornate di pioggia. Quando, però, don Alfio Natale vi portò il figlio Vincenzo, l’istituzione viveva il suo momento d’oro.
“Grazie all’illuminata protezione di sua maestà Carlo III di Borbone” disse, infatti, il Rettore, “il nostro Collegio è diventato un faro del sapere. Nei pochi anni della sua esistenza ha già potuto conquistarsi un’acclarata fama, come centro di sapienza e dottrina. Questo per il rigore delle Regole, che sono quelle volute dal suo Fondatore. Esse prevedono obblighi e doveri, sia per i convittori, che per i professori. Latino, greco ed eloquenza sono per noi le materie regine e disponiamo di un ricco patrimonio librario, in parte proveniente dalla collezione personale dello stesso don Capizzi.”
Il prete non esagerava. Gli ottimi professori che vi insegnavano ben presto permisero al giovane Vincenzo Natale di acquisire uno stile essenziale, chiaro ed improntato alla concretezza; in linea con i canoni illuministici ed in sintonia con l’ambiente di appartenenza.
Inizialmente, Vincenzo parteggiò per i rivoluzionari francesi, vedendone alcuni come dei nuovi Milziade e dei nuovi Leonida; finché, spuntato l’astro napoleonico, poté finalmente ammirare un nuovo Alessandro Magno. Prima, però, proprio per il suo carattere prudente, un tipo come Robespierre gli aveva fatto paura. Preferiva l’ironia di Voltaire, o la libertà di pensiero di Diderot e D’Alembert. Fra l’altro, questi erano autori molto presenti in Sicilia, soprattutto nella casa paterna; e con loro, in quel periodo di dominante neoclassicismo, c’erano pure gli scrittori greci e latini, gli storici soprattutto.
Il suo orizzonte, insomma, non usciva dai libri. Gli esempi familiari, infatti, lo portarono sempre a considerare affari intellettuali, sia la vita che la politica; quindi, non poteva diventare mai un ammiratore di Saint Just, anche se il mondo che voleva era molto simile a quello del rivoluzionario che aveva mandato a morte il re di Francia. A quest’ultimo modello poteva casomai ispirarsi il suo compagno di banco, Nicola Longobardo, che nello studio non andava oltre una dignitosa sufficienza. Ma, il metro e ottanta di muscoli e l’indole generosa gli garantivano l’universale rispetto, per cui lo chiamavano Spartacus, per le idee rivoluzionarie e per il forte senso di giustizia.
I discorsi e le elaborazioni teoriche, invece, Nicola li lasciava a Vincenzo. Ambedue, all’insaputa l’uno dell’altro, finirono, poi, per innamorarsi di Adele Faraci, nipote del loro professore di latino e greco, il prete don Nunzio Longhitano. Fu, però, Spartacus a dichiararsi ed a sposare la ragazza. Vincenzo, pur pensando che di nessun’altra donna si sarebbe mai più innamorato, si limitò a mantenere irreprensibili e formalissimi rapporti con la coppia. Col particolare, però, che, quando le vicissitudini politiche lo portarono a nascondersi a Bronte, le malelingue spettegolarono su una sua relazione con donna Franca Faraci, vedova Sulimena e sorella minore di Adele.
Anche questo suo modo di agire nel privato rispecchiò la sua felpata e morbida attività politica. Non eccelse in battaglie spettacolari e la sua figura restò sempre dietro le quinte, pronta a gettare la pietra della congiura carbonara, ma altrettanto pronta a nascondere la mano. Vincenzo seppe bene una cosa: chi è ricco di amici è scarso di guai.
Ecco perché cercò appoggi in tutti gli schieramenti in campo. Fu il suo modo naturale di far politica. Voleva i cambiamenti radicali. Ma, come usava dire: ogni cosa a suo tempo; ritenne prioritario graduare le novità legislative, senza contrapporsi troppo alle consuetudini.
Preferì travagliare le teste coi libri ed i discorsi parlamentari, senza solleticare i cuori coi proclami.
Ciò si rivelò un ottimo sistema per farsi trascurare dalla storia. Espose, tale consapevolezza, scrivendo nel suo segretissimo diario nell’autunno del 1854, poco tempo prima della sua morte:
“Come le donne, la storia guarda i muscoli e non la testa. Le idee sono il vento e le azioni le vele delle navi. Chi vede il vento all’orizzonte? Soltanto se ci stai sotto le vele si mostrano strattonate dall’aria che le gonfia. La storia di solito guarda il mare dalla riva: vede il bianco della tela contro l’azzurro del cielo, vede lo scafo che taglia le onde, vede in che direzione va la nave… Ma, non si cura di sapere da dove (e perché) viene il vento, né si sofferma a misurarne la forza.”
Più sotto, con mano tremante per la morte imminente, aggiunse:
“Io, purtroppo, ho voluto essere la vela dell’albero maestro, avendo a disposizione una lieve brezza estiva.”
Fu, comunque, l’amicizia con Spartacus – il suo alter ego della gioventù – che gli creò l’occasione del primo contatto con i personaggi della galassia dei movimenti genericamente definibili comunisti.
Avevano sedici anni e avevano avuto il permesso di studiare nel giardinetto del collegio. Era il giugno del 1797. Le piante, gli animali, le pietre e la stessa polvere sembravano immobilizzati dalla cappa del sole. Non c’era un filo di vento e persino l’odore del gelsomino che si arrampicava sul muro, aveva un qualcosa di dolciastro, di materia in decomposizione. I due ragazzi si trovavano impegnati nello studio per gli imminenti esami e quel posto rappresentava l’unico punto, si fa per dire, di refrigerio.
Aspettavano il loro professore di latino e greco, padre Nunzio Longhitano, che doveva chiarire alcuni passi oscuri del libro VI delle Guerre del Peloponneso di Tucidide. Una caraffa di limonata poggiata su una pietra rappresentava l’ultima difesa contro una sete inestinguibile.
D’improvviso sentirono lo svolazzare di una tonaca e il prete calò su di loro come un falco sulla preda. Teneva in mano un foglio, probabilmente una lettera appena arrivatagli.
“Hanno condannato a morte Babeuf!” disse, senza salutare.
Vincenzo lo guardò perplesso. Non avrebbe dovuto esserci alcun motivo, per un sacerdote, di agitarsi tanto per la morte di un rivoluzionario ateo. “So che era un senza Dio…”
“Era un giusto!” ribatté padre Longhitano, con gli occhi fuori dalle orbite.
“Voi parlate così?” si stupì Vincenzo. Ma, proprio allora, decise di non stupirsi mai più, di nulla.
“La storia racconterà che a Parigi c’è stata anche la rivoluzione del Movimento degli uguali” interloquì Spartacus. “E’ fallita, purtroppo. Sapevo del processo; ma, speravo che non si arrivasse a tanto. François Gracchus Babeuf, Filippo Buonarroti e Darthé sono e resteranno la parte migliore della Francia libera!”
“Ci avrei scommesso che anche tu eri rivoluzionario.” disse sorridendo Vincenzo.
“Ambedue facciamo parte del Cenacolo.” confermò padre Longhitano. Vincenzo lo guardò con aria interrogativa.
“Il modello è quello del Comitato di Babeuf…” aggiunse Spartacus.
“Non andare oltre!” lo interruppe bruscamente Vincenzo.
Il suo viso, però, si addolcì subito dopo; e, rivoltosi al sacerdote, prese un’espressione cordiale. “Padre, io non so se sono ancora pronto per sentirvi…”
Gli si avvicinò e gli prese la mano, portandosela sul cuore. “Anch’io credo che Babeuf fosse un illuminato. Ma, la sua strategia non è approdata a nulla. La rivoluzione e la prudenza sono due guerrieri che debbono combattere insieme, come gli Aiaci.”
Ciò che non sapevano, né padre Longhitano né Spartacus, era il fatto che Vincenzo si era già documentato sull’azione e sulla struttura del Comitato Insurrezionale del Movimento degli Eguali. Ma, per una legge personale, che non trasgredì mai, lasciava trasparire pochissimo di ciò che pensava e nulla di ciò che intendeva fare. In questo senso, egli, molto più dei suoi interlocutori, era coerente con la mentalità del Comitato di Babeuf, rigorosamente clandestino e al vertice di una piramide organizzativa, i cui membri per lo più non si conoscevano fra di loro.
In ogni caso, un mese prima egli aveva avuto occasione di parlarne con suo padre.
“Noi siamo massoni” gli aveva risposto don Alfio.
Subito dopo aveva cambiato argomento:
“Nella sacrestia della chiesa dell’Immacolata Concezione, a Militello. Vi è la secentesca Madonna della Stella dell’acese Giacinto Platania. Non guardarla come l’immagine di una Santa. Pensala come la raffigurazione dello Spirito umano che si pone come governo della Storia e della Natura. La massoneria, come la Madonna della Vittoria, è una regina che sta splendida e sicura sul suo trono. Io ho sempre guardato quest’opera come la perfetta raffigurazione di un programma di governo, che ho cercato di realizzare e che la litigiosità dei baroni ha impedito.”