Salvatore P. Garufi: “LA NAZIONE SICILIANA”, ragioni storiche per una scelta dell’autonomia differenziata in Italia e del federalismo in Europa”

Salvatore P. Garufi: “LA NAZIONE SICILIANA”, ragioni storiche per una scelta dell’autonomia differenziata in Italia e del federalismo in Europa”

ARGOMENTI PER UN’EUROPA DELLE REGIONI: LA SCELTA FEDERALISTA

di Salvatore Paolo Garufi

 

Comincio con una domanda canonica. Per lei, la Sicilia è una regione dell’Italia o un continente a parte?

E’ certamente un mondo a parte; e pure molto complesso. Almeno, stando alla storia. Infatti, già la Sicilia pre-ellenica fornisce diversi spunti di interesse, dato che presenta un’accentuata differenziazione, sia al suo interno, sia rispetto alle civiltà coeve.

Si riferisce ai popoli che l’abitavano?

Infatti. I primi a stanziarsi nell’isola furono i sicani, i morgeti e gli ausoni. Questi in tempi diversi (i sicani spintivi dall’invasione sicula) finirono per occupare la zona occidentale (grotte nel territorio di Palermo, Alcamo, Castrogiovanni, Termini Imerese, etc.). I sicani, inoltre, in qualche modo, si tennero in disparte rispetto agli altri popoli, avendo essi soli coscienza della loro ormai immemorabile presenza nell’isola. Lo scrive Ignazio Scaturro nella sua Storia di Sicilia, edita dalla Raggio di Roma, nel 1950. Razialmente vicini ai sicani, però, furono gli elimi, tra l’altro citati dallo storico greco Tucidide, che si stabilirono soprattutto nelle città di Erice, Segesta ed Entella. Intorno al secondo millennio a. C. arrivarono poi i siculi. Possiamo azzardare l’ipotesi che fossero una popolazione italica (o italicizzata), indoeuropea in ogni caso, almeno basandoci sulle scarse sopravvivenze linguistiche, la più corposa delle quali si trova nella cosiddetta Iscrizione di Centuripe. I siculi si stanziarono nella parte orientale dell’isola e la loro presenza coincise con un vero e proprio rinascimento culturale, testimoniato dalla produzione ceramica, che si presenta come una delle più belle, se non la più bella, di tutte le ceramiche preistoriche d’Italia. Altro popolo, di cui ci dà notizia Cirino Gula nella sua Storia di Leontinoi, uscita a Catania nel 1995 presso la C.U.E.C.M., fu quello dei lestrigoni.

Ci furono anche i greci…

I greci e pure i fenici. Quest’ultimi vennero da Cartagine e fondarono le loro città sul versante occidentale. Ancora oggi, Mozia ne è splendida testimonianza. Basta leggere le egregie monografie di Enrico Acquaro (Cartagine: un impero sul Mediterraneo, Club del libro Fratelli Melita, La Spezia, 1980) e di Sabatino Moscati (Alla scoperta della civiltà mediterranea, Roma, Newton Compton, 1979).

E i greci?

La loro colonizzazione cominciò a metà del sec. VIII. Possiamo individuarne la causa nel fatto che l’antica proprietà terriera delle città greche, concentrata in poche mani, non ammetteva troppi incrementi demografici. I coloni, perciò, andarono a cercare altre terre fertili da coltivare e ben presto le nuove città, dotate di ottimi porti, conobbero un impetuoso ed intenso sviluppo commerciale. Così, i megaresi fondarono Megara Hyblea, i calcidesi Naxos, i Corinzi Siracusa, gli ioni Zancle (Messina), i rodii e i cretesi Gela. Da queste, a loro volta, partirono altri gruppi di coloni a far nascere nuovi centri. Non molto lontano dall’attuale Piana di Catania, per esempio, nacque Leontinoi, ad opera di gente di Naxos.

Bene. In tutto questo la nazione siciliana dov’è?

Per esempio, già nelle espressioni artistiche del periodo delle tirannidi, molto diverse di quelle fiorite nella madrepatria greca. Esse ebbero una loro particolare impronta monumentalistica, soprattutto la monetazione, l’arte in cui eccelsero gli artisti della Sicilia, come documenterebbe una visita al Museo “Paolo Orsi” di Siracusa. Fin dai primi esemplari si usarono oro, argento, elettro (lega di oro ed argento) e rame. Furono rarissimi i casi in cui si fece ricorso ad altro materiale, come il cuoio ed il ferro a Sparta, o lo stagno usato da Dionigi il Vecchio a Siracusa. Tale preferenza per i materiali preziosi, per il loro stesso valore di difficile circolazione, ci fa pensare che la moneta, più che per scopi puramente commerciali, dovesse servire ad attestare la potenza del tiranno.

Vuol dire che erano i manifesti propagandistici dell’epoca?

Più o meno, sì. La funzione propagandistica della moneta ci viene ulteriormente sottolineata dal fatto che si ricorreva ad ogni mezzo per reperire il necessario materiale prezioso. Dionigi il Vecchio di Siracusa, ad esempio, arrivò a spogliare molti cittadini dei loro gioielli e molti templi dei loro ornamenti.

Beh, non mi pare che questo sia un passato di cui andare orgogliosi.

Dal nostro punto di vista di uomini moderni, sicuramente no! Ma, se si guarda la produzione artistica, il risultato fu grandioso. L’aspetto più interessante delle monete siciliane sta nel fatto che venivano coniate al pezzo, sia nel tipo (l’elemento figurativo) che nella leggenda (l’elemento epigrammatico), cosa che richiedeva tempo, cura e abilità.

Possiamo individuare, perciò, una varietà di stili all’interno di quest’arte?

Su questa base si sogliono distinguere tre periodi di coniazione: il primo è detto dei maestri primitivi, il secondo dei maestri arcaici ed il terzo (di eccezionale livello qualitativo) dei maestri monetieri. Nel periodo dei maestri primitivi (dal 550 a.C. circa) si ebbero soprattutto monete incusse, cioè col Dritto in rilievo ed il Recto scavato. I valori maggiormente espressi sono il tetradramma ed il tridramma. Al Dritto v’è effigiata una testa femminile con una leggenda indicante, abbreviato, il nome della città (esempio: Sira per Siracusa). Sul Recto ci sono due cavalli guidati da un auriga (hippeus). Ciò ci fa pensare che a quei tempi la misura della ricchezza era data dal possesso dei cavalli.

E che possiamo dire delle qualità artistiche degli autori, se autori sono stati individuati?

Il disegno dei pezzi più antichi ha una certa rigidità, che tende alla severità della statuaria. In essi viene espresso soprattutto un ideale di dignità. In queste prime produzioni compaiono, inoltre, alcuni simboli che indicano le città di emissione: il grappolo d’uva indica Nasso, il leone Leontini, l’ape Selinunte, il toro dal volto umano o Gela o Catania, la testa della ninfa Aretusa Siracusa. Col periodo dei maestri arcaici (dal 480 a.C.) abbiamo due grosse novità. La prima è l’introduzione sul Recto della figura della Vittoria (Nike), che incorona l’auriga ed i cavalli dopo il trionfo in una gara. La seconda è il caratterizzarsi dell’incisione monetale come forma d’arte autonoma, tanto che il prof. Giulio Emanuele Rizzo, noto studioso del settore, in questo periodo credette di riconoscere ed isolare ben due maestri, purtroppo rimasti anonimi, capaci di staccarsi dal mero artigianato e di raggiungere personalità di artisti. Lo stile di questi maestri è ancora improntato ad un ideale di severità, simboleggiato soprattutto da figure di donne vestite col pesante peplo dorico. Due monete sono utili sopra le altre per l’esatta ricostruzione cronologica delle emissioni del periodo dei maestri arcaici. Una è il cosiddetto Damarateion, decadramma (dieci dracme) che sappiamo emesso a Siracusa da Gelone, in occasione della sua vittoria ad Imera (480 a.C.), la cui funzione commemorativa, quindi, appare chiara. L’altra, di datazione incerta, è un tetradramma rievocante la fondazione della città di Aitna, emesso nel 476 a.C. A metà del V° sec., poi, furono emesse monete di bronzo a Imera, a Siracusa, a Gela, a Camarina, a Catania, a Leontini, a Nacona e a Piakion (di queste due ultime città non è ancora stata possibile una sicura identificazione). L’ultimo periodo, il più ricco di risultati d’arte, è quello dei maestri monetieri. Esso iniziò negli ultimi decenni del V° sec. a.C. e durò fino al 360 a.C. Il primo che ebbe coscienza del valore artistico delle sue monete e le firmò fu Eumene. Ricordiamo, ancora, Sosion, Frigillo (che fu pure un bravo incisore di gemme), Euthimo, Evarchida, Eucleida, Essacestida, Procles. Ma, i due più grandi maestri monetieri di tutti i tempi furono Cimone ed Eveneto.

Che cosa, in particolare, li fa grandi?

Di Cimone sappiamo che operò a Siracusa dal 412 al 400 a.C. E’ famoso il suo decadramma commemorativo della vittoria dell’Assinaro sugli ateniesi, dove nella reticella che orna la testa della ninfa Aretusa viene espresso un elegantissimo intreccio di linee e serpentine. Nel rovescio si raggiunge addirittura il capolavoro con una delle più perfette e disinvolte rappresentazioni della quadriga veloce. A ciò va aggiunta la personalità di aver posto la ninfa Aretusa non più di profilo, ma di prospetto, proponendo così un concetto più naturalistico di rappresentazione. Degna di ricordo è pure la moneta di 50 litre in oro dove Cimone rappresentò la lotta di Ercole con il leone. L’altro maestro, Eveneto, operò a Siracusa fino al 412 a.C. e poi nelle zecche di Catania, Camarina e, dal 400 al 370 a.C., di nuovo a Siracusa. Il suo capolavoro fu il decadramma emesso nel 413 a.C., anch’esso per commemorare la vittoria dell’Assinaro sugli ateniesi. Nell’impianto dell’opera riprese lo schema del damarateion, ma superandone le arcaiche rigidità di disegno con una complessa sinfonia di temi, che tocca la genialità innovativa nel Recto, dove i cavalli della quadriga sono raffigurati di scorcio e balzano fuori focosi.

Ma, al di là dell’arte, c’è mai stato nell’antichità un episodio storico che abbia dato concretezza all’idea dell’identità siciliana?

Uno dei più interessanti autori antichi che ho letto l’ho letto tradotto in francese: Diodore de Sicilie nella sua Bibliothèque historique, livre XII, texte établi et traduit par Michel Casevitz, “Les belles lettres”, Paris, 1972. V’è raccontata la lotta di Ducezio contro i greci dominatori, paragonabile a quella di Annibale contro i romani. Oggi si potrebbe parlare di lui come si parla di Garibaldi, o di Che Guevara e proporre un itinerario turistico della sua azione politico-militare. Con lui, fra l’altro, possiamo già mettere tutti i buoni da un lato ed i cattivi dall’altro, realizzando la semplificazione dei racconti popolari. Questo, in ogni caso, fu il frutto di una sua accorta politica dell’immagine.

Sembra una bella forzatura, da parte sua.

Aspetti a giudicare. Ducezio apparve in uno dei più travagliati periodi della storia di Siracusa, la più potente delle città greche di Sicilia. Gli antichi tiranni, i diomenidi, avevano perso il potere ed infuriava la lotta tra la vecchia borghesia terriera siracusana ed i mercenari di Trasibulo e di Gerone che l’avevano invasa. La potenza militare siracusana, quindi, era piuttosto disattenta a ciò che succedeva fuori delle sue mura e non rappresentava un pericolo immediato. Il nostro eroe, così, poté cominciare la lotta, conquistando la città greca di Aitna. Il suo maggior studioso moderno, l’archeologo Dinu Adamasteanu (L’ellenizzazione della Sicilia ed il momento di Ducezio, in “Kokalos”, Riv. di storia antica dell’Università di Palermo, VIII, 1962), sostiene che questa sua capacità di approfittare delle situazioni, in fin dei conti, gli veniva dall’educazione greca. D’altro canto, lo spazio entro cui agì era stato ellenizzato già da tempo.

Cosa lo fa diverso dagli altri capi militari dell’epoca?

Egli era nato a Menai (Mineo) e tutta quella zona, dominata dalla vallata di Caltagirone, era un prolungamento dei territori delle città greche di Katane (Catania) e di Leontinoi da un lato e della città greca di Gela dall’altro. La novità della sua azione, a questo punto, fu che volle raccogliere intorno a sé tutte le popolazioni sicule, presentandosi come campione del riscatto nazionale contro gli invasori greci.

Un nazionalista ante-litteram?

Direi di sì, visto che questa sua idea rimase nella memoria dei siciliani. La cosa non mi meraviglia, se penso che le sue azioni furono molto coerenti con le sue idee.

Quali azioni, in particolare?

Nel 459 a.C. Ducezio fondò Menainon (probabilmente nello stesso territorio di Menai), facendone un centro orgogliosamente siculo. Capì, inoltre, l’importanza del collante religioso e trovò un motivo di unità nel culto di due deità sicule, i Palici. Pose il Tempio nei pressi dell’attuale Lago di Naftia, al centro della vallata di Caltagirone, e lo elevò al rango di Santuario nazionale, abbellendolo del témenos. Accanto all’area del santuario costruì la città fortificata di Palikè, per accomunare le sue forze sotto le insegne del culto indigeno. Tutto ciò, in fondo, dimostra che egli seppe far tesoro delle finezze psicologiche della cultura greca. E’ evidente il suo rifarsi all’unità spirituale che i greci conservavano con la madre-patria nella diasporà, quando partivano per andare a fondare colonie in terre lontane.

E gli eventi che seguirono gli diedero ragione?

Abbastanza. Pur non avendo avuto una vita lunga (fu fondata nel 459 a.C. e fu distrutta dai siracusani tredici anni dopo, nel 446), la città di Palikè fu il centro militare e religioso di tutta la comunità sicula. Anche le guerre di Ducezio non erano mere aggressioni, ma un ribadire l’unità spirituale dei siculi, arricchito, perdipiù, da una notevole abilità nello sfruttare le divisioni interne del campo avverso.

Vuol dire che le guerre di Ducezio ebbero il carattere ideologico di certe guerre del ventesimo secolo dopo Cristo?

Giudichi lei: oltre a rendere esplicito il suo intento di aiutare i connazionali a tornare nelle loro terre, egli cercò l’alleanza dei calcidesi. Ormai privi dei capisaldi di Morgantina e di Adrano, questi avevano interesse di allearsi con lui per sottrarsi al prepotente dominio di Siracusa, città percepita come nemica della libertà delle altre città siciliane.

Bene. Ora, passiamo al racconto degli avvenimenti.

Ducezio puntò subito ad eliminare gli avamposti settentrionali del dominio siracusano, sbarrando ad esso la strada verso il nucleo siculo dei Nebrodi. Così, dopo la fondazione della città di Menainon, Ducezio passò alla realizzazione del suo piano di liberazione dei siculi, questa volta puntando alla parte occidentale dell’isola, dove intendeva azzerare l’influenza siracusana nelle città della Sicilia interna. In particolare, per lui il pericolo veniva da Morgantina, che era una potente piazzaforte siracusana. L’attacco, vincente, venne sferrato nel 459 a. C. e, probabilmente, con Morgantina vennero conquistate pure Agyrion, Regalbuto e Centuripe. Da quel momento nacque la Sunteleia (la sacra alleanza dei siculi), il che gli dava l’autorità morale per nuove conquiste. Da qui Ducezio riprese la via dell’allargamento dei propri territori, questa volta attaccando le città greche sotto l’influenza agrigentina. Nel 452 conquistò Motyon (Vassallaggi), diventando una forza potenzialmente capace di battere sia Siracusa che Agrigento.

Ed i greci di Siracusa che fecero?

Siracusa riuscì a liberarsi dai mercenari, superando i conflitti che la dilaniavano all’interno. Così, essa ed Agrigento poterono combinare le loro forze nella lotta al ribelle, che perciò si trovò accerchiato. Per non lasciare il cuore del suo dominio, la Piana di Catania, alla mercé dei siracusani, Ducezio tornò sui suoi passi, tallonato dagli agrigentini. Purtroppo, fu sconfitto dagli eserciti delle due città greche vicino Noma, probabilmente, ai piedi del Monte Navone, nella vallata del Baemi.

Spero che almeno abbia avuto salva la vita.

Si salvò, dato che riuscì a fuggire a Corinto. Da lì, tra il 448 ed il 447, tornò in Sicilia, portando con sé popolazioni dal Peloponneso e chiamando nelle sue terre i siculi rimastigli devoti, per fondare la città di Kalè Aktè (Bella Costa). In questa occasione poté contare sull’aiuto del principe di Herbita, Archonidas, anch’egli un siculo ellenizzato, forse continuatore della precedente politica di Ducezio e, quindi, nemico dei siracusani.

Fu soltanto questa, la sua eredità spirituale?

No, dato che, come ho già detto, nell’immaginario dei siciliani antichi Palikè rimase un simbolo di indipendenza. Sarebbe interessante, a questo proposito, una lettura di Storia della Sicilia antica di Moses Finley, edita dalla Laterza di Bari.

Mi dica in che occasione si sarebbe espresso tale simbolo.

Nella seconda rivolta degli schiavi, avvenuta sotto il dominio romano. Infatti, nel 212 a. C. la potente Siracusa cadde a sua volta nelle mani dell’esercito di Marco Marcello. Da qui cominciò la prima sistematica spoliazione della Sicilia da parte di uno straniero conquistatore. Essa, infatti, divenne la prima provincia dei nuovi padroni del Mediterraneo e le famose orazioni di Cicerone contro il governatore Verre bastano a darci un’idea delle ruberie di cui fu oggetto. Teniamo conto, pure, del fatto che, se non si hanno altre notizie di amministratori disonesti, lo si deve probabilmente al semplice motivo che era assai difficile mettere sotto processo un romano di posizione elevata; a meno che, come nel caso di Verre, l’accusa non venisse da lotte interne all’Urbe.

Quando scoppiarono le ribellioni?

La prima ebbe inizio ad Enna, poco dopo il 150 a.C. e fu domata nel 132. Probabilmente, però, le premesse ci furono nel 146, quando i romani distrussero Corinto, determinando un gran bottino di schiavi. Va pure detto che la Siria e l’Egitto vivevano la loro estrema dissoluzione (lotte dinastiche, guerre civili, rivolte, etc.), di cui i mercanti di schiavi erano i maggiori beneficiari. Poi, gran parte di questa merce vivente arrivò in Sicilia e vi fu, perciò, una concentrazione di uomini ridotti in uno stato servile di lingua greca e spesso di alta cultura, cosa che giocò un ruolo importante nel fornire un esercito di schiavi senza barriere linguistiche e con capi capaci.

Ma, di preciso, quali furono le contingenze in cui scoppiarono delle rivolte?

La scintilla della prima rivolta si ebbe nel 139 a. C. (per altri, nel 135). Il richissimo Damofilo di Enna e la moglie Megallide portarono il loro comportamento sugli schiavi a un tale livello di intollerabilità, che lo schiavo greco-siriano Euno (che aveva una reputazione di mago), con altri quattrocento schiavi, si sollevò e li uccise, proclamandosi re con poteri assoluti. La sua rivolta andò, poi, a convergere con un’azione analoga che il pastore Cleone condusse ad Agrigento. Così, l’esercito degli schiavi potè ingrossarsi, fino a raggiungere il numero di almeno 70.000 uomini (qualcuno ha ipotizzato una cifra maggiore e, addirittura, c’è chi ha parlato di 200.000 uomini). Euno, comunque, finì per creare una specie di copia della monarchia seleucida asiatica (Seleuco fu un generale di Alessandro Magno e regnò sull’Asia dopo la morte del suo sovrano). Si fece chiamare Antioco e, insediatosi ad Enna, fece coniare le sue monete di rame e creò una sua guardia del corpo. Cleone fu nominato strategos e ci fu pure un consiglio reale.

E quelle della seconda rivolta?

Probabilmente nel 104 a.C. Roma era preda dei disordini interni e subiva la minaccia dei cimbri e dei teutoni nell’Italia Settentrionale. Chiese, perciò, l’aiuto del re NicomedeIII di Bitinia, che però oppose un rifiuto. Il motivo era che nel regno asiatico non c’erano più giovani disponibili, perché troppi di essi finivano vittime dell’attività sfrenata dei mercanti di schiavi, dei quali i funzionari e gli appaltatori delle tasse romani erano rapaci complici. Il senato, quindi, decretò il rilascio di tutti gli alleati (status che era proprio della Bitinia) ridotti in schiavitù. Ciò in Sicilia determinò il caos per la folla di schiavi che si presentò a chiedere la libertà al governatore di Siracusa. Ecco perché, dopo ottocento libertà concesse in pochi giorni, l’autorità romana dovette rimangiarsi le promesse del decreto ed ordinò agli infelici esclusi di tornare dai loro padroni. La ribellione era la conseguenza più logica.

E che c’entra Palikè in tutto questo?

C’entra, perché, invece di obbedire, gli schiavi si misero in marcia verso il santuario dei Palici e fecero sventolare la bandiera della rivolta. Gli echi di quest’azione fecero esplodere le situazioni conflittuali anche in altre parti dell’isola. Nella zona tra Segesta e Lilibeo, il cilicio Antenione si mise a capo di duecento uomini e nelle terre di Alicie ed Eraclea cominciò a splendere la stella di Salvio, che si proclamò re col nome greco di Trifone e, dopo avere offerto sacrifici ai Palici, organizzò i suoi uomini secondo il modello romano, arrivando a metterne insieme circa 40.000 e riuscendo a sconfiggere i romani a Morgantina. Ciò non poteva significare, ovviamente, che la sua avventura avesse una minima speranza di successo. Infatti, venne ben presto sconfitto da M. Aquilio, che fu premiato con un’ovazione nel 99 a.C.

Purtroppo, debbo pure notare che anche in questa occasione l’identità siciliana si esprime in un contesto che vede la nostra terra sotto dominio straniero. Non rischia, tutto ciò, di farci passare come eterni perdenti?

Mica tanto, come avrò modo di dimostrare, se mi lascerà il tempo e lo spazio sufficienti ad articolare un discorso compiuto. La prego, perciò, di avere pazienza. Dopo aver ripercorso le tappe della storia, avremo la possibilità di tirare delle conclusioni, che potrebbero diventare una proposta politica per il futuro.

Il formarsi in Sicilia del concetto moderno di Stato

Non pensa che, nella frammentazione che seguì la caduta di Roma, anche la Sicilia finì per perdere l’identità regionale a favore di quella municipale?

Proprio per nulla. Anzi, al contrario, penso che nel medioevo la Sicilia si differenziò per sempre dall’Italia. Nel continente lo sbocco fu la nascita, prima dei feudi e poi dei comuni, spesso in lotta fra di loro. L’esasperato municipalismo, quindi, sarà soprattutto un fatto italiano, non siciliano. Nell’isola il governo diventerà ben presto centralizzato, anticipando, soprattutto con Federico II, l’idea dei grandi Stati nazionali.

E che ruolo ebbe in Sicilia l’altra faccia del medioevo, cioè la Chiesa cattolica?

Non è certamente questa la sede opportuna (e qualificata) per dare una spiegazione della crisi dell’impero romano. Ma, l’occasione è giusta per tentarne almeno un’analisi filosofica. Alla fine, probabilmente si scoprirà che la storia della Chiesa non è soltanto spirituale e non è neppure il mero esplicarsi di una strategia di alleanze col potere politico. Al contrario, l’organizzazione ecclesiastica in Occidente diventò man mano una specie di impero immateriale, per usare una definizione che il filosofo Toni Negri nel suo saggio, intitolato appunto L’impero, ha applicato all’impero americano. Era un potere, cioè, che poggiava sul dominio culturale.

Ciò vuol dire che sulla crisi di un impero nacque un altro impero?

Sulla crisi dell’impero romano faccio appena appena una biblica e scontata riflessione intorno al sic transit gloria mundi e subito dopo, sulla scorta di un testo autorevole come Il medioevo di Gioacchino Volpe, edito dalla Sansoni di Firenze nel 1965, spiego lo sfaldamento di tanta formidabile compagine alla luce di eventi (gli assetti sociali del tardo impero, il cristianesimo, la pressione dei barbari) non risolutivi singolarmente, ma irresistibili se messi insieme.

E in che senso la Chiesa lo sostituì?

La nuova religione cristiana s’innestò sulla decadenza politica, economica e culturale, oltre che sul diffuso malcontento nei confronti del giogo romano, tant’è che fece molti proseliti fra le masse dei derelitti. Essa, fra l’altro, s’impose (come, mutatis mutandis, continua ad imporsi ancor oggi) per la superiore organizazione, che è l’arma vincente per chi intende avere il potere nelle moderne società complesse (e di queste l’impero romano fu il migliore esempio nell’antichità). I grandi blocchi ideologici funzionano soltanto quando i gruppi sociali sono piccoli. Con la vastità dell’impero bisognava fare i conti con concetti nuovi, a cominciare da quelli di Centro e di Periferia. Se Roma, o le altre metropoli che ospitarono la corte, cioè il centro, avevano il prestigio intellettuale delle capitali, la forza economica e militare veniva sempre più dagli imprenditori, dai lavoratori, dai militari operanti negli sconfinati spazi periferici. Soltanto una presenza capillare e duttile, capace di raggiungere le variegate (e spesso in conflitto fra di loro) pieghe della società poteva ricompattare sul piano alto della religione le mentalità che si trovavano in campo.

Mi pare che siamo alla teoria di Machiavelli, che vedeva nella religione un collante sociale.

Più o meno, sì. Non c’è società senza dei valori comuni che la tengano insieme e la religione, volere o volare, di valori ne dà molti. Ecco perché il cuore dell’ideologia tardo-imperiale fu nelle chiese per quanto riguarda la distribuzione territoriale e nei conventi per la distribuzione negli strati sociali (gli eremi, per esempio, risultarono ottimi avamposti ideologici nei territori marginali e per l’ideologizazione dei più poveri). Le varie istituzioni erano rette da vescovi assistiti da preti e diaconi ed erano riunite intorno a quelle più importanti, a loro volta in contatto fra di loro, costituendo una fitta rete grande quanto tutto l’impero. Una reinvenzione laica di tale sistema, cioè del sistema di controllo delle periferie, in anni recenti sono state le scuole elementari e nedie, le caserme dei carabinieri, le sedi dei partiti, le camere del lavoro, i mass-media e le sedi delle organizzazioni cosiddette no profit.

Ma, crede davvero che si avesse coscienza di tutto ciò?

E perché no? In maniera altrettanto ordinata si svolse, infatti, l’elaborazione teorica, che fin dall’inizio seppe realisticamente tener conto del sostrato pagano, anche se sulle questioni di fondo si mantenne rigorosissima. Certo, tutto ciò non fu frutto di un’improvvisa ispirazione. Si sviluppò in modo graduale, in tempi lunghissimi. Ma, non per questo non se ne ebbe coscienza, visto, come ho già detto, il lavorio di elaborazione teorica.

Ci dia un’idea dei tempi in cui si svolse tale lavorio?

Guardiamo la scansione delle azioni evangelizzatrici e della nascita dei dogmi. Nel Sommario di storia del cristianesimo di Karl Heussi e Giovanni Miegge, Editrice Claudiana, Torino, 1969, leggiamo: “Il culto dei santi ebbe origine nel secondo o terzo secolo, il monachesimo tra la fine del terzo secolo e il quarto, il papato romano, l’adorazione di Maria, il culto delle immagini nel quinto secolo; il dogma della transustantazione, come l’obbligo della confessione auricolare ha origine nel tredicesimo secolo, la preghiera del rosario nel tredicesimo e, nell’attuale forma, nel diciassettesimo secolo; la dottrina dell’infallibilità del papa è stata elevata a dogma soltanto nel 1870.”

E tutto questo cosa significò per la Sicilia?

In Sicilia, s’era possibile, la funzione di vescovi e monaci fu ancor più importante che altrove. Già pochi anni dopo la morte del Cristo, San Paolo, come testimonia il Vangelo secondo San Luca (XXVIII, 12), provenendo da Malta, si soffermò a Siracusa. La sua visita, fra l’altro, “lasciò “traccia viva nella tradizione locale, che vanta la fondazione apostolica della chiesa siracusana.” Lo scrive Cettina Voza nella sua bella Guida di Siracusa, Erre Produzioni, Siracusa, 1994. Per questo, probabilmente, fu foriera di qualche richiamo, quando, secoli dopo, molti monaci scapparono dall’Oriente e vennero a rifugiarsi qui. Il diffondersi del cristianesimo nell’intera isola, inoltre, dovette avvenire in tempi non lunghissimi.

Purtroppo, passato qualche secolo, in Sicilia arrivarono ben altre visite: arrivarono i barbari, riprendendo il doloroso rosario di conquiste subite. Come resse l’organizzazione della Chiesa di fronte a questi nuovi eventi?

Più o meno a partire dal 440 la Sicilia cadde sotto l’attacco, prima, e sotto la dominazione, poi (468-476), dei vandali di Genserico. L’impero vandalico venne, a sua volta. distrutto nel 533 dall’imperatore bizantino Giustiniano, quello del Corpus iuris Justinianei. Il suo generale, Belisario, quindi portò guerra ai “Goti di Sicilia” dal 535 al 536, trovando il favore degli isolani, che speravano in un sollievo delle loro miserevoli condizioni. Ciò, ovviamente si rivelò una pia illusione, come è accaduto quasi sempre nella storia di Sicilia. Giustiniano usò il suo nuovo dominio senza particolari riguardi. Anzi, all’inizio esso fu, più che altro, una base per portare la guerra ai goti di Totila.

Ma, lei in altre occasioni ha detto che il periodo bizantino fu uno dei momenti migliori della storia di Sicilia. Ha cambiato idea?

Non ci sarebbe nulla di male, ma non è questo il caso. Il periodo bizantino diventò un buon momento per noi, al di là del fatto che cominciò male. La bizantinizzazione dell’isola, infatti, risultò agevole, nonostante l’immissione dei tanti profughi provenienti dall’Italia, perché pare che il senso di grecità fosse diffuso in gran parte della popolazione, come ci dice Lynn-Townsend White jr. in Il monachesiomo latino nella Sicilia normanna, Editrice Dafni, Catania, 1984. Anche se, per onestà, bisogna aggiungere che la tesi della grecità del territorio siciliano viene contraddetta dal grande filologo Carlo Tagliavini nella sua Introduzione alla filologia romanza. Comunque, durante il periodo bizantino (dal VI al IX sec.) la Sicilia fu probabilmente la zona più ricca d’Italia.

Sembrerebbe, quindi, che ci sono molte valutazioni storiagrafiche da rivedere.

Senza esagerare, ovviamente. Sarebbe altrettanto sbagliato sopravvalutare la posizione culturale siciliana nel contesto enorme dell’Impero Romano d’Oriente. Per esempio, della ricca (ed ancora ingiustamente poco esplorata) letteratura bizantina, tutto sommato, ci restano non molte testimonianze di scrittori siciliani: un Gregorio, vescovo di Girgenti (la cui vita fu raccontata in forma leggendaria da un Leonzio), autore di un commento all’Ecclesiaste ed i poeti Costantino Siculo, Gregorio, Teodosio, Metodio di Siracusa ed Eugenio di Palermo. A questi va aggiunto il nome di un cronista molto tardo, fiorito ben oltre il tempo della presenza bizantina in Sicilia. Si tratta di un Giovannisiculo (che la cronologia impedisce di identificare col Dossopatre, come alcuni vorrebbero). Il suo racconto andava da Adamo al 1204. Purtroppo è arrivato fino a noi soltanto un frammento che si ferma alla guerra troiana, mentre in un altro manoscritto si prosegue fino all’886. Queste sono notizie che ho trovato in Giovanni Montelatici, Storia della letteratura bizantina, Cisalpino-Goliardica, Milano, 1976, ristampa anastatica da Ulrico Hoepli Editore, Milano, 1916.

Non bisogna esagerare neppure se si parla delle condizioni sociali dell’isola?

Lì si può essere meno prudenti. Infatti, le maggiori autorità furono sicuramente le autorità religiose, per questo la vita si riagregò attorno a chiese e monasteri. Nel suo epistolario Gregorio Magno menziona molti monasteri in Sicilia. Erano conventi benedettini, famosi per la cultura che irradiavano. Diventeranno poi basiliani, cioè di rito greco. Appartenenti al patrimonio della Chiesa, c’erano le massae, cioè vastissimi insediamenti rurali.

Una situazione idilliaca, per quei tempi…

Fino ad un certo punto. Nei secoli VIII e IX il mondo bizantino venne agitato dal grande fenomeno dell’iconoclastia,cioèladottrinae l’azione che perseguitò il culto delle immagini sacre, considerandolo idolatria, per cui, in difesa delle immagini, vi fu il movimento opposto, l’iconodulìa.

Che successe, di preciso?

Tutto cominciò con un decreto dell’imperatore Leone III l’Isaurico nel 725, a cui si oppose San Germano, patriarca di Costantinopoli, finché papa Gregorio II nel 727 convocò a Roma un concilio in difesa delle icone. Per avere un’idea dei processi logici della fazione filopapale, ecco cosa scriveva San Germano a favore delle immagini, così come leggiamo nel libro di Daniel Rousseau, L’icona, splendore del tuo volto, Edizioni Paoline, Milano, 1990: “Quanto all’icona di nostro Signore Gesù Cristo che rappresenta i suoi tratti umani divenuti visibili grazie alla sua teofania, noi la teniamo allo scopo di ricordarci sempre della sua vita nella carne, della sua passione, della sua morte salvifica e del riscatto del mondo che ne è seguito; attraverso la sua icona impariamo a conoscere tutta l’estensione della kenosi di Dio Verbo.” A chiarimento del brano, non resta che aggiungere che in teologia il termine kenosi (che letteralmenteindica l’azione con la quale si svuota) ripropone l’atto del Cristo di rinunciare, nella sua esistenza terrena, alla manifestazione di gloria che gli è propria per natura. Perciò egli nasce in una grotta, figlio di falegname; e non in una reggia, figlio di Re.

Quali fatti seguirono?

L’imperatore contrattaccò, deponendo San Germano, che, poi, morì nel 733. La carica di patriarca nel 730 passò, così, ad Anastasio, alleato dell’imperatore, che firmò un decreto iconoclasta. A questo punto, l’imperatore volle fare un gesto spettacolare: fece distruggere un’icona scolpita del Cristo posta davanti al suo palazzo. Ciò originò una rivolta popolare a cui seguì una feroce repressione. La lotta, in seguito, giunse al parossismo sotto il regno del figlio di Leone III, Costantino Copronimo (741-780). Nel 769 papa Stefano III convocò il Concilio Laterano I in cui l’eresia iconoclasta venne definitivamente condannata. A quel punto, la persecuzione iconoclasta prese sempre più il carattere di una campagna contro il monachesimo. I monaci non furono più perseguitati solamente a motivo del culto delle immagini, ma per il fatto di essere monaci e le loro immense proprietà passarono alla corona.

Con quali conseguenze?

Ci fu una gran fuga di monaci verso l’Italia. Si calcola che i papi ne accolsero circa 50.000. Ciò portò nuovi fervori. Grazie ad essi, per esempio, fu ricostruita la cattedrale di San Marco a Venezia e si decorarono le chiese di Santa Maria in Domna, Santa Prassede e Santa Cecilia. Provi a leggere, a tal proposito, G. Ostrorsky, Histoire de l’Etat byzantin, Paris, 1956.

E riguardo alla Sicilia?

Qui, fra l’altro, in molte città si manteneva una forte memoria cristiana, che, per esempio a Lentini, faceva capo ai tre martiri del luogo, i Ss. Alfio, Filadelfo e Cirino. A proposito, il monumento più pregevole di quel periodo che ci rimane è la Chiesa in contrada Zitone, a due chilometri di Lentini, andando a Ovest. A tal monumento bisogna aggiungere, come notò Paolo Orsi in Sicilia bizantina, una serie di grotte artificiali nei dintorni immediati, decorate da affreschi palinsesti.

Ora le chiedo se, al di là delle fioritura culturale, possiamo davvero dire che la Sicilia bizantina potè avere una sua specifica fisionomia?

Senza alcun dubbio. Gli anni di maggior splendore che il territorio siciliano conobbe durante il governo bizantino furono quelli in cui Siracusa fu sede della corte imperiale e capitale del Thema di Sicilia (sede dello stratega), sotto l’imperatore Costante. Dirò subito che sulla personalità di questa testa coronata sono state avanzate fortissime riserve da pressoché tutti gli storici. Ma, in sua difesa, mi suonano interessanti alcune osservazioni di Cettina Voza, che sottolinea il ritrovamento a Siracusa e nel suo territorio di alcuni tesori di argenteria, monete e gioielli risalenti al VII secolo e riscontra la quantità di monete emesse dalle zecche di Siracusa e Catania, che con Costante ha il massimo della produzione.

Costante, perciò, insieme a Ducezio sarebbe un altro padre dell’identità siciliana?

Anche in questo caso non bisogna forzare le interpretazioni. La vicenda di Costante cominciò quando gli arabi si affacciarono in Sicilia, cioè abbastanza presto, poiché a dieci anni appena dalla morte di Maometto, nel 643, essi si impadronirono di una sua dirimpettaia, Tripoli. Nel corso di quello stesso secolo, poi, cadde sotto l’Islam pure Cartagine, dove furono realizzati importanti cantieri navali ed impianti portuali. Così, nel 652 una prima spedizione, forse proveniente dalla Siria, poté sbarcare nell’isola agli ordini di Mo’awia ibn Hodeig, uno dei più prodi capitani saraceni, le cui gesta dettero ampia materia ai rawi, raccontatori di professione, che conoscevano a memoria l’intero patrimonio letterario.

E qui arriviamo al capitolo arabo della storia siciliana…

Già. E, purtroppo, bisogna dire che non sembra che gli arabi, né allora né dopo, quando le cose si fecero stringenti, abbiano trovato grande resistenza nelle popolazioni siciliane. Michele Amari ha scritto che gli sventurati siciliani non sentirono affatto peggiorare la loro condizione al servizio dei nuovi padroni di Damasco. Anzi, pare che fecero in fretta a dimenticare gli antichi signori, la patria, le famiglie. Comunque, l’impresa di Mo’awia suscitò un’enorme impressione nella cristianità, tanto che venne stretta un’alleanza tra l’imperatore Costante ed il papa Martino. Dopo qualche scaramuccia, però, per non restare imbottigliato nell’isola, Mo’awia-ibn-Hodeig tornò in Siria, portando via un ricco bottino di preziosi e di schiavi. L’incanto, però, s’era ormai rotto. Dimostratisi vulnerabili, i bizantini si preparavano a lasciare il posto agli arabi. Un’altra civiltà si apprestava a dare alla Sicilia i suoi ricordi (o, più esattamente, i suoi miti).

Che fine fece Costante?

Egli realizzò un voltafaccia e volse il suo fanatismo religioso e asiatico contro Papa Martino. Il pontefice venne arrestato e gettato su una barca, per essere portato, dopo infiniti strapazzi, a Costantinopoli. Qui venne processato e condannato a morte (condanna poi tramutata in esilio a Cherson, sulla riva nord del Mar Nero, dove l’infelice morì pochi mesi dopo). Nel frattempo, gli arabi tornarono a farsi audaci e nel 655 minacciarono la stessa Costantinopoli. Si dovette, perciò, affrontarli in battaglia nelle acque prospicienti la Licia. Ma, nonostante la schiacciante superiorità numerica (pare di almeno settecento navi contro duecento), l’esercito bizantino venne pesantemente battuto, tanto che lo stesso Costante riuscì a stento a scappare. La sconfitta, però, non lo rese più saggio, dato che ebbe modo di dare nuove prove della sua crudeltà, tiranneggiando il popolo ed arrivando ad uccidere il fratello, sospettato di congiurargli contro. A questo punto, diventatagli odiosa Costantinopoli, decise di venire in Italia, a far guerra ai longobardi, lasciando la moglie e i figliuoli in ostaggio al popolo tumultuante. Arrivò nel 663 e fu sconfitto pure dai barbari, per cui, passato da Roma (giusto il tempo di fare qualche razzia, di cui la più grave fu il furto delle tegole d’oro del Pantheon), venne a chiudersi a Siracusa, elevandone il ruolo a capitale. Se, però, il governo di Costante poteva essere guardato con qualche simpatia da siracusani, catanesi e gente limitrofa, non pare che altrettanto possa dirsi sui sentimenti di tanti, di troppi altri siciliani. Così, si racconta che nel 668, entrato un giorno nel bagno di Dafne, il gentiluomo che lo serviva, un certo Adrea figlio di Trailo, gli versò addosso un vaso d’acqua bollente e lo finì, colpendolo in testa con lo stesso vaso. Con lui moriva per sempre il ruolo primario che, a fasi alterne, Siracusa aveva avuto in Sicilia e nel mondo.

E, quindi, vennero gli arabi…

L’ivasione araba vera e propria cominciò soltanto a metà di luglio dell’827, l’anno 6335 del calendario greco (dal 1 settembre 826 al 31 agosto 827), come usavano datare gli storici arabi (quando volevano riferirsi al calendario dei Rum, cioè dei bizantini). Arrivò una truppa che (ovviamente, oltre agli arabi) comprendeva berberi della Tunisia, musulmani, spagnoli e forse anche negri sudanesi. Lo sbarco avvenne a Mazzara; poi, la guerra tra cristiani e islamici seguì un percorso di avvicinamento di quest’ultimi verso la capitale, Siracusa. Nell’830/831 (cioè nel 6339 del calendario greco) arrivarono dalle parti di Catania, conquistando Mineo, da loro chiamata Minawh. Poi, nell’831/832 (6340 greco) fu presa Palermo, nell’841/842 (6350) vi fu una terribile invasione di cavallette, nell’844/845 (6353) caddero le rocche di Modica (Mudiqah per gli arabi) e nell’846/847 (6355), con la caduta di Lentini, ovvero L.tayanih, tutto il territorio all’intorno era ormai islamizzato. Nell’878 gli arabi saccheggiarono Siracusa e facilmente qualche eco arrivò nei territori all’intorno, magari in termini di profughi, dato che la sorte degli sconfitti fu terribile. Moltissimi prigionieri vennero uccisi e l’arcivescovo fu risparmiato soltanto perché svelò dove si trovava il tesoro della cattedrale. Quando l’opera della soldataglia finì, come ha scritto Denis Mack Smith in Storia della Sicilia medievale e moderna, Editori Laterza, Bari, 1970: “si disse che non era rimasta anima viva in una città che una volta era stata rivale di Atene e di Alessandria e che superava di gran lunga la Roma contemporanea in ricchezza e splendore.” L’ultimo importante avamposto cristiano, quello di Taormina, cadde nel 902 e, infine, l’ultimo focolaio di resistenza organizzata, quello di Rometta, fu spento nel 965.

Sembrerebbe che con gli arabi l’identità siciliana sia arrivata al capolinea.

Credo proprio di no, invece. Gli arabi spostarono la capitale a Palermo e inserirono l’isola nel vasto circuito del mondo islamico. Ma, anche sulla loro cultura potè innestarsi il primo esempio di organizzazione statale moderna: la burocrazia del Re Federico II, figlio della normanna Costanza d’Altavilla, erede di quel Ruggiero d’Altavilla, che nel settimo decennio dell’anno Mille riconquistò l’isola alla cristianità.

Il sentimento contemporaneo di sicilianità

Bene. Possiamo cominciare ad arrivare al dunque. Esiste un’idea moderna dell’identità siciliana?

Sì e sembrerà strano, ma possiamo partire dalla recente decisione dell’Unesco di inserire il barocco del Val di Noto nel patrimonio dell’Umanità. La cosa, infatti, comporta qualche riflessione politica. La scelta delle città che sono entrate nell’elenco è già in nuce la definizione di un’area coerente, frutto di una interessante scelta urbanistica (ed economica) tipica della dominazione spagnola in Sicilia. Modica, Ragusa, Scicli, Noto, Palazzolo Acreide, Caltagirone, Militello in Val di Catania, Catania rappresentano ben tre provincie, attualmente molto differenziate tra loro sul piano infrastrutturale, ma da tempo unite su modello architettonico. Tutto nasce dallo sforzo di ricostruzione che seguì il terribile evento sismico dell’11 gennaio 1693. In quel momento fiorirono personalità di architetti che seppero progettare nuovi assetti urbanistici. Le esigenze di difesa attorno al castello medievale vennero sostituite con i concetti di decoro abitativo della nobiltà di toga, cioè dei funzionari al servizio dello stato centralizzato secentesco.

E questo può valere a dare una dimensione regionale a tale fioritura culturale?

Senza alcun dubbio, se si ha l’accortezza di collegarla col riorganizzarsi della vita economica dell’epoca. Già nel corso del Seicento, per il dinamismo dell’iniziativa economica,  erano nati nuovi centri urbani. Cito le fondazioni di Mirabella Imbaccari nel 1681 (309 ab.), di Belpasso nel 1613 (3.763 ab.), di Mascali nel 1623 (570 ab.); ed, ancora, tutte nate nel 1651, Scordia, Camporotondo, Mascalucia, Massa Annunziata, San Pietro Clarenza, Gravina. Verso Ragusa troviamo Santacroce nel 1605 e soprattutto Vittoria nel 1616, che passò dai 691 ab. dell’anno di fondazione ai 3.950 del 1681, per arrivare ai 5.668 ab. nel 1714 (da notare che l’incremento demografico continuò anche dopo il terremoto del 1693). Se, poi, ci spostiamo in tempi più recenti, più o meno all’epoca della Rivoluzione Industriale dell’Ottocento, scopriremo che il modello economico secentesco, dopo due secoli, era ancora quello dominante, anche se non era più vitale. E’ da lì che si deve partire, per capire i nostri mali e individuarne le cure.

Si spieghi meglio.

Nell’Ottocento, insieme alla borghesia, c’era ormai una coscienza proletaria. Non erano più immaginabili, né i disagi lavorativi, né i biblici spostamenti di popolazione del Seicento. Basta guardare la letteratura dell’epoca, per capire quanto il clima fosse mutato. Per esempio, in un’incantata novella di Pirandello l’aspetto degli zolfatari è già di per se stesso un grido di protesta contro i costi umani dell’espansione industriale. Qualche decennio dopo, Leonardo Sciascia estremizza la denuncia, raccontando di un legionario nella guerra civile spagnola, che si aruola perché la zolfara gli fa una tale paura, che, al confronto, la guerra gli sembra una scampagnata. Neppure Nino Savarese e Gesualdo Bufalino (in un testo scritto in collaborazione con Nunzio Zago) mancano di sottolineare, il primo “il senso di maleficio” che spira dalle zolfare ed il secondo il fatto che, addirittura, “difficilmente… potrebbe essere assimilato alla condizione dell’operaio del Nord lo sfruttamento disumano degli zolfatari.” Non va dimenticata, inoltre, la pittura di Renato Guttuso. Zolfara del 1955, per esempio, è un’opera che certamente supera la mera raffigurazione, per porsi come voce della coscienza civile, secondo i dettami dell’impegno neorealista. Lasciando, poi, il campo artistico-letterario, citerò il viaggiatore Gaston Vuillier, davvero sconvolgente nell’evidenziare l’orrore delle zolfare.

E qual è la conclusione?

Questa sorta d’inferno dantesco significò comunque un riflesso delle grandi e progressive trasformazioni della condizione umana portate dalla Rivoluzione Industriale. Purtroppo, ancora una volta, in questa occasione la Sicilia perse un’occasione, poiché non fu capace di inserirsi attivamente in tale processo (magari, realizzandovi le industrie per la produzione dell’acido solforico, che sarà il derivato dallo zolfo destinato ad avere le maggiori fortune). Essa si limitò ad essere fornitrice di materia prima, accontentandosi del ruolo di colonia, tanto che, in certi periodi ed in certe zone si arrivò addirittura alla monoproduzione.

Esiste qualche documentazione di ciò che dice?

Per esempio, Massimo Lo Curzio in un saggio inserito in Le vie dello zolfo in Sicilia: storia ed architettura (Roma, Officina Edizioni, 1991) ci informa che nel 1894 su 18.437 occupati nell’Agrigentino, ben 11.031 erano zolfatari. A ciò bisogna aggiungere il ributtante e sistematico sfruttamento dei bambini (infatti, nel citato caso della provincia di Agrigento i lavoratori al di sotto dei quindici anni rappresentavano il 24,06% della manodopera).

E quali erano le cause di un tale disastro?

Forse, il male era nei presupposti, cioè nella rapacità degli investitori del tempo, se si nota che il primo vero imprenditore che propose una raffineria, per superare le crisi di sovraproduzione di zolfo, il francese Taix, tentò subito un’accentrazione da monopolista, come si evince dalla richiesta che nel 1833 inoltrò al governo borbonico. Riuscì soltanto ad ottenere in enfiteusi perpetua un terreno demaniale presso il porto di Agrigento, per impiantarvi una macchina ermeticamente chiusa, capace di produrre zolfo raffinato e fiore di zolfo. Ma, purtuttavia, le sue intenzioni sono già esplicitative di tutto lo spietato sfruttamento che sopravvenne. E pare che ancor oggi, al di là dei luoghi comuni, la mentalità sia sempre quella: il mero sfuttamento, senza prospettive.

Da qui la necessità di un progetto politico siciliano. O sbaglio?

Non sbaglia, a patto che si abbiano chiari in testa i termini in cui, oggi come oggi, si può parlare di rogetto politico. Il liberalismo ed i suoi figlioletti, il comunismo ed il fascismo, sono morti. Siamo, ormai, nel post-contemporaneo.

Provi a spiegare meglio…

Incomincio da lontano: un articolato saggio di Pierfranco Bruni, a commento delle idee di Octavio Paz intorno ai concetti di modernità, contemporaneità ed attualità, se non altro, mi ha confortato sugli interessanti sviluppi che avrebbe un pensiero non omologato. Dal 1989, dopo la morte del comunismo, è rimasto vivo il suo punto di contatto con la civiltà del grande capitale: il pensiero unico. Chi resta fuori nell’immediato si piglia un’unica libertà, quella della provocazione (che qualche volta diverte; ma, quando si fa pericolosa, porta soltanto all’isolamento).

E quindi?

Quindi, il nostro impegno di non omologati dovrebbe essere quello di attrezzarci a tempi molto lunghi, magari partendo da una ragionata ed alternativa spiegazione della storia. Attenti, ripeto: spiegazione della storia; quindi, del già avvenuto, poiché è proprio dietro i pretesi percorsi logici del futuro che si annida la truffa dell’ideologia. Senza per questo rinunciare, come vuole Bruni, al valore dell’utopia. “La grande contraddizione” egli scrive, “è che si sono mischiate, senza alcuna spiegazione o giustificazione, le ideologie con le utopie. E non ci si sarebbe dovuti ridurre a tanto. Perché c’è una differenziazione di fondo, in quanto le ideologie finiscono e si bruciano appunto nella modernità, mentre sono le utopie che danno futuro ai significati della modernità”(in Il Secolo d’Italia” del 25/2/1999).

Cosa intende per ideologia?

Penso che l’ideologia rappresenti un intero periodo storico. L’età delle ideologie, che altri chiamano età contemporanea, cominciò con la rivoluzione francese. Quindi, nel 1789 nacque e nel 1989 è morta (il comunismo è stato la sua febbre senile). Ciò perché nel rogo del palazzo presidenziale di Ceausescu svaniva l’ottimismo storico, cioè la premessa stessa d’ogni idea di rivoluzione. Con esso sono andati via pure i concetti di progressismo e di conservatorismo, insieme agli immaginari collettivi che per due secoli hanno mosso i popoli. Di colpo, s’è resa chiara la crudele inanità dei bagni di sangue a cui portano le ideologie. Nazismo e comunismo, in materia, furono facce della stessa medaglia. Ma, direi che neppure il capitalismo ci è andato leggiero.

E quale sarebbe l’alternativa alle ideologie?

E’ troppo presto per disegnare il volto del futuro, anche se ormai ci siamo dentro. E’ una situazione strana, la nostra: le idee che pensavamo contemporanee non ci appartengono più e non abbiamo ancora le idee che avremo. Finito il pensare contemporaneo e non ancora nato quello nuovo, viviamo nell’interregno (speriamo breve) dell’attuale. Qualcuno ha già tentato di definirlo. Francois-Henri De Virieu ha scritto che, dopo la rivoluzione informatica e con lo strapotere dei mass-media, c’è stato l’affermarsi della mediacratie: il potere passa sempre più da chi detiene i capitali a chi controlla l’immagine. In ogni caso, andiamo verso una situazione diversa. Abbisognano, quindi, nuovi strumenti di comprensione politica. Liberismo o socialismo di per sé risultano termini fuorvianti. Oggi la partita si gioca sui valori etici e sulla specificità dei territori.

Beh, in fondo anche questa mi sembra una proposta ideologica.

Forse, ma di sicuro, la mia, è un’ideologia di tipo nuovo, dato che rifiuto ogni velleità rivoluzionaria. La rivoluzione è stata la vera ideologia dell’era contemporanea.

E su quali basi lo sostiene?

Spesso (quasi sempre, forse sempre) l’arte contemporanea è stata rivoluzionaria. Pensi, per esempio, all’abnorme fiorire delle avanguardie. Ecco perché posso dire che la rivoluzione (della quale le tante rivoluzioni storicamente affermatesi sono state i singoli capitoli) è durata esattamente due secoli. Posso dire, ancora, che soltanto adesso se ne può tentare uno studio definitivo. Sui periodi storici, come sugli uomini, il giudizio si dà dopo la perfezione della morte.

Eppure, ci sono sempre state le rivoluzioni nei secoli. Lei stesso ha parlato di Ducezio e di Salvio…

Non bisogna confondere la rivoluzione con la rivolta, o con la mera ribellione (cose che ci sono state e ci saranno sempre). La rivoluzione testé morta affermava la preminenza del progetto sugli uomini. Quando ci sono stati ostacoli ha usato il Terrore (o i gulag, o i lager). La rivoluzione, per mentalità, se non usa la forza fisica, fa terrorismo con le parole, punta al pensiero automatico. Con le parole, inoltre, concilia l’inconciliabile. Mette insieme la libertà col pensiero unico, le idee di uguaglianza con la gerarchia più rigida. Infatti, nelle ultime accensioni rivoluzionarie, il Sessantotto ed il Settantasette, la parola individualista era pressocché un insulto.

Ma, se il comunismo è ormai morto. Che senso hanno i suoi anatemi contro le ideologie?

Purtroppo, se storicamente il comunismo ha rappresentato la parte schizzofrenica del mito rivoluzionario, il capitalismo ne è stata la più coerente incarnazione. Ci ha dato la macchina a vapore, il balzo tecnologico, la bomba atomica, lo sbarco sulla Luna e, soprattutto, i continui ribaltamenti della moda. La borghesia vive di pane e rivoluzione. Infatti, per aumentare produzione e mercato, c’è una perenne ricerca del nuovo, soprattutto nel campo della tecnologia. La rivoluzionaria borghesia, come giustamente sostenne Marx, per la sua logica intrinseca, aveva in se stessa i germi di tutte le rivoluzioni contemporanee. Il risultato è che, a furia di cambiare, l’uomo è diventato una mera immagine, senza sostanza. C’è soltanto l’apparire e non c’è più l’essere.

Come se ne esce?

La storia non ama gli eccessi di sintesi e perciò bisogna ritrovare una mentalità critica, magari passando dalla società dell’individualismo alla società degli individui. Mi piacerebbe che tutti diventassimo un po’ artisti. L’arte è lo strumento migliore per capire i tempi.

Pensavo che l’arte fosse soltanto bellezza.

I percorsi dell’arte e della letteratura nascono dalle tante risposte ad una problematica comune. Senza con ciò, naturalmente, propugnare una posizione critica che vede l’arte come rispecchiamento della realtà, secondo la definizione di Gyorgy Lukàcs. A fare grande l’arte, infatti, è la forte personalità dell’autore (addirittura imperialistica riguardo ai punti di vista e perciò destinata a diventare pensiero comune). La rivoluzione, se non è la spiegazione esaustiva della produzione letteraria degli ultimi due secoli, è un buon dato di partenza. Oggi l’arte dovrebbe legarsi di più alle condizioni dei luoghi.

L’arte e la politica…

Ovviamente. La novità che attendo è una politica che faccia le sue proposte nel concreto della realtà siciliana.

Che cosa propone, allora? La versione meridionale della Lega Nord?

Ho in mente tutt’altra cosa, invece. L’identità siciliana che voglio proporre poggia sull’idea di una insularità aperta, il che è un concetto ben diverso dal rivendicazionismo rancoroso – o, peggio, dalla xenofobia – dei troppi movimenti localistici che agitano le scene politiche nazionali.

Bene. Ora mi dice che significa insularità aperta?

A mio parere, l’insularità siciliana non può essere interpretata come sentimento di estraneità rispetto ai dirimpettai continentali. Condivido abbastanza, per esempio, la riflessione di Giovanni Gentile, che negava l’idea di una cultura siciliana sganciata dalla cultura italiana. Ma, ad essa aggiungo la constatazione che la Sicilia, non soltanto ha avuto molto dall’Italia e dall’Europa, ma ha pure dato moltissimo. Rivendico a tal proposito la dimensione europea delle nostre migliori espressioni culturali.

Così, sarebbe il prestigio intellettuale ciò che rende aperta l’insularità siciliana?

Non soltanto esso. Dico una banalità, ma è indubbio che nella nostra mentalità può leggersi una grande capacità di assimilazione e di rielaborazione originale delle disparate civiltà che, come abbiamo visto, nei secoli hanno transitato nell’isola. La migliore Sicilia, così, ha operato per aprire ed allargare gli orizzonti mentali degli altri popoli, spesso anticipando le nuove sensibilità sociali.

E cosa ne consegue?

Ne consegue che non si vogliono voltar le spalle, né all’Italia né all’Europa. La Sicilia non è l’Inghilterra, non ha mai coltivato il mito dello splendido isolamento. Per posizione geografica, l’Inghilterra è spesso tentata di guardare ben oltre il continente europeo. Il suo mare l’ha proiettata verso l’oceano. La porta del Mediterraneo per essa è Gibilterra, un luogo a sua volta decentrato. Da qui, il suo guardare ai popoli extra-europei ed il suo chiudersi rispetto a quelli europei: c’è stato il colonialismo ieri ed oggi c’è il suo rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. La Sicilia, al contrario, posta proprio al centro del mar Mediterraneo, ha tratto ricchezza dal contatto e dalla contaminazione fra i popoli. La sua cultura si è articolata sui commerci, che, fin dall’antichità, hanno vivificato le coste del mare nostrum. La sua vocazione storica non è, e non può essere, quella di contrapporsi alle genti che la circondano. La Sicilia, piuttosto, ha il compito di mettere in contatto l’Europa con l’Africa e con l’Asia. Nel suo grembo possono e debbono dialogare il cristianesimo e l’islamismo, o l’islamismo e l’ebraismo.

E tutto questo può diventare un progetto politico, o almeno una proposta pratica?

Si potrebbe partire dal simbolo forte di un grande aeroporto intercontinentale, servito da rapidi collegamenti via mare con le città che si affacciano sulle opposte sponde del Mediterraneo.

Non sarebbe un negare la nostra vocazione europea?

Più che negare l’Europa, voglio un nostro specifico ruolo dentro l’Europa. Per secoli la Sicilia è stata una specie di lavagna sulla quale molti hanno scritto e molti hanno cancellato. Dagli insediamenti pastorali dei sicani e  dei siculi, su su per le epoche, fino ad arrivare al passaggio delle truppe anglo-americane, chi l’ha dominata ha preteso di farle indossare i suoi abiti culturali.

La Sicilia come un personaggio pirandelliano, dunque?

Mica tanto. Sulla lavagna-Sicilia c’è incisa pure una bianca, particolarissima ed incancellabile rigatura. E’ vero che vi sono state scritte parole straniere, ma sempre su quella rigatura esse dovevano appoggiarsi ed a quella rigatura dovevano adattarsi; senza contare il fatto che man mano le parole venivano cancellate e sostituite, mentre la rigatura restava indelebile. Ecco perché, dopo le promesse dei politicanti, dopo le chiacchiere dei giornalisti e dopo le canaglierie dei demagoghi resta l’impassibilità della lavagna-Sicilia, con la sua bella ed immutabile rigatura.

Impassibilità o scetticismo?

L’impassibilità è una cosa ben diversa dallo scetticismo, concetto che in qualche modo potrebbe essere assimilato alla sicilitudine di sciasciana memoria (vera e propria dimensione dell’anima caratterizzata dalla “solitudine” di chi pensa che nulla possa mai cambiare). I siciliani non sono scettici, cioè privi di strategie per migliorare la vita. Essi, al contrario, seguono strategie concretissime. Ecco perché restano interiormente impassibili davanti al corollario degli imbonitori di turno. Pur omaggiandoli all’esterno, i siciliani in cuor loro se la ridono degli slogan e delle frasi fatte. Diffidano, soprattutto, dei fuochi d’artificio verbali, che paiono colorare di sé l’intero universo, per scomparire subito e lasciare il buio più buio.

E che sbocchi ha, perciò, codesta impassibilità?

Proprio l’impassibilità è stata la grandezza dell’isola. Essa, fra l’altro, ha impedito che, dopo le burrasche delle presenze straniere, si avessero i cosiddetti bagni di sangue. Durante il secondo conflitto mondiale e nel successivo lunghissimo dopoguerra, per esempio, non ci furono assassinii di massa perpetrati dai contendenti. Non ci fu nulla, in ogni caso, che possa essere paragonato al triangolo della morte dell’Emilia. Nessun steccato d’odio ha irrimediabilmente diviso i vinti dai vincitori.

E non potrebbe essere, questa, una molto più prosaica insensibilità verso le grandi battaglie ideali della storia?

Per nulla, dato che pure la concretezza amministrativa sarebbe già un bel ideale. Ogni azione si giudica dai risultati, mica dalle parole. Ed, a tal proposito le dico che persino la tanto vituperata classe governante borbonica, quella dei Decurionati e delle Intendenze, ha saputo guardar oltre le miopie ideologiche ed è stata addirittura esemplare. Basterebbe citare la gran quantità di LavoriPubblici che, stando alle carte d’archivio e al di là dei luoghi comuni risorgimentali, ci fu nei nostri centri nella prima metà dell’Ottocento. In questo senso, forse, pur non dimenticandone i limiti, andrebbe recuperato il tentativo di concretezza amministrativa ipotizzato nel milazzismo.

Dunque, la concretezza amministrativa come antidoto alle ubriacature ideologiche?

Più o meno. Bisogna stare attenti, infatti, a non cercare di capire l’anima profonda dell’isola soltanto leggendo i documenti ufficiali. I concetti che lì si esprimono spesso sono rimasti sostanzialmente estranei al sentire della gente. Quando le bocche parlavano i cuori erano altrove. Magari, i cuori guardavano gli interessi (cercavano, cioè, quella solidità del vivere, che non è il mero desiderio d’arricchimento; ma il bisogno di mettersi al riparo dai capricci della vita e della storia). Va detto pure, a questo punto, che gli interessi dei siciliani non si fermano alla singolarità dell’individuo, ma coinvolgono almeno la famiglia. E nei casi migliori la comunità di appartenenza.

Beh, se debbo essere sincero, io non sarei tanto ottimista. Se c’è un popolo di individualisti diffidenti, quello è il popolo siciliano.

Crede? A me sembra, invece, che, lungi dall’essere diffidente, la mentalità siciliana sia pragmatica. Pensa, per esempio, che la mafia non può essere combattuta  a forza di concerti, di sfilate folcloristiche, di teoremi politici. Anzi, queste cose spesso fanno diventare la lotta alla mafia una specie di divertimento, una lotta di parole, un gioco di definizioni. A furia di giocare così, si finisce addirittura per risultare utili alla mafia. La mafia, per la sua natura liquida, sa presentarsi nelle forme più impensabili. Basti vedere cosa è successo con la gestione dei pentiti. Molto più efficace sarebbe una normativa più adeguata per rendere trasparenti gli appalti, le politiche bancarie, i percorsi burocratici. Senza, ovviamente, trascurare il momento repressivo.

Messa così, sembrerebbe quasi il manifesto di un nuovo partito politico.

E perché no? Il senso dell’insularità aperta siciliana ha una finezza politica già di fatto post-ideologica. L’amor di concretezza che ne governa l’agire viene dalla storia (troppe se ne sono viste), ma anche dalla geografia. Posta, come si è già detto, al centro dell’universo mediterraneo, questa terra è stata il luogo dove hanno coesistito culture che si sono combattute fra loro. Il suo futuro, perciò, non può risiedere che nel suo passato. Per realizzare un tale strategia, però, la Sicilia deve fare un salto di qualità: deve ragionare in termini di nazione.

Ahi, ahi, ahi… Non vorrà mica tornare al separatismo?

Non mi faccia tanto ingenuo. Chiarisco subito che l’idea di nazione siciliana non può essere intesa in termini separatisti. Non voglio rinnegare la nostra italianità, ma voglio rivendicare una pari dignità tra la Sicilia e l’Italia. La sicilianità è cosa ben diversa dal sicilianismo, fatto di storie raccontate in chiave apologetica e di ribellismi inconcludenti. Penso addirittura, che per paradosso il sicilianismo esagitato finisce per coincidere con la sicilitudine pantofolaia. Il velleitarismo del sicilianismo e lo scetticismo della sicilitudine, non avendo un progetto politico, non hanno sbocchi e, quindi, diventano i migliori alleati della conservazione.

Le basterebbe, allora, la semplice autonomia? Ma quella la vogliono tutte le regioni italiane, mica soltanto la Sicilia.

Ed hanno ragione, almeno amministrativamente parlando. La maggiore ricchezza dell’Italia sta proprio nella coesistenza di una pluralità di centri culturali creati da una millenaria storia. Da Roma a Milano, da Pavia a Ravenna, da Firenze a Venezia, da Napoli a Torino, a Parma, a Modena, a Urbino… sarebbe una lista lunghissima quella che volesse elencare le città che in Italia sono state capitali. Questo impone un forte decentramento amministrativo. Lo prevedeva persino il fascismo, nella versione sansepolcrista del suo programma Attento, però, a non confondere il regionalismo, o il municipalismo addirittura, col federalismo. Quest’ultima forma di Stato è quella che ci vuole per la Sicilia.

Si spieghi meglio.

Il federalismo ha giustificazione storica soprattutto se ci si riferisce alla Sicilia. A differenza delle altre città italiane, espressioni di culture molto municipalistiche, dalla dominazione romana in poi, la Sicilia non è espressione geografica, ma un vero e proprio sentimento di appartenenza. Magari, sono cambiate le capitali (Siracusa, Palermo, Troina, Catania, Messina), ma sempre la Sicilia è stata pensata come un tutt’uno, come una Patria dall’identità definita. Patria, fra l’altro, democratica per vocazione, dato che vi è nato il più antico parlamento d’Europa.

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Pubblicato da terrazze Studio Garufi&Garufi

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi ha insegnato Lettere, Storia dell0Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie su Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini e Enrico Guarneri (Litterio).

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