Salvatore Paolo Garufi
L’olocausto della città araba di Catalfaro e la nascita di Militello nel Val di Noto
Posta nella linea di fortificazioni normanne nel territorio di Lentini – insieme a Oscina, Jetra e San Basilio, dopo la distruzione della città araba di Catalfaro
L’invasione araba cominciò a metà di luglio dell’827, l’anno 6335 del calendario greco (dal 1 settembre 826 al 31 agosto 827), come usavano datare gli storici arabi (quando volevano riferirsi al calendario dei “Rum”, cioè dei bizantini). Arrivò una truppa che (ovviamente, oltre agli arabi) comprendeva berberi della Tunisia, musulmani, spagnoli e forse anche negri sudanesi[1].
Lo sbarco avvenne a Mazzara; poi, la guerra tra cristiani e islamici seguì un percorso di avvicinamento di quest’ultimi verso la capitale, Siracusa. Nell’830/831 (cioè nel 6339 del calendario greco) arrivarono dalle parti di Militello, conquistando Mineo, da loro chiamata Minawh. Poi, nell’831/832 (6340 greco) fu presa Palermo, nell’841/842 (6350) vi fu una terribile invasione di cavallette, nell’844/845 (6353) caddero le rocche di Modica (Mudiqah per gli arabi) e nell’846/847 (6355), con la caduta di Lentini, ovvero L.tayanih, tutto il territorio all’intorno era ormai islamizzato[2].
Nell’878 gli arabi saccheggiarono Siracusa e facilmente qualche eco arrivò nell’attuale territorio militellese, magari in termini di profughi, dato che la sorte degli sconfitti fu terribile. Moltissimi prigionieri vennero uccisi e l’arcivescovo fu risparmiato soltanto perché svelò dove si trovava il tesoro della cattedrale.
Quando l’opera della soldataglia finì, “si disse che non era rimasta anima viva in una città che una volta era stata rivale di Atene e di Alessandria e che superava di gran lunga la Roma contemporanea in ricchezza e splendore”[3].
L’ultimo importante avamposto cristiano, quello di Taormina, cadde nel 902 e, infine, l’ultimo focolaio di resistenza organizzata, quello di Rometta, fu spento nel 965.
I tempi della dominazione musulmanna videro fiorire ai margini della Piana di Catania la città di Catalfaro. Essa, infatti, venne citato dal geografo ‘Abu ‘Abd ‘Allah Muhammad ‘ibn Muhammad ‘ibn Abd Allah ‘ibn ‘Idris, che gli occidentali hanno chiamato Edrisi, nel suo Kitab nuzhat ‘al mustaq…, ovvero Libro del sollazzo per chi si diletta di girare il mondo.
Eccone le parole esatte:
“Da Lentini alla Qal’at Minau (comune di Mineo), per ponente a mezzogiorno, ventiquattro miglia. Mineo, bella rocca tra i monti di Vizzini, è circondata di sorgenti, abbonda di campi da seminare, di frutte, di latticini ed ha terre di ottima qualità. Da Mineo a Vizzini quattordici miglia per mezzogiorno. Da Mineo a Caltagirone dieci miglia per ponente. Da Mineo a Qal’at ‘al Far (La rocca del topo) tre miglia per tramontana…”
Un’altra citazione di Calthaelfar, aggiunse Michele Amari, commentando in una nota il sopra riportato brano. La troviamo in un diploma del XI secolo. Se teniamo conto che l’attualmente vicina città di Militello in Val di Catania non si trova citato, vien facile concludere che allora esso era soltanto un insediamento di poche case e di nessuna importanza. Il riferimento urbano era Catalfaro. Ciò, a maggior ragione, se pensiamo alla natura del genere letterario di cui Edrisi fu insigne rappresentante. Infatti:
“La letteratura geografica (…) nasce da itinerari (masalik) formatisi per bisogni commerciali oltre che politici e religiosi, e allaccianti in una fitta rete di strade le varie regioni dell’Impero. Per queste strade passano i mercanti, nerbo della vita economica medievale, che trasportavano da un capo all’altro del territorio islamico e anche oltre, tra gli Infedeli, i prodotti dell’agricoltura e dell’industria arabo-musulmanna.”
Fra l’altro, Edrisi non risulta l’unico autore arabo che cita Catalfaro. Quando descrivono questa parte della Sicilia, ne parlano praticamente tutti. Ne parla, soprattutto, ‘Al ‘Umari, detto pure ‘Ibn Fadl ‘Allah, segretario damasceno, citandola fra le rocche più importanti di Sicilia (per la zona del Calatino, insieme a Caltagirone e Mineo).
Catalfaro, perciò, restò nella memoria come una fiaba araba, o, se volete, come la metafora della creatività umana distrutta dalla vorace brama colonialista della quale è stata oggetto la Sicilia.
Ciò, evidentemente, comporta la conseguenza di uno spostamento della fondazione della città di Militello in Val di Catania a una data molto posteriore a quella d’epoca romana inattendibile e capricciosa storiografia barocca. Il suo castello può farsi risalire alla politica di nuovi insediamenti cristiani, dopo l’arrivo dei normanni in Sicilia nel 1078, magari subito dopo la distruzione della roccaforte araba di Catalfaro.
Una ulteriore dimostrazione è data dal locale dialetto, che è una vera e propria isola linguistica palermitana, giustificata dal fatto che i nuovi insediamenti avvenivano con trasferimenti in massa di servi della gleba al seguito dei baroni.
Del Castello oggi restano soprattutto una torre e una porta.
Il primo Signore di cui ci resta il nome dimostra che il suo territorio era considerato una semplice parte del contado di Lentini. A differenza di quanto indicato nella corriva storiografia, la prima autorità sull’intera zona fu, nel 1154, Manfredi di Policastro.
Le cronache ci parlano di un Simone conte di Policastro. … che ebbe due figli, Manfredi e Ruggiero e una figlia.
Nel 1282 troviamo Teodoro Da Lentini, regio ministro.
Seguì Lanfranco (più correttamente, Alafranco Lentini) da San Basilio, che possedette pure i castelli di Oscina e di Jetra (forse, stando al significato della parola jetra nelle comunità albanesi trasmigrate in Sicilia, traducibile col genitivo “di vite”, stava a indicare il territorio sopra la contrada “Vignazza”, che poi lo scrittore secentesco Pietro Carrera nobilitò grecizzando il nome Ambelia. Non a caso, la parte alta di tale territorio viene ancora oggi chiamata U Castidduzzu).
Non si sa per quale ragione Ruggero II diede il feudo all’archimandrita di Messina. Nel 1283 un Giovanni di San Basilio figura tra gli “equites” di Lentini chiamati al servizio da re Pietro I. Il “dominus” (signore/condottiero in guerra) Alafranco Lentini (di San Basilio) l’11 febbraio 1300 aveva ricevuto l’investitura di Pettineo e risultava stratigoto di Messina (l’8 agosto 1320) e giustiziere di Palermo nel 1326-27 e nel 1328. Il 23 novembre 1331 la R.C. rilasciò una cedola con la quale si dettavano le modalità di scambio tra il casale Pettineo di Alafranco di San Basilio e il casale Convicino (Barrafranca) di Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, “nel rispetto delle prerogative feudali di Pietro d’Antiochia, signore di Mistretta, nella cui baronia rientrava Pettineo”. Il 7 marzo 1332 con rogito del notaio Nicola Sammarata di Polizzi, avvenne tra i due feudatari lo scambio di Pettineo con Convicino. Nel 1332 un privilegio di re Federico III d’Aragona confermò i termini della permuta dei due casali (cancelliere Pietro di Antiochia). Nella Deputazione Feudale del 1335 figurava titolare dei feudi Siccafari (in Val di Noto presso Licata), Comitium (Convichino, attuale Barrafranca) e San Basilio (in Val di Noto e territorio di Lentini) che gli assicuravano un reddito di 264 onze annuali. Successivamente, in virtù delle ultime volontà testamentarie di Alafranco di S. Basilio, i suoi fidecommissari furono incaricati di vendere Convicino e Siccafari per soddisfare i molti legatari testamentari, e solo con un certo ritardo, dovuto all’assenza di Manfredi Chiaramonte che era uno dei suoi fidecommissari, si giunse alla vendita dei suddetti feudi. Il 23 dicembre 1337 fu emanato un decreto da parte della Magna Regia Curia (MRC) che permise il 28 dicembre 1337 la stipula dell’atto pubblico di vendita del casale Convicino ad Abbo Barresi. L’8 dicembre 1337 il re Pietro confermò la suddetta vendita.
Alafranco morì senza figli e gli successe nel feudo di San Basilio il cugino Alaynuccio di Alaymo (o di San Basilio o Aloisio de Santo Basilio) che comparve nell’adoa del 1345 domiciliato a Lentini e tassato per 3 cavalli armati (equivalenti a un reddito di 60 onze). Parisia, moglie di Alaymo di San Basilio, possedette Ucria, ma per la continuata dimora di quest’ultima fino al termine della sua vita presso i nemici angioini di Lentini ed altri luoghi, il casale venne devoluto al fisco. Nel 1354 fu assegnato a Ruggero Lamia.
Alafranco Lentini figlio di Alaynuccio(?) e la moglie Venturella vendettero nella V Indizione 1366-67 a Enrico di Santo Stefano il feudo Visamino (Val Di Noto, in territorio di Caltagirone), appartenente a Venturella. Il 17 aprile 1370 furono chiamati a corrispondere lo “ius decime” per la vendita dei feudi Viscara (o Biliscara) e Ribichino (o Libellini) (in val di Noto) a Pietro Capoblanco.
Il nipote Giacomo di Lentini ottenne la conferma del privilegio per San Basilio. Nel ruolo feudale del 1408 signore dei feudi di San Basilio e Luculo (?) figurava Antonino Lentini di San Basilio. Nel 1453 per atto della camera reginale, il feudo di San Basilio, Cucco e Castellana, era di Antonio di Lentini, padre di Alafranco ed avo di Giacomo che ottenne la conferma del privilegio dalla regina Maria. Successivamente figura un Giacomo Lentini di San Basilio la cui figlia sposò Angelo Balsamo (1506). Da questo momento la Famiglia Lentini perde il titolo di Barone di San Basilio poiché il 14 marzo 1641 Pietro Balsamo comprò dalla Regia Corte, per la somma di 500 scudi, l’investitura del mero e misto impero, ottenendo i feudi su indicati che risultano staccati dal territorio di Lentini.
Il barone D. Giuseppe De Cristofaro, padre dell’arciprete Don Mario, nel marzo del 1818 comprò dal principe di Cattolica (Giuseppe Bonanno Branciforte ? – figlio di Francesco Antonio e di Caterina Branciforte Pignatelli, figlia di Salvatore, principe di Butera) il feudo di Castellana, dove sorge San Basilio, per il prezzo di 20.000 e 10 onze. Ottenne la relativa investitura con il titolo di Barone di San Basilio e fu l’ultima investitura a causa dell’abolizione della feudalità (^ Monte San Basilio (Lentini) …Un sito dimenticato.., su Monte San Basilio (Lentini) …Un sito dimenticato… URL consultato il 18 ottobre 2022.)
Infatti, si ha notizia di una presenza della signorìa dei Lentini con Alaimo Da Lentini. Di lui si racconta nell’Enciclopedia Treccani:
Nato, probabilmente a Messina, nella prima metà del sec. XIII, fece la sua prima comparsa nella vita politica siciliana partecipando nel 1254 alla congiura contro Manfredi. Esiliato, si distinse, nel 1268, quale fautore degli Angioini, nella repressione dei seguaci di Corradino; nel 1271 fu nominato consigliere e familiare regio, e nel 1274 giustiziere del principato e del territorio di Benevento. Nel 1279 A. era nuovamente a Messina quale esponente della secrezia. Con la rivoluzione del Vespro si schierò con i fautori dell’autonomia isolana, sotto la protezione del pontefice. Dopo la sconfitta del 24 giugno 1282, presso Milazzo, del primo capitano di Messina, Baldovino Mussone, venne acclamato capitano della città, che seppe validamente organizzare per resistere al blocco iniziato da Carlo d’Angiò il 25 luglio. Di fronte all’intransigenza pontificia verso i ribelli siciliani ed al fallimento delle trattative condotte dal legato Gherardo da Parma, nell’impossibilità di difendere validamente da solo l’autonomismo delle Communitates Siciliae e di resistere alla sempre crescente pressione delle forze angioine, anche A., come i Palermitani, decise di rivolgersi a Pietro d’Aragona, che il 22 ottobre lo nominò maestro giustiziere a vita del Regno. Da questo momento accrebbe sempre più il suo ascendente sui Siciliani e anche per gli intrighi della moglie, Macalda di Scaletta, presso la corte aragonese, ottenne dal re concessioni di feudi, lo accompagnò nella spedizione in Calabria e riuscì a risolvere favorevolmente la prima rivolta antiaragonese di Gualtiero di Caltagirone. Così che Pietro III, quando tornò in Aragona, affidò a lui la tutela dei figli e della moglie. A. seppe dimostrare la sua fedeltà alla nuova casa regnante col sedare definitivamente la nuova ribellione di Gualtiero, che fece condannare a morte (1283). Tuttavia la popolarità di A., il suo passato e le intemperanze della moglie, gli suscitarono contro l’accanita ostilità di Giacomo Il e la gelosia di molti. Sotto l’accusa di tradimento, venne fatto partire per l’Aragona (19 nov. 1284), ma finché durò in vita Pietro III, sinceramente a lui legato, l’accusa lanciata senza prove convincenti poté essere respinta. Morto però re Pietro, Giacomo Il ottenne dal fratello Alfonso III credito alle presunte prove di colpevolezza e la consegna di A., che inutilmente chiedeva di essere sottoposto a regolare giudizio. Pertanto, nell’agosto del 1287, A. ed il nipote Adenolfo di Mineo furono consegnati agli inviati di Giacomo, Gilberto de Castelletto e Bertrando de Cannellis. Sulla nave che avrebbe dovuto ricondurli in patria, fu letta ai prigionieri la sentenza di morte; poi, in vista delle coste siciliane, entrambi vennero buttati a mare.
Fonti e Bibl.: G. La Mantia, Codice diplomatico dei re aragonesi di Sicilia, I, Palermo 1918, pp. 16, 17, 18, 19, 21, 22, 24, 52, 66, 116, 117, 119, 158, 162, 163, 164, 165, 200, 201, 327, 328, 342, 343, 344, 345, 354, 386, 387, 391, 392, 393, 407, 420, 430, 445, 543, 545,560; Bartolomeo da Neocastro, Historia sicula, in Rer. Italic. Script., 2 ediz., XIII, 3, a cura di G. Paladino, passim;Saba Malaspina, Rerum Sicularum… Historia, in L. A. Muratori, Rer. Italic. Script., VIII, Mediolani 1726, passim; Due cronache del Vespro in volgare siciliano del sec. XIII, in Rer. Italic. Script., 2 ediz., XXXIV, 1, a cura di E. Sicardi, passim; G. Zurita, Anales de la corona de Aragon, Zaragoza 1585, pp. 249, 250, 294; M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, Milano 1886, I, passim; II, pp. 84-93, 174-179; O. Cartellieri, Peter von Aragon…, Heidelberg 1904, pp. 114, 123, 157, 158, 160, 161, 176, 180; O. Argegni, Condottieri, capitani, tribuni, I, Milano 1936, p. 24.
Ci restano, poi, i nomi di Bonifacio e Giovanni di Cammarana.
E, finalmente, si arriva alla prima signoria stabile nel 1318, coi Barresi.
[1]fr. Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, Editori Laterza, Bari, 1970.
[2]Anonimo della metà del 900 (quasi sicuramente, secondo Michele Amari, un cristiano, probabilmente siciliano, forse vissuto a Palermo, segretario o computista di un diwan dei principi Kalibiti dell’isola), Tarih gazirat Siqilliah (altrimenti chiamata Cronica di Cambridge), traduz. di Michele Amari, in Michele Amari, Biblioteca arabo-sicula, Ermanno Loescher, Torino e Roma, 1880 (ristampa anastatica: Dafni, Catania, 1982), vol. I, p. 278.
[3]Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, op. cit., p. 11.