Salvatore Paolo Garufi, “Illuminismo, riforme e logge massoniche sotto i Borbone”

Salvatore Paolo Garufi, “Illuminismo, riforme e logge massoniche sotto i Borbone”

Riformismo illuminista e Logge massoniche

di Salvatore Paolo Garufi

I

Nella seconda metà del Settecento la Sicilia conobbe grandi novità, grazie all’opera del viceré Domenico Caracciolo e del suo successore, il massone Francesco Maria d’Aquino, principe di Caramanico. Essi erano i politici ammirati dall’ davvocato Alfio Natale ed ogni sua parola si rifaceva alle loro idee, come spiegò al figlio, il giorno in cui decise di ammettere suo figlio nella massoneria.

Erano nella libreria della casa di Militello, una stanza a pianterreno, indipendente dal resto della casa, dove don Alfio riceveva clienti e massari. Il locale era ampio e godeva di una certa frescura d’estate, mentre d’inverno – essendo, come dicono da quelle parti, alla sulicchiatura, cioè sotto lo sguardo del Sole (Sole + occhiatura) – per riscaldarlo bastava un piccolo braciere.

Per questo, don Alfio vi passava la maggior parte delle ore, studiando e scrivendo. Amante della tranquillità, l’uomo non permetteva a nessun familiare di entrarvi. Soltanto la vecchia domestica poteva andarci, verso le otto del mattino, per un po’ di pulizie. Ovviamente, l’ordine tassativo era di non toccare carte, o libri sparsi sul lungo tavolo.

Quindi, il fatto che Vincenzo, in quella mattina di febbraio, vi fosse stato ammesso era un grande privilegio. Fuori, c’era una pioggerellina fine, che picchettava il vetro della finestra e sfocava i passanti chiusi nei loro mantelli neri. Don Alfio ravvivava la carbonella nel braciere posto sotto la finestra, mentre Vincenzo stava seduto a guardarlo.

“E’ un mistero” disse. “Sono ancora in tanti a non capire il perché a Napoli abbiano voluto costringere Caracciolo, che non ne aveva alcuna voglia, a lasciare Parigi per venire in Sicilia.”

Andò allo scaffale dei libri. Senza alcuna apparente premura, trasse fuori un volume. Era un Seneca. Vincenzo lo riconobbe dalla rilegatura in marocchino rosso con le scritte dorate. “Pensa che le resistenze furono tali che Caracciolo si decise a lasciare Parigi un anno dopo la sua nomina. Giunse a Napoli nel giugno 1781, proprio quando nascevi tu, e sbarcò a Palermo nell’ottobre successivo.”

Trasse fuori dal libro una serie di fogli, alcuni dei quali ingialliti dal tempo. “Senti come si esprimeva col mio e suo amico Ferdinando Galliano. Sono parole ch’egli mi ha trascritto per permettermi di portare a termine la storia delle riforme in Sicilia, a cui lavoro da anni: Eccomi, caro amico, relegato “sur des arides bords de la sauvage Sicilie”, e sono occupato “toto marte” a procurare il bene pubblico. Ma incontro difficoltà grandi e “des entraves” ad ogni passo, forse le più forti derivano da un vizio di governo.”

Posò i fogli sul tavolo. “Il vizio di governo, figlio mio! Capisci perché è nata la massoneria? Bisogna superare il vizio di governo, mettendo finalmente al posto giusto gli uomini giusti. Da principe dei lumi qual era, Caracciolo si diede subito da fare per abbattere gli antichi simboli della superstizione, a partire dal tribunale dell’inquisizione. Così, meno di un anno dopo poté comunicare le sue novità a D’Alembert, come, ancora, l’amico Galliano ha trascritto dal Mercure de France…”

Riprese in mano i fogli e uno lo mise in cima agli altri. “E’ datata 27 marzo 1782… Je me riserve à la fin, pour la bonne bouche, de vous dire, avec un peu de vanité de ma part, l’abolition de l’Inquisition: le jour 27 du mois de mars, mercedi saint, jour mémorable à jamais dans ce pays, pour le roi Ferdinando IV, on a abattu ce terrible monstres.”

Si avvicinò al figlio, solennemente. “E, finalmente, passò al denunciato vizio di governo. Mise mano allo smantellamento del regime feudale. Cercò, in pratica, di levare quanta più terra poteva al clero ed al baronaggio e favorì un’agricoltura libera dai legami del vassallaggio. L’impresa apparve subito delicata, difficile, rognosa…”

Più di quarant’anni dopo, ormai anziano, suo figlio Vincenzo si ricordò dei giudizi che suo padre aveva espresso sul governo del viceré Caracciolo. Volle aggiungervi, perciò, una vivida rappresentazione dell’epoca, mettendola per iscritto in una lettera indirizzata al principe di Granatelli:

“I tempi del buon Gregorio erano pieni più che mai di sospetti, e stava quegli come suol dirsi tra l’incudine e il martello, baroni e Governo. I baroni, ancorché abbassati dal Caraccioli (sic), non perciò lasciavano di essere potenti, e di avere somma influenza. Lo stesso Caraccioli scrisse al D’Alembert: ho domato la superstizione, e la feudalità, ma sento che questa bestia già mi morde la mano. Il Gregorio scriveva in mezzo a queste ire per obbligo di cattedra e vivea di tale appuntamento. Non avea via di mezzo, o di stare sui riguardi, o di morire per lo meno di fame; non dico di marcire in carcere, come indi a poco cominciò a giuocarsi, dacché fu stampata la sua introduzione. Né potendo trattar bene i baroni, fu necessità di farsi dalla parte del Governo, che che avesse pensato dell’antico. Buono dunque fu il suo animo, il so per prova, perché io ancorché troppo giovane spesso lo avvicinava. Scinà, suo censore, che fu pure suo discepolo, lo trattò con somma ingratitudine, vivo e morto, senza badare al proprio sentimento, che fece chiaro in tutti i suoi scritti, e più di ogni altro nel secondo periodo dell’antica letteratura siciliana. L’articolo morale non era fatto in buona coscienza per Scinà, se vogliamo far valere il sublime amor del vero, né potea essere giudice competente.”

Ma, quando aveva ascoltato suo padre, per come erano andate le cose, Vincenzo aveva visto soprattutto la necessità di costruire una struttura di potere siciliana, che fosse forte abbastanza da riuscire a battere gli antichi privilegi: la massoneria appunto.

“Purtroppo” aveva, infatti, concluso don Alfio, “Caracciolo poté avvalersi soltanto di collaboratori napoletani. In Sicilia il lavoro era ancora tutto da fare e la provvidenza volle che, andato via Caracciolo, come viceré venisse il principe di Caramanico.”

II

Le prime logge di cui don Alfio Natale aveva avuto notizia risalivano al 1754 ed operavano sotto l’autorità della Loggia di Marsiglia. Nel 1760 esse ottenevano una nuova Costituzione dalla Gran Loggia d’Olanda.

Ma, appena sette anni dopo, molte logge passarono al rito inglese, finché non si deliberò di costituire una Gran Loggia Nazionale dello Zelo a Napoli. Questa, a sua volta, costituì quattro nuove Logge: della Vittoria, dell’Uguaglianza, della Pace e dell’Amicizia. Confermò, inoltre, due Logge dipendenti, una a Messina e l’altra a Caltagirone. In seguito, nacquero anche le logge di Catania e di Gaeta.

Da subito, la storia della massoneria borbonica si intrecciò con gli intrighi di corte. Così, contro queste logge, il 10 ottobre 1775, venne emesso un editto, che ne richiamava un altro precedente del 1751, ispirato dal primo ministro Tanucci.

Nel documento la Giunta di Stato ordinava di procedere come nei delitti di lesa Maestà, anche ex officio, e colla particolare delegazione e facoltà ordinaria e straordinaria “ad modum belli”.

La minaccia, però, non preoccupò più di tanto la fratellanza massonica. I suoi capi erano collocati troppo in alto nella gerarchia di corte, arrivando alla stessa Regina Maria Carolina. Infatti, in cima alla piramide, alla guida della Gran Loggia Nazionale dello Zelo, ci stava il principe di Caramanico, molto vicino alla sovrana.

Se, quindi, Maria Carolina poteva contare sui massoni guidati dal Caramanico e dal Duca di Sandemetrio Pignatelli, di contro ci furono due Logge a lei ostili e quella, dichiaratamente nemica, del principe di Ottajano. Ne dava un’idea un manifesto del 7 dicembre 1775:

Precisiamo ancora che in questa città si trovano anche due Logge irregolari, che non sono state da noi mai riconosciute. La ragione è d’una parte perché non sono state costituite in concordanza con i veri principi dell’Ordine, volendo essere governate da Superiori esteri, d’altra parte perché nel nostro paese sono atte piuttosto ad ostacolare i veri scopi, i loro membri essendo esclusivamente delle persone che consideriamo indegne di essere da noi accettate.

Oltre a queste due, vi è in quest’Oriente ancora una Loggia piccolissima e completamente degradata, sotto la guida del Principe di Ottajano, il quale, pur essendo stato iniziato da noi, in seguito si è lasciato trascinare dal falso orgoglio di voler essere alla guida di una Loggia.

 Attraverso diversi maneggi egli ha carpito una Patente dal Duca di Lussemburgo, il quale alcun tempo fà era qui presente, quale Grand Administrateur Général delle Logge francesi (…) Egli ha cominciato i suoi lavori irregolari con alcuni Francesi e Napoletani, e persiste tuttora, malgrado il fatto che il Duca di Lussemburgo stesso, dopo aver avuto conoscenza della vera natura delle circostanze, ha riconosciuto la nostra autorità, ritirando la Costituzione da lui concessa.

In conseguenza consideriamo la sua Associazione come una Loggia irregolare.

In un clima simile, per mettere nei guai i massoni vicini alla Regina, il 2 marzo 1776 fu organizzata nella villetta Marselli di Capodimonte la finta iniziazione di un nobile polacco (in realtà un servo, al quale era stato promesso un compenso di 200 ducati).

Sul posto si ritrovarono dieci persone, due delle quali non massoni, sei massoni irregolari e due massoni regolari (il professore di matematica Felice Piccinini ed il grecista Pasquale Baffi).

Al cominciare dei travagli, la dimora fu circondata dalla sbirraglia, al grido di Viva il Re! ed i convenuti vennero arrestati e portati nella Casa del Salvatore.

Fu, poi, redatto un curioso conto delle spese dell’operazione, destinato al primo ministro Tanucci, datato 30 marzo 1776:

Per l’incarico comunicatomi da V. E. à voce, rapporto a’ Liberi Muratori, dalli 28. del mese di Gennaio à tutto li 2. Marzo cadente, giorno della sorpresa della Loggia sopra Capodimonte, si sono spesi Docati trecento cinquanta Sette, e grana 40. E successivamente dalli 3. Marzo a tutto li 29. detto per mantenimento de’ soldati destinati alla custodia de’ Carcerati nella Casa del Salvatore, e per spese diverse, come di carboni, olio, maniglie di ferro alle stanze, funi, cati, ed altro, per mano di Carlantonio Vittoria Capitano della Giunta di Stato, come dalle note, si sono spese Docati Sessantasei e grana 92. E per vito (sic)  ai Carcerati, che sono al numero di nove, dal di 3. Marzo per tutto li 19. detto, si son pagati al Trattore Docati sessantadue e grana 89.

Nel processo contro gli arrestati il Principe di Caramanico e Diego Naselli (anch’egli vicino alla Regina) usarono le loro amicizie per arrivare ad una sentenza mite.

La difesa, inoltre, era stata affidata al brillante avvocato Felice Lioy, della Gran Loggia Nazionale.

Così, la causa prese una svolta sorprendente: l’accusatore, un certo Pallante (quello della sopra riportata nota delle spese), fu incriminato di messa in scena e, 1’11 marzo 1777, i prigionieri erano lasciati liberi.

Pallante cadde in disgrazia e il ministro Tanucci fu messo in pensione.

Per la verità, però, anche Lioy scappò misteriosamente, recandosi a Vicenza, dove conobbe e sposò la figlia del Gran Cerimoniere Francesco Modena, della Gran Loggia di Venezia.

Da parte sua, il gran maestro principe di Caramanico fece una formale abiura della massoneria, cosa per lo meno poco credibile, per uno che aveva avuto tale nomina a vita.

Infatti, nel 1791, mentre era viceré di Sicilia, il suo nome comparve sulla lista dei sospetti, insieme a quello di due dei suoi figli.

In quegli anni, infatti, la regina Maria Carolina era ormai diventata reazionaria e fisicamente vicina a un nemico di Caramanico, il mercenario inglese, ministro della guerra, lord Acton.

III

Nello stesso periodo storico – per l’esattezza, nel 1779 – il militellese Alfio Natale era stato iniziato nella loggia dell’ardore di Catania, quando la Gran Loggia Nazionale di Napoli era guidata da Diego Naselli e aderiva al rito dei riformati di Lione.

Dopo avere incorporato la loggia degli intraprendenti di Caltagirone, quella di Catania contava diciotto membri. Altre logge in Sicilia erano quella della Vittoria di Trapani (quindici membri), quella della Concordia di Palermo (ventisei membri) e quella de’ Costanti o della Riconciliazione di Messina (quindici membri).

Il salto di qualità nella carriera professionale di Alfio Natale, perciò, avvenne proprio durante il vicereame del principe di Caramanico. Con lui ci fu il rapido diffondersi della massoneria in tutta l’isola.

Ciò significò soprattutto la valorizzazione degli intellettuali locali, anche se i funzionari napoletani restarono in molti posti-chiave. Venne, per esempio, affidata al filosofo isolano Tommaso Natale l’elaborazione e la gestione del piano per la concessione enfiteutica dei beni comunali, dandogli i poteri autonomi di regio delegato.

A sua volta, Tommaso Natale riunì attorno a sé i migliori elementi del moderatismo siciliano, Paolo Balsamo e Gaetano La Loggia.

Il nuovo clima favorì pure l’ascesa del militellese Giuseppe Tineo, amico e protettore, prima di Alfio e poi di Vincenzo Natale.

Nato nel 1756, Tineo era figlio di un dottore in legge e contava una lunga sequela di zii preti, piuttosto reputati per la loro dottrina.

Per sua fortuna, in quegli anni a Palermo si pensava di far nascere istituzioni di pubblica utilità: il Camposanto, l’osservatorio, le scuole normali, l’orto botanico. Perciò, oltre a diventare cattedratico all’università, egli fu il primo direttore dell’Orto Botanico.

Ovviamente, il prestigio gli derivò da quest’ultima incombenza. Essa era davvero importante, se si considera che, per metterlo in condizione di svolgerla, Caramanico lo mandò nelle scuole di Pavia, a spese pubbliche (poi, gli succedette nell’incarico il figlio Vincenzo, che a sua volta adottò come figlio – qualcuno pensò che lo fece perché ne era il padre naturale – il grande architetto Giambattista Filippo Basile. Da Giambattista, quindi, nacque l’indiscusso maestro del liberty italiano, Ernesto Basile).

In verità, la creazione dell’orto botanico fu dovuta soprattutto a un padre Bernardino, fraticello di Ucria, nominato professore in sostituzione di Tineo, mentre questi soggiornava a Pavia. Fu il religioso ad elaborare un’accurata catalogazione di tutte le piante, secondo il sistema del Linneo. Tineo ebbe soprattutto la sfrontatezza di copiarla, senza neppure citare la fonte a cui aveva attinto.

Tanta arroganza gli veniva dalla sua appartenenza alla massoneria palermitana, nella quale era stato introdotto da don Eutichio Barone. Ciò lo aveva reso ben visto ai componenti la Deputazione degli Studi e principalmente al principe di Caramanico.

Il giorno dell’inaugurazione del nuovo orto botanico, così, nonostante l’inverno precoce (si era appena al 9 dicembre), tutta Palermo si riversò dalle parti di Porta Castrofilippo e di Porta Reale.

Era un continuo via vai variopinto di persone vestita a festa e di vetture di gala. Tutti convergevano sulla spianata dove sorgeva l’edificio centrale dell’Orto. I soldati facevano fatica a mantenere libere le vie di accesso.

“E’ uno spettacolo nuovo in questi luoghi solitari” disse il principe di Caramanico alla buona amica che gli sedeva accanto nella carrozza.

“La moltitudine di curiosi si ingrossa sempre più” osservò la donna.

Guardò negli occhi il principe, nascondendo male dietro il fazzoletto profumato un sorriso di complice ammirazione. “E’ la sua vittoria finale, caro principe.”

“Già! La piazza è diventata uno scintillio d’armi, di bottoni, di mazze dorate, di decorazioni… un brulicare di teste incipriate e imparruccate, di abiti, di toghe, di pastrani, di uniformi di tutti i colori.”

Mentre il pricipe dispensava saluti e inchini a destra ed a manca, dietro avanzavano i cocchi del Senato palermitano e dell’Arcivescovo Lopez. Seguivano le vetture dei nobili, dei prelati e degli alti dignitari. Tra la folla, molti erano professori, dottori, speziali.

Il corteo si fermò dinanzi al grande scalone del ginnasio dell’Orto botanico. Un’immensa tela copriva la facciata… tutti gli sguardi vi erano rivolti.

Ci fu un suono di tamburi e la tela cadde. Scrosciò un applauso all’apparire di uno sventolio di fazzoletti e di cappelli.

“Viva il Re!” si gridò. “Viva Palermo!”

L’arcivescovo Lopez benedisse gli edifici e la folla si sparse per le sale e per i viali. Si ammirarono le piante più rare, con sul volto un’espressione di orgoglio per quel nuovo prestigio che veniva alla città. In mezzo a tanta gente, non cercato da nessuno, c’era padre Bernardino, a vedere come il frutto del suo impegno veniva colto da altri.

Poche settimane dopo, il frate morì di crepacuore.

IV

A Militello, tra la famiglia Natale e la Tineo si realizzò una salda alleanza politica. Molte volte, perciò, a Palermo Vincenzo fu ospite di don Giuseppe Tineo e questi, contraccambiò soggiornò nella villa dei Natale, nell’estate del 1800.

La dimora sorgeva ai bordi della contrada di Francello, in un altopiano esposto al vento di tramontana, che scende direttamente dall’Etna. Ma, non era soltanto la frescura ad attirare lì il Tineo. Egli condivideva con don Alfio la passione per la storia. I dintorni di Militello, perciò, erano un richiamo irresistibile, dato che vi si trovavano espressioni delle culture preistoriche. Fu proprio in questa occasione che il giovane Vincenzo Natale si avviò allo studio sistematico dell’archeologia, dove poi lasciò qualche traccia di sé.

Tutto cominciò mentre un emozionato Giuseppe Tineo teneva in mano una ceramica neolitica, riconoscibile per le decorazioni impresse Era un vasetto che proveniva da una collezione secentesca, forse quella dello storico Pietro Carrera.

“Così” osservò don Giuseppe, “con queste linee a giro si suggeriva e si esaltava la forma del vaso. In un certo senso, era come se con la decorazione venisse definito l’oggetto, sottolineandone una specie di forma assoluta.”

Col suo enorme pollice da contadino accompagnò le curve del vasetto in una lieve carezza, che a Vincenzo parve di quelle che si fanno sul viso di una bella donna.

“Probabile” disse don Alfio. “Sono presenti molti oggetti di questo tipo nella contrada di Uoscina.”

“Già” confermò Tineo. “In quest’epoca gli uomini mantengono pure un forte legame coi morti. I cadaveri vengono inumati individualmente in una fossa delimitata da ciottoli e pietre. Era un modo di concepire la vita che piacerebbe molto al poeta Ippolito Pindemonte.”

“Forse, qualcosa di più” disse Vincenzo. “Forse era il simbolo della fratellanza tra tutti gli uomini, anche se divisi dalla morte.”

“Può darsi” concesse Tineo, che, però, era preso soprattutto dalle sue descrizioni. “Per le forme architettoniche funerarie più evolute, so che la più diffusa era una fossa quadrangolare foderata con lastroni di pietra. Lì venivano inumati più individui in posizione ranicchiata. Poi, le sepolture diventarono delle fosse allungate, dove i defunti stavano in posizione supina.”

“Un mio giovane amico, il barone don Vincenzo Reforgiato” disse don Alfio, “ha trovato a Uoscina un vasetto decorato e graffito dopo la cottura, che secondo lui risale a un’epoca anteriore a quella di Omero.”

“Mi farà piacere vederlo” disse il Tineo.

“Anche perché” riprese don Alfio, “i primi nostri resti consistenti risalgono proprio a quei tempi. Ne sono un esempio le tracce di alcune capanne, delimitate da stretti fossati ed una tomba a pozzetto, che si trovano in contrada Dosso Tamburano. Pure sul pianoro prospiciente Fildidonna sono stati trovati resti simili.”

“La morte è riuscita ad attraversare bene i secoli” commentò Tineo.

“C’è da crederlo” confermò don Alfio, “se si pensa che in contrada Annunziata possiamo ammirare altre tombe, che il barone Reforgiato ha collocato nell’età omerica. Altre ancora se ne trovano nel pianoro di Santa Barbara, oppure nella collinetta di fronte alla contrada di San Vito, dove le grotte per sepolture probabilmente sono dello stesso periodo. Reforgiato pensa che questa cultura non ebbe alcuna affinità con quella dell’Italia peninsulare, da cui provenivano i siculi. Se è come dice lui, con essa comincia la civiltà mediterranea.”

Purtroppo, al nostro Vincenzo non pareva possibile che quei popoli remoti avessero una tecnica marinara tale, da far loro affrontare viaggi lunghi. Il suo carattere riservato e prudente, però, come sempre, gli fece scegliere il silenzio. Soltanto oltre quarant’anni dopo, nel suo libro sulla Sicilia antica, espresse questa perplessità, allora taciuta.

Nei giorni seguenti i tre visitarono tutti i luoghi militellesi che, in qualche modo, avessero a che fare con la storia.

Chiusero con un’escursione in contrada Catalfaro, tra Militello e Mineo. Lì c’erano i resti di un castello arabo.

Questa volta, il professore lo fece Vincenzo, che a quel tempo studiava il medioevo siciliano, sull’onda dello scalpore suscitato dall’abate Vella, che aveva costruito una falsa storia dei musulmani in Sicilia.

“L’ivasione araba” raccontò Vincenzo, quando furono in mezzo ai ruderi, “cominciò a metà di luglio dell’827, l’anno 6335 del calendario greco, come usavano datare gli storici arabi, quando volevano riferirsi al calendario dei Rum, cioè dei bizantini. Arrivò una truppa che, oltre agli arabi, comprendeva berberi della Tunisia, musulmani, spagnoli e forse anche negri sudanesi. Lo sbarco avvenne a Mazzara; poi, la guerra tra cristiani e islamici seguì un percorso di avvicinamento di quest’ultimi verso la capitale, Siracusa. Nell’830/831 conquistarono Mineo, da loro chiamata Minawh.”

“E Militello?” chiese Tineo.

“Con tutta la mia devozione per Pietro Carrera” si inserì don Alfio, “penso che sia meglio abbandonare la sua teoria della nostra origine romana. Militello probabilmente è nata nel medioevo. Il suo castello pare frutto della politica di nuovi insediamenti cristiani, seguita all’arrivo dei normanni nel 1078. Magari fu costruito subito dopo la distruzione della roccaforte araba di Catalfaro. La città dev’essere nata allora.”

“E’ un’ipotesi” disse Tineo, non del tutto convinto.

V

La visita di Giuseppe Tineo a don Alfio Natale finì nei primi di settembre, giusto in tempo per poter assaggiare qualche grappolo d’uva e, soprattutto, i rinomati fichi di Francello. Anzi, l’ultima sera in cui cenò nella casa dei Natale, il famoso botanico quasi non mangiò altro.

Quando, infine, lui e don Alfio, si ritrovarono nel vasto cortile a fumare un sigaro al chiaro di luna, per la prima ed unica volta, nella loro conversazione trapelò la comune appartenenza alla massoneria.

“Mio caro amico” disse Tineo, “oggi ci sono tanti libri nuovi, che promettono di cambiare le teste ed i cuori. Oggi la scienza è culo e camicia con la rivoluzione politica. A patto, ovviamente, che non si faccia madre di inganni e di violenze, come è accaduto in Francia.”

“Anche a Catania” confermò don Alfio, “non mancano gli scrittori impegnati nel combattere l’irragionevolezza, senza pensare a tagliare teste. Avete mai avuto notizia delle utili e piacevoli invenzioni del canonico Martino Zappalà?”

“Io non dovrei saperne nulla. Lei forse sì” disse Tineo, con un sorriso malizioso.

“Diciamo, allora, che io so che lei non dovrebbe sapere.”

“E’ un bell’omaggio a Socrate, il suo.”

“Piuttosto, invece, è un omaggio al valoroso avvocato Lioy…”

“Ah, il difensore dei frammassoni di Napoli?”

“Degli ingiustamente accusati galantuomini napoletani. Non suona meglio così?”

“Direi di sì.”

“Il cavalier Lioy ha dato incarico a don Zappalà di formare un modello di filanda economica, compito ch’egli ha eseguito felicemente. Esso consiste in un tavolino bilatere, a cui siedono quattro donne che somministrano, o il canape, o il lino, o il cotone. La macchina, poi, coll’aiuto di pochissima acqua, fila da sé, avvolge, passa i fili nelle matasse e numera le legature in centinaia o migliaia. Poi, l’acqua stessa cadendo in basso involge il filo delle matasse. Un’oncia d’acqua alta due palmi, può fare agire quattro di queste macchinette e dar lavoro a sedici donne.”

“I nobili letterati, però, certamente non son da meno degli inventori di macchinari” commentò Tineo. “Quel Lioy comincia a darmi qualche perplessità. E’ diventato un po’ troppo… imprenditore. Ma certamente forse questo non è neppure un male! Sbaglio di sicuro, ma a Catania i miei elogi vanno al cavaliere gerolosimitano Giuseppe Gioeni de’ duchi di Angiò, professore di storia naturale all’università. Si è applicato e si applica giornalmente a scoprire tutte le vulcaniche produzioni dei monti del regno. Perciò, mi sa che riuscirà a regalare ai posteri un museo ricco e singolare.”

“Lo conosco bene anch’io” disse Natale. “Nella mia biblioteca, con dedica di suo pugno, c’è una relazione di una nuova pioggia vulcanica dell’Etna, che mi mandò nel 1781, con gli auguri per la nascita di mio figlio Vincenzo. Però, mi permetto di aggiungere, pronta per la sua ammirazione, anche la figura del signor abate catanese Francesco Ferrara, professore primario di fisica nell’università, che ha stampato un’opera intitolata Campi Fleghei della Sicilia, e delle isole, che le sono intorno.

“Che epoca splendida, la nostra, per chi odia la superstizione!” esclamò Tineo.

“Sia nella scienza, che nella politica” disse, finalmente, Natale. “Legga Ragionamento sopra la tortura di Vincenzo Malerba. Il sistema di potere feudale viene messo in discussione e minato dalle fondamenta. Emendare il codice penale è il primo passo per condurre il suddito verso l’affrancamento dal dispotismo.”

“E’ così si è rivelata!” sorrise Tineo. “D’altra parte da tempo è questo il vento che tira in Europa. Ma, non bisogna mai mettere in discussione il principio d’autorità. Riforme sì, ma con prudenza e guidate dall’alto! Ci faccia caso. Nel felice secolo appena trascorso gli stati potevano essere distinti in due grandi categorie: quelli a regime monarchico e quelli a regime repubblicano. Gli stati monarchici, fatta eccezione per l’Inghilterra, sono finiti nell’assolutistismo. Quelli repubblicani, se non hanno avuto la concentrazione del potere nella persona di un sovrano, di fatto sono stati retti da una ristretta cerchia oligarchica, che si comportava alla stregua di una dinastia. I popoli vanno guidati dai pochi eletti che ne sanno perseguire il bene. Le repubbliche rivoluzionarie, come purtroppo abbiamo visto in questi anni, cominciano con le folle briache e finiscono, prima nel terrore e poi nella tirannìa.”

“Mi pare che lei non sia stata da meno, nel rivelarsi” concluse Natale, versando il vino per tutt’e due.

Bevvero, dopo un lieve cenno di brindisi, come era giusto fare tra massoni che si erano riconosciuti e capiti.

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da terrazze Studio Garufi&Garufi

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi ha insegnato Lettere, Storia dell0Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie su Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini e Enrico Guarneri (Litterio).

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.