Garufi, Salvatore Paolo,

Garufi, Salvatore Paolo,

I servizi di un bravo

di Salvatore Paolo Garufi

Bravos: nome, noto soprattutto attraverso i Promessi spo-si manzoniani, con cui nei sec. 16° e 17° erano chiamati gli sgherri al soldo dei signori, guardie del corpo ed esecutori insieme di ordini ini-qui e di delitti. La livrea che portavano bastava per lo più a garantir loro l’impunità.
I

C’era davvero il colore delle passioni forti nel tramonto sull’Etna, che Rodrigo Borina ebbe modo di vedere dalla strada che da Adernò porta a Catania.
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Una larga lingua di rosso si impadronì del cielo e corse sull’azzurro come materia liquida, della stessa natura della lava che furoreggiava lungo i fianchi della montagna.
Non vi era nulla che avesse trasparenza in quel cielo ed in quella terra. Il pensoso senso dell’infinito veniva, semmai, dal buio della pietra lavica, sulla quale gli alberi di pistacchio alzavano in alto i loro rami perlacei e sembravano deità desolate ed imploranti.
A quei tempi, natura e uomini usavano parlare a voce alta, per cui il segreto del barone, don Francesco Caruso, anche lui incantato dallo spettacolo, disse, rivolto a Rodrigo:
“Io odio donna Dorotea!”
“Anch’io e, detta così… forse per il vostro stesso motivo” rispose Rodrigo.
“Può darsi. Ma, come mai ti sei fidato di una tipa del genere?”
“Bisogna pur mangiare, a questo mondo!”
“Beh! Non sarebbe male neppure ragionare, qualche volta!”
“Inutile chiederlo alla gente d’azione! Quelli come me, o donna Dorotea, ragionano agendo… Faremo pure paura, ma, detta così… so-no le persone come noi che fanno camminare il mondo!”
“E come me! Pure io sono un uomo d’azione…”
“Non ne dubito. Ma… che potrei fare io per voi?”
“Un po’ di tutto!”
“Voi siciliani siete gente complicata! Chiamate il pane vino ed il vino pane… Ma, tutto sommato, ho idea che il mio lavoro con donna Dorotea sia irrimediabilmente finito… Eppoi, detta così… magari que-
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sto paesaggio finirà per piacermi… Anzi, ora che ci penso, mi è sem-pre piaciuto!… E neppure voi mi dispiacete…”
“Non vorrei che il tuo sia lo stesso interesse del gatto per il pe-sce!”
“Per il gatto ci siamo… ma, pensando agli occhi della mia signora… il mio interesse è tutto per lei e, al posto del pesce, ci metterei il topo!”
“Insisto per il pesce… Il pesce si mangia, il topo no!”
“Quando bussa la fame, vanno bene pure i topi!”
Quel giorno l’indissolubile amicizia fra i due fu ratificata da una solenne ubriacatura in un fondaco di Paternò. I simili, prima o poi, si ritrovano. Mai, però, Pietro volle più parlare dell’argomento.
“Ogni cosa a suo tempo!” disse, a sugello del discorso.
Così, già al quinto bicchiere, Rodrigo giurò fedeltà a don France-sca, almeno, fino a un minuto prima che a questi gli fosse passato per la mente di tradirlo…
Subito dopo, dentro di sé, lo stesso Rodrigo giurò pure che mai più si sarebbe incatenato ai comandi di una donna.
II
A quarant’anni compiuti, mastro Rodrigo mostrava ancora la tran-quilla sicurezza dei vent’anni. I capelli c’erano ancora tutti, anche se ormai grigi ai lati. In compenso, le spalle dritte e larghe gli mantene-vano la figura di temibile lottatore. Probabilmente, tanto vigore gli veniva dal lungo allenamento della gioventù in mare.
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Figlio del marchese di ***, paese posto su una catena di aspre colline che dividono la Liguria dal Piemonte, aveva chiuso piuttosto male i burrascosi rapporti col padre e, perciò, era andato incontro al suo sogno di sempre: girare il mondo.
Così, in un giorno di primavera in cui ancora la nebbia ghirigoreg-giava sopra le acque dei due fiumi della sua infanzia, il Bormida e l’Uzzone, nottetempo se ne fuggì dal castello paterno. Arrivato a Sa-vona vide il mare e pensò che il mare conteneva l’acqua e la vita di tutti i fiumi. Decise, perciò, di stabilirvi il suo feudo, re senza corona e senza scorta, la cui regina, come Penelope, aspettava il ritorno, nel-la reggia del suo cuore, rimasto lì, in fondo al Bormida, difeso dai lucci e dalle trote.
Passò, quindi, a Genova e s’imbarcò lo stesso giorno, vivendo da allora di pesce salato e di pirateria. Fu schiavo in Turchia e condan-nato a morte a Corfù, per poi tornare a calpestare la terra come braccio armato di donna Dorotea, già madre e nonna, ma bella secon-do gli standard dell’epoca.
Nel momento in cui si imbarcò per la prima volta – come mozzo, nel galeone Santa Monica, agli ordini del più famoso capitano porto-ghese del tempo, don Antonio Faria de Sousa -, aveva appena dician-nove anni e, già nel primo viaggio, in rotta verso le nuove terre sco-perte da Cristoforo Colombo, fu coinvolto in un tentativo di ammuti-namento. Per sua fortuna, però, si schierò dalla parte giusta, ch’era quella del capitano.
Nell’occasione infilzò il figuro che stava calando una scure sulla testa di Faria, motivo per cui nacque la leggenda del suo coraggio e del suo trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Così, nel viaggio seguente diventò timoniere, dando prova che le sue virtù non finivano
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con l’opportunismo. Soprattutto, ogni giorno di più, si dimostrò velo-ce nell’apprezzare le liriche e i racconti del suo migliore amico di gio-ventù, il poeta Fernao Mendes Pinto, e nell’apprendere le conoscenze nautiche che Faria gli dispensò durante le loro lunghe e amichevoli chiacchierate.
A ventitrè anni, dunque, aveva girato un paio di volte il mondo ed era capitano in seconda. Inoltre, in Cina, dove restò sette anni, co-minciò ad accumalere la ricchezza che, tornato in Italia, gli avrebbe permesso di diventare un rispettato e temuto banchiere, perfetta-mente a suo agio nel finanziare le guerre dei nascenti Stati europei.
In verità, le sue doti non finivano neppure con l’intelligenza ed il coraggio. Infatti, suonava con grande abilità il chitarrone e come musicista aveva un certo seguito anche fra i nobili.
Ciò gli regalò la buona creanza degli uomini e la benevola atten-zione di molte dame. Per fortuna, ebbe sempre l’accortezza di non insuperbirsi. Non ebbe mai la pretesa di perforare la dura corazza sociale del suo secolo. Si accontentò di cogliere ciò che gli era per-messo cogliere e di mettere da parte il giusto patrimonio.
Conobbe Dorotea nel tratto di mare che va da Marsiglia a Paler-mo ed ebbe dalla sorte il più inaspettato dono per un tipo come lui, cioè la più irrangiungibile bellezza del Regno di Spagna fu sua. Del resto, dopo quest’incontro, potè essere apprezzata la più preziosa delle sue virtù: la discrezione.
Abbandonato il mare, il capitano Faria ed il poeta Mendes, per seguire Dorotea, il nostro uomo non sognò minimamente di occupare un posto diverso da quello assegnatogli dalla generosa nobildonna. Si rese, cioè, praticamente invisibile, pur pronto ad agire, se la situa-zione lo avesse dovuto richiedere.
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In tale condizione fece parte dell’Universo siciliano dei Bravi e ne divenne il più alto e sconosciuto rappresentante.
Naturalmente, non acquistò titoli nobiliari, ma fu ciò che il filo-sofo Plotino ebbe a dire di Dio: la luce che muove tutto, dando a cose e creature forma e storia.
“Tu bestemmi!” gli obbiettò un giorno Dorotea. “Anche nel buio c’è Dio!”
“Nel buio ci sono soprattutto le vostre porzioni magiche, signo-ra… Il buio non è il contrario della luce, ma l’origine misteriosa di ciò che diventerà luce” le rispose Rodrigo.
Accarezzò, quindi, i neri capelli di seta dell’amante.
“I vostri capelli hanno il colore del buio” continuò. “Ma, quanta lu-ce danno ai miei occhi! Dove non c’è luce non c’è nulla. Dio ha creato il giorno perché il nulla della notte finisse… Il vero volto del diavolo è il nulla!”
Dorotea rise. “Non le pronunciare mai davanti all’Inquisizione, queste tue teorie!”
“E perché mai, signora? Potrei forse dubitare dell’esistenza del mio pensiero? Dio ci parla continuamente, anche se soltanto la Chiesa e i suoi artisti sanno decifrarne le parole. Qualunque cosa abbia scritto quell’eretico tedesco, quel Lutero… soltanto il Papa può rego-lare l’eterno ristabilirsi dell’equilibrio su cui si regge il mondo!”
Quando Dorotea sposò in seconde nozze il cugino don Vincenzo B., Rodrigo divenne il padrone occulto di un territorio che dalla Piana di Gela, scavalcando i Monti Iblei, si affacciava sulla Piana di Catania. Non a caso, quell’unione era stata voluta da Belladama Branciforti, madre del marchese Vincenzo. Fu uno strano matrimonio, dato che la
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donna aveva trentasei anni ed era già madre di un figlio, il principe Fabrizio, mentre il suo sposo, di anni, ne contava diciassette appena.
Purtroppo, a complicare le cose, sopraggiunse la tragedia che il povero don Vincenzo venne trovato morto proprio all’indomani della prima notte di nozze.

  • Nel vino che il marchese aveva bevuto prima di coricarsi erano state mescolate certe erbe disseccate e polverizzate, a base di bel-ladonna e mandragola, secondo la ricetta di una certa Rosa Annaro di Mazzarino, che, poi, finì bruciata dall’Inquisizione per stregoneria e pratiche di veneficio -.
    Ora, ranicchiata in un angolo della stanza, con le dita che arti-gliavano i suoi lunghi e folti capelli neri, Dorotea fissava il cadavere del narito, come imbalsamata nell’urlo di orrore che da alcuni istanti aveva invaso l’intero castello.
    “Che è successo?” chiese Dorotea vedendosi comparire davanti Rodrigo.
    “Componetevi, signora!” le sussurò l’uomo. “Questo pianto non vi risparmierà le accuse dei pettegoli e le trame del re… Se volete che vostro figlio erediti il feudo di vostro marito, lasciate che faccia tutto io!”
    Com’era prevedibile, infatti, dopo quella strana morte, si aprì una dura contesa per l’eredità del feudo. Contro Dorotea si levò la voce di un <amico del defunto, il conte don Giovanni P. Stranamente, inve-ce, a favore della vedova si schierarono la madre e la sorella del morto: donna Belladama e donna Caterina.
    “La cosa migliore, signora” disse Rodrigo a Dorotea, “sarebbe che donna Belladama favorisca un matrimonio riparatore tra don fabrizio e donna Caterina.”
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    “E il conte?” chiese Dorotea. “Se ne starebbe con le mani in ma-no, lui?”
    Rodrigo si portò l’indice a grattarsi il mento, come sempre gli ac-cadeva per pensare…
    “Avete ragione!” disse. “Quella sì, che è una testa fina!… Ho visto che frequenta con troppa diligenza una zingara che frequento anch’io, molto brava nel tirar fuori miscugli velenosi…”
    “Come si chiama la zingara?” chiese Dorotea, per la prima volta con aria spaventata.
    “Il suo nome lo conoscete meglio di me.”
    “Rodrigo, Rodrigo… tanti anni fra i pirati a che ti sono serviti?”
    “Già!… ”
    Dorotea sorrise.
    “Anche tu sei molto bravo col chitarrone!”
    Rodrigo si grattò ancora pensosamente il mento.
    “Potrei pure tentare, detta così… di fargli una serenata…” disse. “Ma non è facile… è troppo furbo!… forse è meglio togliergli il terre-no da sotto i piedi…”
    Bisogna dire, a questo punto, che, purtroppo, neanche la prover-biale astuzia di Rodrigo riuscì ad evitare qualche esile sospetto, quando, nella tradizionale battuta di caccia per festeggiare l’arrivo della primavera, il conte Giovanni cadde in un burrone.
    Insistendo per essere nel posto del programmato attentato quando, detta così… l’aurora dalle dita rosate. citazione dal suo ado-rato Omero. pennellava la fine della notte e si impadroniva del cielo, Rodrigo disse a Giovanni:
    “Aspettatevi un grande spettacolo! Vedrete qualcosa che, nono-stante la vostra passione per l’astronomia, mai avete visto!”
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    Infatti, quando furono nelle vicinanze del burrone che costeggia il fiume Lembasi, sull’altra sponda improvvisamente si alzarono i gio-chi di fuoco di mastro Antonio Pitidolo di Noto. Rodrigo lo aveva fat-to venire in gran segreto, sapendo la passione dell’uomo per quel tipo di spettacolo.
    “Bello!” gridò Giovanni e corse verso l’orlo del dirupo, seguendo Rodrigo, che badava a stargli davanti per spianargli le asperità della vegetazione e del terreno.
    Vicinissimi, li seguivano tutti gli altri.
    Proprio sopra l’orlo del baratro c’era un gran cespuglio, che nella poca luce del momento pareva coprire un terreno che continuava an-cora.
    Rodrigo vi saltò sopra, immediatamente seguito da Giovanni…
    E ambedue scomparvero nel vuoto.
    Sopraggiunti gli altri, si scoprì che Rodrigo era riuscito ad ag-grapparsi al cespuglio, restando a penzolare.
    Di Giovanni era rimasta soltanto la traccia, galleggiante venti metri più sotto, mentre le acque tumultuose la trascinavano via.
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Pubblicato da IL GIORNALE DI ROCAMBOLE

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).

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