Longhi, Roberto – primo e insuperato maestro della storia dell’arte

Longhi, Roberto – primo e insuperato maestro della storia dell’arte

LONGHI, Roberto

di Simone Facchinetti – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 65 (2005)

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LONGHI, Roberto

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Nacque ad Alba, nelle Langhe, il 28 dic. 1890, da Giovanni e da Linda Battaglia, originari della provincia modenese: di Concordia sulla Secchia il primo, di Carpi la seconda.

Dopo “19 anni di servizio tra i maestri elementari che si consacrarono a tale missione con l’entusiasmo ispirato dalla patria risorta” (Gorlago, Archivio Bolis, Fondo Longhi: L. Battaglia, Memoriale, ms., pp. n.n.), il padre accettò l’incarico della Regia Scuola di enologia e viticoltura Umberto I di Alba e si trasferì in Piemonte, inseguendo il miraggio di un’abitazione campestre, dove potesse vivere una famiglia in crescita. Oltre all’insegnamento delle discipline di base (italiano, storia, geografia e aritmetica), Giovanni impartiva lezioni di contabilità agraria, e diede alle stampe, al contempo, una serie di pubblicazioni destinate alle scuole “pratiche e speciali d’agricoltura”. Anche la madre – di simpatie socialiste e già aspirante cantante soprano – era maestra, ma avrebbe abbandonato presto la carriera scolastica per seguire da vicino l’educazione dei tre figli: oltre a Roberto, Cornelia (nata nel 1887) ed Elvio (nato nel 1888).

Dai temi scolastici dei primi anni ginnasiali (1899-1901) si apprende la passione del L. per il disegno e per la lettura. A otto anni dichiarava di aver letto 162 libri: da Gasparo Gozzi a Emilio Salgari, da Alessandro Manzoni a Edmondo De Amicis (G. Contini, in Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Milano 1989, p. 22).

Terminati i cinque anni di ginnasio al regio liceo Govone di Alba (1904), concluse gli studi a Torino, conseguendo la licenza liceale al Gioberti (1907), dove a condurlo per “mano alla critica letteraria di Francesco De Sanctis fu, verso il 1906, l’indimenticabile Umberto Cosmo” (R. Longhi, Avvertenze per il lettore, in Opere complete, I, p. VII). Una volta iscritto alla facoltà di lettere dell’Università di Torino (1907), il L. risiedette presso la famiglia Rossi, in una camera divisa con il compagno e “contubernale” Ferruccio Parri, futuro protagonista del Partito d’azione.

Insieme avrebbero innescato, dalle pagine de LaVoce (13 e 20 maggio 1909, pp. 87 s. e 91) la polemica sul “caso Farinelli”, tesa a denunciare le condizioni della facoltà umanistica – “baluardo di una scienza arida e vuota” – contro la quale il germanista e poligrafo Arturo Farinelli era entrato in conflitto dopo il suo recente arrivo a Torino.

Durante il primo anno di Università (1907-08) il L. frequentò le lezioni di storia dell’arte del giovane allievo di Adolfo Venturi, Pietro Toesca, approdato all’ateneo torinese dall’Accademia scientifico-letteraria di Milano, per occupare una cattedra di nuova istituzione.

L’argomento del corso – raccolto in dispense dal L., esperto stenografo – verteva sulla “Pittura in Italia e Oltralpe nella prima metà del ‘400”. A conclusione delle lezioni, Toesca si era sentito in dovere di tracciare un bilancio consuntivo da cui traspare un’applicazione di metodo fondamentale: “Affermai spesso la necessità di studiare l’opera d’arte in relazione con le precedenti, ma affermai anche e sempre come l’opera d’arte abbia un valore intrinseco, presa in se stessa, in quanto solo l’artefice l’ha creata. Esaminare le opere, scoprire l’occulto legame tra l’esteriore e l’intento dell’artefice doveva essere uno dei nostri fini. Ho cercato di mantenere ciò che mi proponevo, ma forse le opere seppero parlare a voi meglio ch’io non vi dicessi” (Appunti di storia dell’arte tolti alle lezioni del prof. P. Toesca da R. Celotti e R. Longhia.a. 1907-1908, Torino 1908, p. 638). Non sorprende, dopo una lampante dichiarazione sui limiti della traduzione verbale dei fatti figurativi, di trovare il L. a seguire “clandestinamente, fra i corsi di diritto, le lezioni sfaccettate in una logica adamantina di Luigi Einaudi” (R. Longhi, Avvertenze…, p. VIII).

Il 1910 fu un anno di svolta. Le letture di critica militante di Ardengo Soffici ne LaVoce andavano a sostituire gli interventi, venati da un “decadentismo austero”, di Enrico Thovez su LaStampa. Così come la visita alla IX edizione della Biennale di Venezia – con la rivelazione di Pierre-Auguste Renoir e, inaspettatamente, di Ignacio Zuloaga – liquidava definitivamente il fresco ricordo dello studio di Giuseppe Pellizza (suicidatosi nel 1907), a Volpedo. Sempre nel 1910 il L. mise a fuoco l’argomento della tesi di laurea. Scartato il tema di architettura militare sui “vecchi castelli del Monferrato”, la scelta cadde su un soggetto di avanguardia critica: Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Nell’estate il L. iniziò un viaggio lungo la penisola, verso le località che conservavano opere del Merisi o dei suoi immediati seguaci: Pisa, Roma, Napoli, Catania, Siracusa, Palermo, Siena, Firenze e Bologna.

La tesi, discussa nel dicembre del 1911, tradisce la cogente conversione idealistica maturata sull’Estetica di Benedetto Croce e il tentativo di piegare strumentalmente – a breviario di estetica – l’opera di Bernard Berenson Italian painters of the Renaissance, i quattro celebri volumetti usciti separatamente tra il 1894 e il 1907. Stupisce ritrovare i fisiologici “valori tattili” berensoniani generosamente applicati nel capitolo – dal titolo già futurista – Interpretazione di Caravaggio. Forma-Luce-Colore-Movimento. Insieme con i debiti interpretativi non si fatica a cogliere gli argini storici imposti da Toesca, al quale deve risalire il suggerimento di affrontare il catalogo di Caravaggio parallelamente a quello dei “discepoli prossimi”: Carlo Saraceni, Bartolomeo Manfredi, Valentin de Boulogne, Orazio Riminaldi, Orazio Gentileschi, Rutilio Manetti, Lionello Spada; oltre all’indicazione di rimontare ai precedenti caravaggeschi – I preparatori del naturalismo – svolti dal L. fino a intuire un nesso concreto con le scuole pittoriche lombarde di Bergamo e Brescia.

Significativamente qualche giorno dopo la discussione della tesi di laurea – il 28 dic. 1911 – La Voce pubblicò il primo articolo del giovane apprendista in storia dell’arte, una corrosiva recensione ai volumi separati delle Vite vasariane (Raffaello Sanzio, Nicola e Giovanni Pisano, curati da E. Calzini e I.B. Supino), che si configurava come un affondo contro il “metodo storico”. Alle generiche introduzioni dei “venturini, dei supinini, e di siffatta genterella” riteneva preferibile la fonte diretta: “la quadratura, la sodezza, il cubismo di quel giudizio”.

Dal gennaio al maggio del 1912 il L. frequentò il corso per allievi ufficiali a Piossasco, nel Torinese. Al termine del servizio militare si aprirono le strade – apparentemente dicotomiche – dell’ingresso alla scuola di specializzazione in storia dell’arte diretta da Adolfo Venturi a Roma e della collaborazione continuata a La Voce di Giuseppe Prezzolini.

Durante il corso di studi il L. improntò le sue ricerche alla ricostruzione di uno “sviluppo stilistico” (Tintoretto, la Scuola genovese, Piero della Francesca), approdando a esiti attribuzionistici e interpretativi di cui avrebbe tenuto conto lo stesso Venturi negli enciclopedici volumi – allora in corso d’opera – della Storia dell’arte italiana.

A partire da settembre – quando risiedeva già a Roma – avviò uno scambio epistolare con Bernard Berenson, offrendosi come traduttore della sua opera Italian painters of the Renaissance, prima destinata ai Quaderni della Voce e poi, grazie all’intermediazione di Croce, alla “Biblioteca di cultura moderna” Laterza.

Tenuti buoni i principî generali teorizzati da Berenson, il L. rintracciava una nuova via interpretativa alla teoria del colore, confessata a Emilio Cecchi durante l’estate del 1913: “Venetian Painters primo lavoro di Berenson: andrebbe rifatto in questo senso, di trovare, traverso lo studio di quei pittori, una teoria del colore, come traverso i fiorentini ha trovato una teoria dei valori tattili, e traverso i senesi e gli umbri una teoria della composizione spaziale” (E. Cecchi, Taccuini, a cura di N. Gallo – P. Citati, Milano 1976, p. 192). Riformare il sistema di Berenson, capovolgendo l’impianto dei “valori tattili” nella inedita visione lirica dei coloristi-prospettici, tracciando la dimostrazione formale del “sintetismo prospettico di forma-colore” – asse interpretativo del Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana (1914) -, dischiudeva una linea esegetica capace di relegare in un angolo il progetto di traduzione degli Italian painters, riesumato da Cecchi soltanto nel 1936.

Grazie all’appropriazione delle teorie dell’arte come pura visibilità – ricavate dagli scritti di Konrad Fiedler e di Adolf von Hildebrand – il L. poteva dotarsi di un organismo semantico in grado di leggere d’un fiato I pittori futuristi e Mattia Preti (critica figurativa pura) (1913). La tessitura del primo articolo (nato come recensione alla mostra futurista organizzata nel ridotto del teatro Costanzi a Roma) scontava la recente lettura del saggio fondamentale di Hildebrand, Das Problem der Form in der bildenden Kunst, e del wölffliniano Renaissance und Barock, da cui derivava la griglia interpretativa sulla consequenzialità degli stili.

Una testimonianza sul momento di intransigenza formalista del L. – all’altezza del 1913, l’anno di massima intesa tra i due – è fornita dall’amico Parri: “nella valutazione delle arti figurative occorre prescindere in modo assoluto da ogni elemento psicologico, umano, morale, spirituale-edonistico […]. Gli elementi che interessano sono strettamente figurativi (mosse, movimenti, linea, spazialità, volumi, colori, ecc.). Non può esistere rappresentazione estetica se non traverso la deformazione soggettiva dell’artista” (lettera di F. Parri a Margherita Grassini Sarfatti, in Gli Avvenimenti, 20-27 maggio 1917, n. 20).

Il 29 marzo 1913 morì, all’età di 62 anni, Giovanni Longhi: la famiglia perse dunque il diritto di domicilio presso la Scuola enologica di Alba e si trasferì a Gorlago, nel Bergamasco, nella casa della zia materna, Delfina Battaglia. Sempre in quell’anno si acutizzarono i disturbi del fratello Elvio, epilettico, trasferito nella casa di salute di Racconigi, dove sarebbe morto sei anni dopo. In questa cornice si colloca sia il tentativo del L. di aprirsi una via redditizia nel campo del giornalismo, con l’invio – tramite Prezzolini – di una riduzione del Mattia Preti al Resto del carlino, sia l’esordio della sua attività didattica svolta nei licei romani Tasso e Visconti. Al termine dell’anno scolastico 1913-14 il L. raccolse le dispense del corso nella Breve ma veridica storia della pittura italiana, inizialmente destinata a figurare tra le pubblicazioni de La Voce (ma edita, postuma, solo nel 1980), improntata a un assolutismo formalista. Ancora nel 1913 prese avvio la collaborazione a L’Arte – la rivista di Adolfo Venturi – dove videro la luce articoli monografici dedicati ai primi pittori caravaggeschi: Orazio Borgianni (1914), Battistello (1915), Gentileschi padre e figlia (1916); e contemporaneamente le tempestive recensioni allineate nella rubrica del Bollettino bibliografico, di cui il L. avrebbe assunto la direzione nel 1916 (per tenerla fino al 1920).

Nella doppia recensione alla Geschichte der spanischen Malerei di August L. Mayer – stampata nel corso del 1914 sia ne La Voce sia ne L’Arte – il L. mostrava alternativamente due volti espressivi, dando corpo a vistose varianti stilistiche, oscillanti entro gli argini di una lingua espressionista che tuttavia non trascurava singolari prelievi dannunziani.

Con il libro Scultura futurista: Boccioni – uscito nel maggio del 1914 – il L. si affermò come il più lucido critico dell’avanguardia futurista aderendo alla problematica boccioniana e traducendola in un “ponderato dissenso col crocianesimo e con l’estetismo ancora in voga” (P. Barocchi, Testimonianze e polemiche figurative in Italia. Dal divisionismo al Novecento, Messina-Firenze 1974, p. 246).

Distante dal clima nazionalista e interventista che condizionò molti dei suoi compagni di strada (Umberto Boccioni, Parri, Lionello Venturi), il L. – dopo essere stato richiamato alle armi dal maggio al dicembre 1914 – riuscì a limitare al minimo il coinvolgimento negli imminenti eventi bellici. Nel corso del 1915, dopo lo scoppio del conflitto – in sostituzione del viaggio di studio in Europa che avrebbe dovuto coronare il termine della scuola di specializzazione – percorse l’entroterra veneto raccogliendo delle Note d’arte in zona di guerra (Firenze, Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, Archivio Longhi). Nello stesso momento le letture appassionate di Alois Riegl e di Franz Wickhoff generarono un ampio brogliaccio dedicato all’Impressionismo barbarico (ibid.).

Dal 1916 risiedette a Milano – insieme con la madre e la sorella – dando avvio alle ricerche che sarebbero sfociate nelle Cose bresciane del Cinquecento (1917). Sempre tra il 1916 e il 1917 fu proposto – senza successo – da Adolfo Venturi per un incarico di insegnamento all’Università di Pavia.

Gli anni della guerra coincisero con profondi ripensamenti teorici. La consapevolezza dei limiti dell’Estetica di Croce – già stigmatizzati in Rinascimento fantastico (1912) – spinse il L. a una riflessione sull’Identità formale delle “arti belle” od anche l’arte figurativa, ambizioso pamphlet volto a “dotare di indipendenza filosofica il linguaggio visivo” (p. 16; Firenze, Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, Archivio Longhi).

Si sommano in questo giro d’anni episodiche collaborazioni a riviste specializzate. Sbarrata la strada della Rassegna d’arte di don Guido Cagnola (1915) – che non accettò l’offerta avanzata da Adolfo Venturi di inserire il L. nella redazione -, si aprirono le vie agli isolati interventi in: Pagine d’arte (1917), Rivista italiana politica letteraria & artistica (1918) e L’Italia che scrive (1918-19). Anche la mostra del giocattolo – organizzata con Raffaello Giolli al Lyceum di Milano nel 1917 – si collocava nello sfondo di una carriera che faticava a trovare sbocchi professionali.

L’incontro nel 1918 con Alessandro Contini fu determinante per le scelte degli anni a venire: già l’anno successivo il L. lavorava all’allestimento di una rivista intitolata Forma (che non avrebbe mai visto la luce), finanziata dal collezionista e antiquario di origini marchigiane. Intanto la militanza nell’ambito dell’arte contemporanea segnava un’apparente battuta d’arresto, dopo la stroncatura Al dio ortopedico (Giorgio De Chirico, 1919) e la consapevole presa di distanza dal movimento dei Valori plastici. Anche le scelte di campo, riflesse nei contributi apparsi nel quotidiano romano Il Tempo (1919), testimoniano un sensibile allargamento d’orizzonte, da interpretare come reazione all’incipiente clima di ritorno all’ordine. Atteggiamento segnato anche dalla folgorazione ricavata dall’incontro con le opere di Paul Cézanne alla Biennale di Venezia del 1920, che provocò la stesura di getto di uno studio monografico, mai passato alle stampe (Firenze, Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, Archivio Longhi).

Il ruolo assunto dal L. (non ancora trentenne) nel panorama della critica d’arte fu rimarcato favorevolmente da Croce: “per essere uno scrittore (per dirla alla tedesca) temperamentvoll, esercita una notevole efficacia sui presenti studi italiani di storia dell’arte” (B. Croce, La critica e la storia delle arti figurative e le sue condizioni presenti [1919], ora in Nuovi saggi di estetica, a cura di M. Scotti, Napoli 1991, pp. 249 s.).

Dopo due anni di ininterrotta residenza romana il L. intraprese – al seguito di Alessandro e Vittoria Contini (dei quali sarebbe diventato consulente per l’acquisto di opere d’arte) – un lungo viaggio in Europa (1920-22), articolato attraverso Francia, Spagna, Germania, Austria, Paesi Bassi, Cecoslovacchia e Ungheria.

Il periplo rappresentò un’insostituibile occasione di perfezionamento della fisionomia di conoscitore del L., orientata prevalentemente sulla pittura del Seicento europeo e del Quattro-Cinquecento italiano (incluse le aree minori). Musei e chiese, raccolte private e antiquari, esposizioni d’arte antica e moderna: il prolungato soggiorno di studio gli consentì di raccogliere uno smisurato schedario di attribuzioni, allestito in una ventina di taccuini densamente manoscritti (Firenze, Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, Archivio Longhi).

Il rientro in Italia cadde in concomitanza con l’incoerente impresa espositiva organizzata da Ugo Ojetti in Palazzo Pitti a Firenze, dedicata alla pittura del Seicento e del Settecento italiano (1922). Il suo coinvolgimento alle “adunanze revisorie”, che precedettero la stampa del catalogo, testimonia la posizione autorevole (benché inascoltata) assunta dal L. sui temi figurativi di quei secoli (fedelmente riflessa nelle Note in margine al catalogo della mostra sei-settecentesca del 1922, in Opere complete, I, pp. 493-512). La mostra fiorentina diede il via all’ampia “polemica sul Seicento”, promossa dalla rivista Valori plastici e alimentata dai maggiori artisti e critici italiani del tempo (e a cui il L. non prese direttamente parte).

Le pagine occasionali dedicate a Gregorio Sciltian (1925) e a Carlo Socrate (1926) si inserivano nella scia di questa querelle e facevano da controcanto alla stroncatura della mostra che inaugurò il “Novecento” di Margherita Sarfatti, pubblicata sotto lo pseudonimo di Pippo Spano (La mostra del Novecento, in Vita artistica, I [1926], 2, p. 34). Approdo da allineare alla Lettera pittorica a Giuseppe Fiocco (1926), per la dichiarata insofferenza verso la retorica del Rinascimento, atteggiamento bollato come “antinazionale” nella brutale replica di Fiocco (Lettere pittoriche, in Vita artistica, I [1926], 12, pp. 144-147).

Dal 1922 (e fino al 1934) il L. risiedette stabilmente a Roma, città presso la cui Università esercitò la libera docenza dall’anno accademico 1922-23.

Il corso inaugurale, dedicato all’Identità teoretica e storica delle arti figurative, prese nuovamente di mira i limiti dell’estetica crociana. I temi dei corsi successivi risentirono delle conoscenze assorbite dal L. nel recente itinerario europeo nel trattare lo Svolgimento della pittura spagnola dal XIV secolo alla fine del XVII secolo, con particolare relazione all’arte italiana (1925-26) e la Storia della pittura francese ed italiana dal neoclassicismo ad oggi (1926-27; Firenze, Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, Archivio Longhi).

Nel 1924 sposò Lucia Lopresti – già sua allieva al liceo Visconti di Roma – promettente storica dell’arte, futura letterata e narratrice di fama con il nome di Anna Banti.

Se si esclude Il Correggio nell’Accademia di S. Fernando a Madrid e nel Museo di Orléans – uscito in L’Arte nel 1921 -, questi furono momenti di isolato e meticoloso lavoro a tavolino (1922-24), passati a organizzare il vasto materiale raccolto durante la ricognizione europea. Negli anni immediatamente successivi il L. si sarebbe ripresentato con la rinnovata facies di conoscitore a tutto campo, svelata partitamente nei numerosi contributi apparsi in rivista (un ventaglio di testate da L’Arte a Art in America, da Dedalo a Vita artistica), compendiabili nelle puntuali Precisioni nelle Gallerie italiane. La Galleria Borghese (pubblicate a puntate su Vita artistica nel 1926-27, e raccolte in volume nel 1928), che gareggiano con gli storici risultati del metodo sperimentale, raggiunti da Giovanni Morelli mezzo secolo prima.

A seguito dell’intempestivo suggerimento di Adolfo Venturi a concorrere per un posto di ispettore a Brera (1921) e alla richiesta (rimasta lettera morta) avanzata dal L. di istituire a Roma una cattedra di “Storia dell’arte dal Seicento ad oggi” (1925), i rapporti tra i due divennero tesi fino alla rottura, complice la deriva misticheggiante toccata da Lionello Venturi, figlio di Adolfo, con Il gusto dei primitivi (1926).

Dopo aver assiduamente collaborato, nel corso del 1926, alla rivista romana Vita artistica (sottotitolata “Cronache mensili d’arte”), il L. ne assunse – con Cecchi – la direzione (dal 1927 col sottotitolo “Studi di storia dell’arte”). E ancora insieme con Cecchi fondò e diresse nei due anni successivi il bimestrale Pinacotheca (dal luglio-agosto 1928 al marzo-giugno 1929). Abbandonato il progetto di riunire i suoi scritti sui “temi del Quattro e Cinquecento” nel Palazzo Nonfinito, il L. diede alle stampe – sulla vecchia traccia del Piero dei Franceschi (1914) – il saggio, di cesellatissima prosa, Piero della Francesca (1927), inserito nella collana di Valori plastici, ideata da Mario Broglio.

“Col Piero Longhi si classifica definitivamente scrittore, categoria da avanzarsi solo retrospettivamente per larga parte dei suoi interventi più antichi; e sarebbe ricerca remunerativa quella di chi, scendendo per esempio sul filo di “Vita Artistica”-“Pinacotheca”, indicasse non dico l’irreperibile pagina di frontiera tra il pre-scrittore e lo scrittore, ma il punto di cristallizzazione oltre il quale la decisione alla scrittura è irrevocabile” (G. Contini, Per la ristampa del “Piero” [1964], ora in Altri esercizi, Torino 1972, p. 123).

Anche gli studi sul Seicento italiano raggiunsero un punto di matura condensazione critica nei Quesiti caravaggeschi (1928-29), incardinati all’ampia ricostruzione dei Precedenti. Rispetto al passo narrativo dei Quesiti, il serrato sperimentalismo stilistico del Piero della Francesca approda alla costruzione di un paesaggio formale che non cela una pretesa d’indirizzo anche per l’arte contemporanea. Gli anni Venti si chiudono con la recalcitrante e limitata collaborazione all’Enciclopedia Italiana di Giovanni Gentile, avviata solo dopo l’abbandono di Ojetti, nel 1929, e la sua sostituzione – in qualità di responsabile della sezione storico-artistica – con Pietro Toesca.

Il programmatico avvicinamento agli snodi figurativi emiliani, inaugurati con la conferenza pisana dedicata a Vitale da Bologna (1931), e proseguiti con le spuntature sulla Collezione del Museo civico di Bologna (1932), sarebbe sfociato nella torrenziale recensione alla mostra sulla pittura a Ferrara nel Rinascimento: l’Officina ferrarese (1934), costruita sull’asse di una “interpretazione medievale, irrealistica, del rinascimento” (Opere complete, V, p. 23). Con l’Officina – pubblicata a Roma per Le Edizioni d’Italia, collezione “Pittura dell’Occidente” – il L. si impose, nel 1934, al concorso bandito a Bologna per la cattedra di storia dell’arte medievale e moderna (già occupata da Iginio Benvenuto Supino).

Il magistero bolognese – durato fino al 1949 – fece fiorire la prima scuola longhiana, nei cui ranghi militarono non solo futuri specialisti in storia dell’arte: Francesco Arcangeli, Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Antonio Boschetto, Alberto Graziani, Pier Paolo Pasolini e i più giovani Mina Gregori e Carlo Volpe.

Dal 1935 al 1937 risiedette a Bologna; dal 1939 nella casa della vita, la villa Il Tasso a Firenze.

Il lungo arco di insegnamento a Bologna si aprì e si chiuse con la partecipazione a occasioni espositive: dalla Mostra del Settecento bolognese (1935) a quella monografica di Giuseppe Maria Crespi (1948). Nella prolusione al corso universitario del 1934-35, il L. preannunciò l’impegnativo disegno di rifondazione degli studi sull’antica scuola bolognese, senza dimenticare di riannodare i fili con il presente, attraverso il contatto con Giorgio Morandi: “uno dei migliori pittori viventi d’Italia” (Momenti della pittura bolognese [1934], in Opere complete, VI, p. 205).

Furono anni di intenso impegno didattico – prevalentemente orientato su temi della pittura medievale nell’Italia settentrionale – e, al contrario, di rarefatte pubblicazioni, quasi esclusivamente destinate a figure e momenti dell’arte contemporanea: Carlo Carrà (1937) e Mino Maccari (1938). Rimase comunque spazio per allestire convegni letterari dedicati a Cecchi, Aldo Palazzeschi, Giuseppe Ungaretti e al “rondismo” di Antonio Baldini (1937).

Poco dopo la nomina a professore ordinario, nel 1937, ottenne – tramite il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, già suo allievo al liceo Visconti di Roma – il comando alla Direzione generale delle antichità e belle arti di Roma, città in cui restò fino al 1939, con l’incarico di ordinare la Mostra d’arte italiana antica e moderna dell’E42 (che non ebbe luogo a causa del secondo conflitto mondiale). La collaborazione con la Direzione generale si sarebbe esaurita con l’intervento di freddo specialismo tecnico sul tema del catalogo generale, letto al convegno romano dei soprintendenti nel 1938.

L’ingresso del L. nella rivista La Critica d’arte – fondata nel 1935 da Carlo Ludovico Ragghianti e da Ranuccio Bianchi Bandinelli (pubblicata a Firenze dalla casa editrice Sansoni di F. Gentile) – segnò l’avvio di un tumultuoso sodalizio con Ragghianti, rapidamente sfociato in rottura.

Nei tre anni di condirezione del bimestrale (1938-40) – che sin dal titolo si rifaceva dichiaratamente a La Critica di Croce – il L. pubblicò alcuni ampi contributi saggistici: gli Ampliamenti nell’Officina ferrarese (che debordarono fino a essere isolati in un numero unico) e i Fatti di Masolino e di Masaccio (1940). Parallelamente uscirono interventi dal carattere militante su temi che d’ora in poi avrebbero visto il L. esporsi in prima linea: come Arte figurativa, carne da cannone Restauri (che facevano eco al varo dell’Istituto centrale del restauro, fondato nel 1939 da Cesare Brandi).

Lo studio su Masolino e Masaccio – gemmazione di un lavoro risalente al 1925-26 – oltre a guadagnarsi spazio e fortuna nel clima strapaesano del Selvaggio di Mino Maccari, veicolò la “fulgurazione figurativa” di Pier Paolo Pasolini nelle aule dell’Università di Bologna, dove il L. condusse uno dei suoi ultimi corsi (1941-42), prima di venire sospeso dall’insegnamento per essersi rifiutato di prestare servizio durante la Repubblica sociale italiana (1943-45).

È proprio in Arte italiana e arte tedesca – saggio letto a Firenze nel 1941, nel corso di un ciclo di conferenze che già dal titolo, “Romanità e germanesimo”, tradisce l’allineamento all’Asse – che emerge con nettezza la posizione ideologica assunta dal L., in quel momento schierato audacemente contro le “estetiche a fondamento climaterico, ambientale e, soprattutto, razzistico”, posizione che segnava un provvisorio riavvicinamento a Croce. Nel torno di tempo che precedette la guerra aveva preso il via un intenso scambio epistolare con Gianfranco Contini, profondamente colpito dal metodo e dai risultati della filologia longhiana.

Con lo scoppio del conflitto si sarebbero ridotte le occasioni pubbliche di intervento, limitate alla conferenza milanese del 1942 su Carlo Braccesco (stampata alla fine di quell’anno) e a quella del Kunsthistorisches Institut di Firenze, dedicata a Stefano Fiorentino (1943, pubblicata solo nel 1951). Le distruzioni inferte ai monumenti sollecitarono il L. a un generale ripensamento sui temi della tutela del patrimonio artistico italiano, preannunciato da un “interminabile esame di coscienza che per noi storici dell’arte dovrebbe cominciare (e per me è cominciato) almeno dal primo bombardamento di Genova” (Lettera a Giuliano [1944], in Opere complete, XIII, p. 129). Il primo gesto pubblico dopo la liberazione di Firenze – quando ancora non si avevano garanzie sull’integrità fisica di Morandi – fu la mostra Giorgio Morandi al “Fiore” (1945), viatico all’imminente ritorno del L. alla cattedra universitaria bolognese.

Qui fu accolto dalla voce dell’allievo Francesco Arcangeli: “I giovani della mia generazione hanno avuto, indubbiamente, dei maestri. Ma quanti di questi hanno tradito, o si sono compromessi, o stancati! Gli uomini sulle cui parole avevamo giurato rivelarono poi incrinature fatali tra le qualità critiche o creative e quelle più largamente umane della coscienza. Alcuni si salvarono nel silenzio. Longhi fu tra i rarissimi che continuarono a parlare senza venir meno alla loro dignità” (F. Arcangeli, Saluto a R. L. [1945], ora in F. Arcangeli. Uno sforzo per la storia dell’arte. Inediti e scritti rari, a cura di L. Cesari, Parma 2004, p. 99).

Negli anni successivi alla guerra gli interessi figurativi del L. gravitarono verso Venezia (1946-48), dopo il largo avvio segnato dal Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946) – articolata rassegna sulla mostra lagunare Cinque secoli di pittura veneta (1945) – a cui fece seguito l’offerta di ospitalità nelle pagine della rivista Arte veneta, diretta da R. Pallucchini. L’occasione fu accettata con il Calepino veneziano, titolo che accomuna 14 saggi di argomento veneto, i cui soggetti artistici rifluirono complessivamente nei corsi bolognesi di quel momento (1945-46, 1946-47, 1947-48; Firenze, Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, Archivio Longhi). Ancora a Venezia conducono le cinque edizioni della Biennale, scalate tra il 1948 e il 1956, dove il L. sedette con incarichi ufficiali e orientò le scelte nel solco della tradizione figurativa che va da Gustave Courbet all’impressionismo, fino ai fauves; e dai paesisti piemontesi dell’Ottocento a Carrà, fino al realismo di Renato Guttuso.

Difficile sottostimare la portata del sodalizio intrecciato con il teorico e critico cinematografico Umberto Barbaro, insieme con il quale il L. progettò e realizzò i documentari d’arte dedicati a Carpaccio e a Caravaggio (1947-48). Il taglio “popolare” e “populista” del Caravaggio (caratteristiche sufficienti a sinistrarne la fortuna attraverso azioni di censura) preannunciava una nuova stagione della critica longhiana: “furono i fotogrammi in movimento e le modeste carrellate sulle immagini di Caravaggio, con la loro forza di verità, l’argomento determinante per convincermi dell’urgenza di reintrodurre più comunemente nel discorso critico, quel concetto di realismo che l’imperante astrattismo idealistico ci aveva per anni precluso” (Un uomo degno di essere imitato, in Vie nuove, 4 apr. 1959, p. 16). Sulla scia di questa esperienza il L. avrebbe offerto la consulenza artistica e letteraria per il documentario dedicato a Carlo Carrà, girato a colori da Piero Portalupi nel 1952.

Rifiutato dall’Università di Roma – che dietro stimolo di Lionello Venturi gli preferì Mario Salmi – nel 1949 fu chiamato a Firenze alla cattedra di storia dell’arte medievale e moderna, lasciata per limiti di età il 1° nov. 1966. Sempre nel 1949 tenne una relazione al convegno del Pen Club di Venezia, poi utilizzata con valore programmatico nell’atto di fondazione della rivista Paragone – mensile di arte figurativa e letteratura (in uscita a fascicoli alterni di “Arte” e “Letteratura”) – con il titolo Proposte per una critica d’arte (1950), e infine servita da traccia alla prolusione del corso universitario fiorentino del 1950.

“Ormai la difficile solitudine di altri tempi era venuta meno intorno a Longhi e inizia, con gli anni cinquanta, quella febbrile attività in pubblico (attraverso le mostre soprattutto e la sua rivista) che lo vedrà al centro di una fitta rete di amici, collaboratori, allievi, intenti a svilupparne i suggerimenti esplorando una Italia artistica per tanta parte ancora inedita, e miracolosamente conservata dalla sua antica parsimonia contadina” (G. Romano, Il Cinquecento di R. L.: eccentrici, classicismo precoce, “maniera” [1982], ora in Id., Storie dell’arte. Toesca, L., Wittkower, Previtali, Roma 1998, p. 55). Diventa allora fondamentale il problema politico della circolazione delle proprie idee, perseguito con la costante presenza nella tribuna di Paragone, con la collaborazione a riviste di ampia circolazione (L’Europeo), con la partecipazione a programmi radiofonici (“L’Approdo”, dotato dal 1952 di un omologo cartaceo in rivista), con l’allestimento di mostre destinate al grande pubblico, con la riscrittura di testi fondamentali (Il Caravaggio del 1952, ripristinato in un’edizione divulgativa nel 1957), con lo schieramento spontaneo di una scuola “longhiana” in cui militavano personalità di formazione e generazioni diverse, non riassumibile nei nomi dei redattori della rivista fiorentina.

Gli anni Cinquanta si aprirono con le vaste rassegne organizzate in Palazzo reale a Milano: Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi (1951) e I pittori della realtà in Lombardia (1953), iniziative di “critica in atto” fiancheggiate da allievi o seguaci: Mina Gregori nel primo caso, Renata Cipriani e Giovanni Testori nel secondo.

Calate nel clima arroventato delle polemiche tra “realisti” e “astrattisti”, anche le esposizioni d’arte antica si prestavano a condizionate riletture retrospettive. Se I pittori della realtà (1953) servivano a legittimare la via del realismo imboccata da Guttuso o a sollecitare la futura conversione longhiana di Ennio Morlotti, la mostra ordinata da Giorgio Vigni su Antonello da Messina (1953) poteva prestare il fianco alla dimostrazione formalista dell’inevitabilità dell’astrattismo. E sempre in un’ottica di schieramenti contrapposti vanno letti gli articoli pubblicati nel settimanale L’Europeo (1954-57, in particolare quelli su temi di arte contemporanea), dove il L. tenne una rubrica antitetica a quella firmata – nelle stesse pagine – da Lionello Venturi.

L’ingresso del L. nel comitato di redazione de L’Approdo (1952) – strumento impiegato come cassa di risonanza per le iniziative espositive in cui era direttamente coinvolto – implicò l’immediata partecipazione alle pagine della rivista dei critici militanti longhiani Francesco Arcangeli e Carla Lonzi.

A fianco di applicazioni perspicue di filologia, Paragone ospitò sempre più frequentemente interventi del L. su argomenti di attualità, aprendo la rivista agli aspetti della politica culturale. Tra i soggetti prevalenti degli Editoriali figuravano i temi della tutela e dei restauri, delle politiche espositive e dei musei. Paragone avrebbe assunto – per tutta la durata della direzione longhiana – un ruolo di guida e di orientamento nel panorama degli studi.

Ormai in età di ricapitolazioni, nel 1956 il L. aveva avviato la raccolta delle Opere complete dei suoi scritti, inizialmente allestita secondo la successione cronologica di apparizione, e poi – dopo la morte dell’autore, a partire cioè dal volume sesto – per gruppi tematici di epoche o civiltà figurative. Ancora in quell’anno fu chiamato a leggere le motivazioni della laurea honoris causa conferita dall’Università di Firenze a Bernard Berenson, episodio che segnò un timidissimo riavvicinamento tra i due studiosi.

Nel 1958 curò la rassegna milanese Arte lombarda dai Visconti agli Sforza, l’ultima in ordine di tempo della trilogia espositiva di Palazzo reale, ma anche l’ultima a cui il L. prese parte direttamente.

Tra le rare partecipazioni a “L’Approdo televisivo” (1963) spicca – a chiarire gli orientamenti del L. in questo ultimo periodo – l’intervento a sostegno dei “Maestri del colore”, la collana popolare diretta da Franco Russoli e da Alberto Martini, e progettata con l’aiuto dello stesso L., come si intuisce dalla rosa dei titoli, oculatamente degerarchizzante.

Il L. morì a Firenze il 3 giugno 1970.

Negli ultimi anni aveva lavorato all’allestimento del catalogo della propria collezione d’arte (fedele specchio dei percorsi di ricerca perseguiti durante la vita) e alla costituzione di una Fondazione di studi di storia dell’arte che porta il suo nome, varata nel 1971.

I manoscritti del L. si conservano a Firenze, Fondazione di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, Archivio Longhi; Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori contemporanei dell’Università di Pavia, Archivio Longhi; Gorlago, Archivio Bolis, Fondo Longhi. Per gli scritti del L. si fa riferimento all’Edizione delle opere complete, Firenze 1956-2000 (nel testo Opere complete). Si vedano anche G. Contini, Cronologia e Nota bibliografica generale, in R. Longhi, Da Cimabue a Morandi. Saggi di storia della pittura italiana scelti e ordinati da Gianfranco Contini, Milano 1973, pp. LXXXIII-LXXXVIII, 1119-1133; Bibliografia di R. L., a cura di A. Boschetto, Firenze 1973.

Fonti e Bibl.: G. Previtali, Ritratti critici di contemporanei, R. L., in Belfagor, XXXVI (1981), 2, pp. 159-186; G. Prezzolini, Questa libertà non è un capriccio (Lettere a R. L.), a cura di F. Grisi – L. Gemini, Roma 1982, pp. 18-23; G. Agosti, Una postilla su R. L. al concorso bolognese del 1934, in L’Accademia di Bologna. Figure del Novecento (catal.), a cura di A. Baccilieri – S. Evangelisti, Bologna 1988, pp. 251-253; F. Bellini, Lettere di R. L. a B. Berenson, in Prospettiva, 1989-1990, nn. 57-60, pp. 457-467; Questione di “logica degli occhi”: 5 lettere di Lionello Venturi a R. L. (1913-1915), a cura di G. Agosti, in Autografo, 1992, n. 26, pp. 73-84; G. Agosti, Primi cenni sul fondo di R. L.: l’inventario della sezione epistolareibid., pp. 87-100; F. Frangi, L’arte si svela all’occhio della memoria, in Il Sole 24 ore, 2 febbr. 1992, ora come Diario di viaggio di R. L., in Tesori ritrovati…, a cura di M. Carminati, Milano 2000, pp. 275-285; M. Lipparini, L’insegnamento di R. L. a Bologna, in Aspetti della cultura emiliano-romagnola nel ventennio fascista, a cura di A. Battistini, Milano 1992, pp. 61-80; D. Trento, Francesco Arcangeli e Pier Paolo Pasolini tra arte e letteratura nelle riviste bolognesi degli anni Quaranta, in Arte a Bologna, 1992, n. 2, p. 165, n. 30; M. Aldi, Istituzione di una cattedra di storia dell’arte: Pietro Toesca docente a Torino, in Quaderni storici, XXVIII (1993), 28, pp. 108-117; B. Berenson – R. Longhi, Lettere e scartafacci 1912-1957, a cura di C. Garboli – C. Montagnani, Milano 1993; Proporzioni. Scritti e lettere di Alberto Graziani, II, Le lettere (1934-1943), a cura di T. Graziani Longhi, Bologna 1993, passim; G. Agosti, Una lettera di L. a Prezzolini nel gennaio 1914, in Ad Alessandro Conti (1946-1994), a cura di F. Caglioti – M. Fileti Mazza – U. Parrini, Pisa 1996, pp. 283-294; Id., Altri materiali sulla giovinezza di R. L.: qualche esempio e alcune prospettive di lavoro, in Annali della Scuola normale superiore di Pisa, Quaderni, s. 4, I (1996), nn. 1-2, pp. 475-484; Id., La nascita della storia dell’arte in Italia. Adolfo Venturi: dal museo all’università, 1880-1940, Venezia 1996, pp. 200-216, 239, 250; S. Geiser Foglia – R. Marinoni, Il carteggio Bianconi L.: “Una luce di incomparabile intelligenza…”, in Arch. stor. ticinese, XXXIV (1997), 121, pp. 25-68; M.C. Bandera, Il carteggio L.-Pallucchini. Le prime Biennali del dopoguerra 1948-1956, Milano 1999.

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Pubblicato da IL GIORNALE DI ROCAMBOLE

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).

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