L’imperatore Costante e la Sicilia come nazione mediterranea

L’imperatore Costante e la Sicilia come nazione mediterranea

Il formarsi in Sicilia del concetto moderno di Stato

Non pensa che, nella frammentazione che seguì la caduta di Roma, anche la Sicilia finì per perdere l’identità regionale a favore di quella municipale?

Proprio per nulla. Anzi, al contrario, penso che nel medioevo la Sicilia si differenziò per sempre dall’Italia. Nel continente lo sbocco fu la nascita, prima dei feudi e poi dei comuni, spesso in lotta fra di loro. L’esasperato municipalismo, quindi, sarà soprattutto un fatto italiano, non siciliano. Nell’isola il governo diventerà ben presto centralizzato, anticipando, soprattutto con Federico II, l’idea dei grandi Stati nazionali.

E che ruolo ebbe in Sicilia l’altra faccia del medioevo, cioè la Chiesa cattolica?

Non è certamente questa la sede opportuna (e qualificata) per dare una spiegazione della crisi dell’impero romano. Ma, l’occasione è giusta per tentarne almeno un’analisi filosofica. Alla fine, probabilmente si scoprirà che la storia della Chiesa non è soltanto spirituale e non è neppure il mero esplicarsi di una strategia di alleanze col potere politico. Al contrario, l’organizzazione ecclesiastica in Occidente diventò man mano una specie di impero immateriale, per usare una definizione che il filosofo Toni Negri nel suo saggio, intitolato appunto L’impero, ha applicato all’impero americano. Era un potere, cioè, che poggiava sul dominio culturale.

Ciò vuol dire che sulla crisi di un impero nacque un altro impero?

Sulla crisi dell’impero romano faccio appena appena una biblica e scontata riflessione intorno al sic transit gloria mundi e subito dopo, sulla scorta di un testo autorevole come Il medioevo di Gioacchino Volpe, edito dalla Sansoni di Firenze nel 1965, spiego lo sfaldamento di tanta formidabile compagine alla luce di eventi (gli assetti sociali del tardo impero, il cristianesimo, la pressione dei barbari) non risolutivi singolarmente, ma irresistibili se messi insieme.

E in che senso la Chiesa lo sostituì?

La nuova religione cristiana s’innestò sulla decadenza politica, economica e culturale, oltre che sul diffuso malcontento nei confronti del giogo romano, tant’è che fece molti proseliti fra le masse dei derelitti. Essa, fra l’altro, s’impose (come, mutatis mutandis, continua ad imporsi ancor oggi) per la superiore organizazione, che è l’arma vincente per chi intende avere il potere nelle moderne società complesse (e di queste l’impero romano fu il migliore esempio nell’antichità). I grandi blocchi ideologici funzionano soltanto quando i gruppi sociali sono piccoli. Con la vastità dell’impero bisognava fare i conti con concetti nuovi, a cominciare da quelli di Centro e di Periferia. Se Roma, o le altre metropoli che ospitarono la corte, cioè il centro, avevano il prestigio intellettuale delle capitali, la forza economica e militare veniva sempre più dagli imprenditori, dai lavoratori, dai militari operanti negli sconfinati spazi periferici. Soltanto una presenza capillare e duttile, capace di raggiungere le variegate (e spesso in conflitto fra di loro) pieghe della società poteva ricompattare sul piano alto della religione le mentalità che si trovavano in campo.

Mi pare che siamo alla teoria di Machiavelli, che vedeva nella religione un collante sociale.

Più o meno, sì. Non c’è società senza dei valori comuni che la tengano insieme e la religione, volere o volare, di valori ne dà molti. Ecco perché il cuore dell’ideologia tardo-imperiale fu nelle chiese per quanto riguarda la distribuzione territoriale e nei conventi per la distribuzione negli strati sociali (gli eremi, per esempio, risultarono ottimi avamposti ideologici nei territori marginali e per l’ideologizazione dei più poveri). Le varie istituzioni erano rette da vescovi assistiti da preti e diaconi ed erano riunite intorno a quelle più importanti, a loro volta in contatto fra di loro, costituendo una fitta rete grande quanto tutto l’impero. Una reinvenzione laica di tale sistema, cioè del sistema di controllo delle periferie, in anni recenti sono state le scuole elementari e nedie, le caserme dei carabinieri, le sedi dei partiti, le camere del lavoro, i mass-media e le sedi delle organizzazioni cosiddette no profit.

Ma, crede davvero che si avesse coscienza di tutto ciò?

E perché no? In maniera altrettanto ordinata si svolse, infatti, l’elaborazione teorica, che fin dall’inizio seppe realisticamente tener conto del sostrato pagano, anche se sulle questioni di fondo si mantenne rigorosissima. Certo, tutto ciò non fu frutto di un’improvvisa ispirazione. Si sviluppò in modo graduale, in tempi lunghissimi. Ma, non per questo non se ne ebbe coscienza, visto, come ho già detto, il lavorio di elaborazione teorica.

Ci dia un’idea dei tempi in cui si svolse tale lavorio?

Guardiamo la scansione delle azioni evangelizzatrici e della nascita dei dogmi. Nel Sommario di storia del cristianesimo di Karl Heussi e Giovanni Miegge, Editrice Claudiana, Torino, 1969, leggiamo: “Il culto dei santi ebbe origine nel secondo o terzo secolo, il monachesimo tra la fine del terzo secolo e il quarto, il papato romano, l’adorazione di Maria, il culto delle immagini nel quinto secolo; il dogma della transustantazione, come l’obbligo della confessione auricolare ha origine nel tredicesimo secolo, la preghiera del rosario nel tredicesimo e, nell’attuale forma, nel diciassettesimo secolo; la dottrina dell’infallibilità del papa è stata elevata a dogma soltanto nel 1870.”

E tutto questo cosa significò per la Sicilia?

In Sicilia, s’era possibile, la funzione di vescovi e monaci fu ancor più importante che altrove. Già pochi anni dopo la morte del Cristo, San Paolo, come testimonia il Vangelo secondo San Luca (XXVIII, 12), provenendo da Malta, si soffermò a Siracusa. La sua visita, fra l’altro, “lasciò “traccia viva nella tradizione locale, che vanta la fondazione apostolica della chiesa siracusana.” Lo scrive Cettina Voza nella sua bella Guida di Siracusa, Erre Produzioni, Siracusa, 1994. Per questo, probabilmente, fu foriera di qualche richiamo, quando, secoli dopo, molti monaci scapparono dall’Oriente e vennero a rifugiarsi qui. Il diffondersi del cristianesimo nell’intera isola, inoltre, dovette avvenire in tempi non lunghissimi.

Purtroppo, passato qualche secolo, in Sicilia arrivarono ben altre visite: arrivarono i barbari, riprendendo il doloroso rosario di conquiste subite. Come resse l’organizzazione della Chiesa di fronte a questi nuovi eventi?

Più o meno a partire dal 440 la Sicilia cadde sotto l’attacco, prima, e sotto la dominazione, poi (468-476), dei vandali di Genserico. L’impero vandalico venne, a sua volta. distrutto nel 533 dall’imperatore bizantino Giustiniano, quello del Corpus iuris Justinianei. Il suo generale, Belisario, quindi portò guerra ai “Goti di Sicilia” dal 535 al 536, trovando il favore degli isolani, che speravano in un sollievo delle loro miserevoli condizioni. Ciò, ovviamente si rivelò una pia illusione, come è accaduto quasi sempre nella storia di Sicilia. Giustiniano usò il suo nuovo dominio senza particolari riguardi. Anzi, all’inizio esso fu, più che altro, una base per portare la guerra ai goti di Totila.

Ma, lei in altre occasioni ha detto che il periodo bizantino fu uno dei momenti migliori della storia di Sicilia. Ha cambiato idea?

Non ci sarebbe nulla di male, ma non è questo il caso. Il periodo bizantino diventò un buon momento per noi, al di là del fatto che cominciò male. La bizantinizzazione dell’isola, infatti, risultò agevole, nonostante l’immissione dei tanti profughi provenienti dall’Italia, perché pare che il senso di grecità fosse diffuso in gran parte della popolazione, come ci dice Lynn-Townsend White jr. in Il monachesiomo latino nella Sicilia normanna, Editrice Dafni, Catania, 1984. Anche se, per onestà, bisogna aggiungere che la tesi della grecità del territorio siciliano viene contraddetta dal grande filologo Carlo Tagliavini nella sua Introduzione alla filologia romanza. Comunque, durante il periodo bizantino (dal VI al IX sec.) la Sicilia fu probabilmente la zona più ricca d’Italia.

Sembrerebbe, quindi, che ci sono molte valutazioni storiagrafiche da rivedere.

Senza esagerare, ovviamente. Sarebbe altrettanto sbagliato sopravvalutare la posizione culturale siciliana nel contesto enorme dell’Impero Romano d’Oriente. Per esempio, della ricca (ed ancora ingiustamente poco esplorata) letteratura bizantina, tutto sommato, ci restano non molte testimonianze di scrittori siciliani: un Gregorio, vescovo di Girgenti (la cui vita fu raccontata in forma leggendaria da un Leonzio), autore di un commento all’Ecclesiaste ed i poeti Costantino Siculo, Gregorio, Teodosio, Metodio di Siracusa ed Eugenio di Palermo. A questi va aggiunto il nome di un cronista molto tardo, fiorito ben oltre il tempo della presenza bizantina in Sicilia. Si tratta di un Giovannisiculo (che la cronologia impedisce di identificare col Dossopatre, come alcuni vorrebbero). Il suo racconto andava da Adamo al 1204. Purtroppo è arrivato fino a noi soltanto un frammento che si ferma alla guerra troiana, mentre in un altro manoscritto si prosegue fino all’886. Queste sono notizie che ho trovato in Giovanni Montelatici, Storia della letteratura bizantina, Cisalpino-Goliardica, Milano, 1976, ristampa anastatica da Ulrico Hoepli Editore, Milano, 1916.

Non bisogna esagerare neppure se si parla delle condizioni sociali dell’isola?

Lì si può essere meno prudenti. Infatti, le maggiori autorità furono sicuramente le autorità religiose, per questo la vita si riagregò attorno a chiese e monasteri. Nel suo epistolario Gregorio Magno menziona molti monasteri in Sicilia. Erano conventi benedettini, famosi per la cultura che irradiavano. Diventeranno poi basiliani, cioè di rito greco. Appartenenti al patrimonio della Chiesa, c’erano le massae, cioè vastissimi insediamenti rurali.

Una situazione idilliaca, per quei tempi…

Fino ad un certo punto. Nei secoli VIII e IX il mondo bizantino venne agitato dal grande fenomeno dell’iconoclastia,cioè, ladottrinae l’azione che perseguitò il culto delle immagini sacre, considerandolo idolatria, per cui, in difesa delle immagini, vi fu il movimento opposto, l’iconodulìa.

Che successe, di preciso?

Tutto cominciò con un decreto dell’imperatore Leone III l’Isaurico nel 725, a cui si oppose San Germano, patriarca di Costantinopoli, finché papa Gregorio II nel 727 convocò a Roma un concilio in difesa delle icone. Per avere un’idea dei processi logici della fazione filopapale, ecco cosa scriveva San Germano a favore delle immagini, così come leggiamo nel libro di Daniel Rousseau, L’icona, splendore del tuo volto, Edizioni Paoline, Milano, 1990: “Quanto all’icona di nostro Signore Gesù Cristo che rappresenta i suoi tratti umani divenuti visibili grazie alla sua teofania, noi la teniamo allo scopo di ricordarci sempre della sua vita nella carne, della sua passione, della sua morte salvifica e del riscatto del mondo che ne è seguito; attraverso la sua icona impariamo a conoscere tutta l’estensione della kenosi di Dio Verbo.” A chiarimento del brano, non resta che aggiungere che in teologia il termine kenosi (che letteralmenteindica l’azione con la quale si svuota) ripropone l’atto del Cristo di rinunciare, nella sua esistenza terrena, alla manifestazione di gloria che gli è propria per natura. Perciò egli nasce in una grotta, figlio di falegname; e non in una reggia, figlio di Re.

Quali fatti seguirono?

L’imperatore contrattaccò, deponendo San Germano, che, poi, morì nel 733. La carica di patriarca nel 730 passò, così, ad Anastasio, alleato dell’imperatore, che firmò un decreto iconoclasta. A questo punto, l’imperatore volle fare un gesto spettacolare: fece distruggere un’icona scolpita del Cristo posta davanti al suo palazzo. Ciò originò una rivolta popolare a cui seguì una feroce repressione. La lotta, in seguito, giunse al parossismo sotto il regno del figlio di Leone III, Costantino Copronimo (741-780). Nel 769 papa Stefano III convocò il Concilio Laterano I in cui l’eresia iconoclasta venne definitivamente condannata. A quel punto, la persecuzione iconoclasta prese sempre più il carattere di una campagna contro il monachesimo. I monaci non furono più perseguitati solamente a motivo del culto delle immagini, ma per il fatto di essere monaci e le loro immense proprietà passarono alla corona.

Con quali conseguenze?

Ci fu una gran fuga di monaci verso l’Italia. Si calcola che i papi ne accolsero circa 50.000. Ciò portò nuovi fervori. Grazie ad essi, per esempio, fu ricostruita la cattedrale di San Marco a Venezia e si decorarono le chiese di Santa Maria in Domna, Santa Prassede e Santa Cecilia. Provi a leggere, a tal proposito, G. Ostrorsky, Histoire de l’Etat byzantin, Paris, 1956.

E riguardo alla Sicilia?

Qui, fra l’altro, in molte città si manteneva una forte memoria cristiana, che, per esempio a Lentini, faceva capo ai tre martiri del luogo, i Ss. Alfio, Filadelfo e Cirino. A proposito, il monumento più pregevole di quel periodo che ci rimane è la Chiesa in contrada Zitone, a due chilometri di Lentini, andando a Ovest. A tal monumento bisogna aggiungere, come notò Paolo Orsi in Sicilia bizantina, una serie di grotte artificiali nei dintorni immediati, decorate da affreschi palinsesti.

Ora le chiedo se, al di là delle fioritura culturale, possiamo davvero dire che la Sicilia bizantina potè avere una sua specifica fisionomia?

Senza alcun dubbio. Gli anni di maggior splendore che il territorio siciliano conobbe durante il governo bizantino furono quelli in cui Siracusa fu sede della corte imperiale e capitale del Thema di Sicilia (sede dello stratega), sotto l’imperatore Costante. Dirò subito che sulla personalità di questa testa coronata sono state avanzate fortissime riserve da pressoché tutti gli storici. Ma, in sua difesa, mi suonano interessanti alcune osservazioni di Cettina Voza, che sottolinea il ritrovamento a Siracusa e nel suo territorio di alcuni tesori di argenteria, monete e gioielli risalenti al VII secolo e riscontra la quantità di monete emesse dalle zecche di Siracusa e Catania, che con Costante ha il massimo della produzione.

Costante, perciò, insieme a Ducezio sarebbe un altro padre dell’identità siciliana?

Anche in questo caso non bisogna forzare le interpretazioni. La vicenda di Costante cominciò quando gli arabi si affacciarono in Sicilia, cioè abbastanza presto, poiché a dieci anni appena dalla morte di Maometto, nel 643, essi si impadronirono di una sua dirimpettaia, Tripoli. Nel corso di quello stesso secolo, poi, cadde sotto l’Islam pure Cartagine, dove furono realizzati importanti cantieri navali ed impianti portuali. Così, nel 652 una prima spedizione, forse proveniente dalla Siria, poté sbarcare nell’isola agli ordini di Mo’awia ibn Hodeig, uno dei più prodi capitani saraceni, le cui gesta dettero ampia materia ai rawi, raccontatori di professione, che conoscevano a memoria l’intero patrimonio letterario.

E qui arriviamo al capitolo arabo della storia siciliana…

Già. E, purtroppo, bisogna dire che non sembra che gli arabi, né allora né dopo, quando le cose si fecero stringenti, abbiano trovato grande resistenza nelle popolazioni siciliane. Michele Amari ha scritto che gli sventurati siciliani non sentirono affatto peggiorare la loro condizione al servizio dei nuovi padroni di Damasco. Anzi, pare che fecero in fretta a dimenticare gli antichi signori, la patria, le famiglie. Comunque, l’impresa di Mo’awia suscitò un’enorme impressione nella cristianità, tanto che venne stretta un’alleanza tra l’imperatore Costante ed il papa Martino. Dopo qualche scaramuccia, però, per non restare imbottigliato nell’isola, Mo’awia-ibn-Hodeig tornò in Siria, portando via un ricco bottino di preziosi e di schiavi. L’incanto, però, s’era ormai rotto. Dimostratisi vulnerabili, i bizantini si preparavano a lasciare il posto agli arabi. Un’altra civiltà si apprestava a dare alla Sicilia i suoi ricordi (o, più esattamente, i suoi miti).

Che fine fece Costante?

Egli realizzò un voltafaccia e volse il suo fanatismo religioso e asiatico contro Papa Martino. Il pontefice venne arrestato e gettato su una barca, per essere portato, dopo infiniti strapazzi, a Costantinopoli. Qui venne processato e condannato a morte (condanna poi tramutata in esilio a Cherson, sulla riva nord del Mar Nero, dove l’infelice morì pochi mesi dopo). Nel frattempo, gli arabi tornarono a farsi audaci e nel 655 minacciarono la stessa Costantinopoli. Si dovette, perciò, affrontarli in battaglia nelle acque prospicienti la Licia. Ma, nonostante la schiacciante superiorità numerica (pare di almeno settecento navi contro duecento), l’esercito bizantino venne pesantemente battuto, tanto che lo stesso Costante riuscì a stento a scappare. La sconfitta, però, non lo rese più saggio, dato che ebbe modo di dare nuove prove della sua crudeltà, tiranneggiando il popolo ed arrivando ad uccidere il fratello, sospettato di congiurargli contro. A questo punto, diventatagli odiosa Costantinopoli, decise di venire in Italia, a far guerra ai longobardi, lasciando la moglie e i figliuoli in ostaggio al popolo tumultuante. Arrivò nel 663 e fu sconfitto pure dai barbari, per cui, passato da Roma (giusto il tempo di fare qualche razzia, di cui la più grave fu il furto delle tegole d’oro del Pantheon), venne a chiudersi a Siracusa, elevandone il ruolo a capitale. Se, però, il governo di Costante poteva essere guardato con qualche simpatia da siracusani, catanesi e gente limitrofa, non pare che altrettanto possa dirsi sui sentimenti di tanti, di troppi altri siciliani. Così, si racconta che nel 668, entrato un giorno nel bagno di Dafne, il gentiluomo che lo serviva, un certo Adrea figlio di Trailo, gli versò addosso un vaso d’acqua bollente e lo finì, colpendolo in testa con lo stesso vaso. Con lui moriva per sempre il ruolo primario che, a fasi alterne, Siracusa aveva avuto in Sicilia e nel mondo.

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Pubblicato da terrazze Studio Garufi&Garufi

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi ha insegnato Lettere, Storia dell0Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie su Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini e Enrico Guarneri (Litterio).

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