Napoleone Colajanni, “NEL REGNO DELLA MAFIA”, dai Borboni ai sabaudi

Napoleone Colajanni, “NEL REGNO DELLA MAFIA”, dai Borboni ai sabaudi

Uno dei primi saggi sulla mafia, scritto da Napoleone Colajanni all’alba del XX secolo 

Nel regno della mafia,

dai Borboni ai Sabaudi 

di NAPOLEONE COLAJANNI 

Palermo, febbraio 1893: Emanuele Notarbartolo, ex sindaco ed ex direttore del Banco di Sicilia, viene ucciso nel corso di un viaggio in treno. Tutti sanno chi sono gli esecutori materiali, tutti conoscono il mandante e il movente; eppure la macchina della giustizia si inceppa in un meccanismo di omertà e corruzione. Prendendo spunto da questo fatto di cronaca che all’epoca fece grande scalpore, Napoleone Colajanni (1847-1921) siciliano di Castrogiovanni, uno degli uomini politici più in vista dell’età umbertina, nonché tra i fondatori del Partito Repubblicano, si incarica per la prima volta di spiegare all’opinione pubblica italiana cosa sia la mafia e quali le sue origini. Il risultato è un severo j’accuse che coinvolge non soltanto la malavita organizzata, ma un intero sistema sociale e politico e colpisce ancora oggi per la sua stringente attualità.

Per gentile concessione dell’editore Trabant, che lo ha recentemente messo in rete, “Storia in Network” propone ai suoi lettori i primi quattro capitoli. Il volume può essere scaricato integralmente, e gratuitamente, in formato Pdf dal sito www.edizionitrabant.it

Capitolo I

La sera del 1.° Febbraio 1893 in un vagone di 1ª classe nel tratto della ferrovia Termini – Palermo – e precisamente nel tratto Termini – Trabia – Altavilla – venne barbaramente assassinato il Commendatore Notarbartolo.

Le eccezionali qualità morali dell’uomo – era notissima la sua rettitudine – la sua posizione sociale, le cariche elevate ch’egli aveva occupato; tutto contribuì a far sì che il doloroso avvenimento destasse una profonda impressione nel paese. Nell’intera Italia e specialmente in Sicilia si levò un grido d’indignazione, che ebbe anche la sua eco in Parlamento con alcune interrogazioni rivolte (dall’on. Di Trabia e da me) al Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno del tempo: l’on. Giolitti.

Sin dal primo annunzio dell’assassinio efferato i magistrati, le autorità di pubblica sicurezza e la pubblica opinione su questo furono concordi: era da escludersi il furto come movente del delitto. Le circostanze nelle quali era stato commesso dimostravano una preparazione quale non potevano farla volgari malfattori; nè il furto poteva essere movente proporzionato di un feroce reato, che poteva avere pei suoi autori conseguenze tremende. Si pensò alla vendetta; ed era logico pensarvi perchè la grande severità del Notarbartolo nella sua qualità di amministratore della Casa S.Elia e di altre case patrizie e di Direttore del Banco di Sicilia aveva potuto riuscire a ferire molti interessi e molte suscettibilità.

Era il tempo dei grandi scandali bancari in seguito alla denunzia da me fatta il 20 Dicembre 1892 degli imbrogli colossali della Banca Romana; in Palermo e in tutto il regno, perciò, ad una voce si mise in rapporto l’assassinio del Notarbartolo con criminose responsabilità bancarie di vari uomini politici. Questa spiegazione del delitto trovava credito tanto più facilmente in quanto che si sapeva che l’antico Direttore del Banco di Sicilia aveva diretto al Ministro di Agricoltura e Commercio del primo ministero Crispi, on. Miceli, un rapporto in cui si denunziavano gl’intrighi e le male arti di alcuni membri del Consiglio di Amministrazione del Banco; e si sapeva del pari che quel rapporto segreto era stato misteriosamente sottratto dal gabinetto del Ministro ed era stato mostrato a Palermo in una riunione del Consiglio di amministrazione del Banco a coloro, che vi erano accusati. Poco dopo venne sciolta stoltamente l’amministrazione del Banco di Sicilia e mandato via il Notarbartolo – quasi a punizione della corretta e solerte sua gestione, ch’era riuscita a ristorare le sorti del Banco, ridotte a mal partito da una precedente amministrazione.

Le voci sui moventi dell’assassinio, sin dal primo giorno in Palermo assunsero una forma concreta; tutte convergevano nell’additare nel Deputato Raffaele Palizzolo il vero mandante, il sapiente organizzatore del delitto. Si riconosceva in lui la capacità a delinquere; lo si sapeva in intime relazioni colle classi pregiudicate di Palermo e delle sue campagne; si assicurava inoltre che ad antichi motivi di rancore contro il Notarbartolo altri nuovi se n’erano aggiunti e che nel Palizzolo molto potesse la paura di vedere ritornare il Notarbartolo alla Direzione del Banco di Sicilia.

Queste erano le voci che correvano insistenti nel paese sulle cause e sui moventi dell’assassinio Notarbartolo. Dal processo di Milano abbiamo appreso che esse erano accettate dalle classi dirigenti, dagli alti e bassi funzionari politici, dai magistrati concordi nell’additare come mandante Raffaele Palizzolo.

Ebbene cosa fecero la polizia e la magistratura per assicurare la scoperta della verità; per accertare se realmente il mandante dell’assassinio fosse Raffaele Palizzolo; per vedere se le loro proprie convinzioni trovassero base incontrastabile nei fatti?

Se si rispondesse, in base alle risultanze del processo di Milano, che polizia e magistratura nulla fecero in tal senso, si direbbe una grossa menzogna. Infatti dal suddetto processo è risultato a luce meridiana che polizia, magistratura, autorità altissime di ogni genere prese nel loro insieme tutto fecero per riuscire all’impunità del presunto reo, per deviare la giustizia dalla scoperta della verità!

Nè ira di parte, nè leggerezza, nè spirito di esagerazione entrano in questo severo giudizio, che è quello formulato dalla pubblica opinione con una concordia veramente formidabile, suggerita dalla evidenza dei fatti.

L’evidenza luminosa risulta dal processo di Milano. Esso ci fece conoscere anzitutto che mentre era in tutti la convinzione che il mandante fosse il Palizzolo, nessuno mai osò nonchè sottoporlo a processo, nemmeno interrogarlo per averne qualche lume che potesse servire a distruggere la sinistra leggenda, che attorno a lui erasi formata. Nè è a credere che la immunità parlamentare lo coprisse e lo rendesse sacro ed inviolabile. Si sa che il governo italiano per reati immaginari ha arrestato i deputati repubblicani e socialisti ogni volta che lo credette a sè conveniente; si sa pure che a sessione chiusa e nell’intervallo tra una legislatura e l’altra il deputato non è garantito dalle immunità parlamentari. Quale Camera del resto, avrebbe negato l’autorizzazione a procedere contro un suo membro accusato di assassinio per mandato?

La verità è questa: polizia e magistratura pur essendo convinte che in Palizzolo era da ricercarsi il punctum saliens del processo cooperarono efficacemente per metterlo fuori quistione; e sarebbero state contente e soddisfatte se tutto fosse terminato con un non luogo a procedere e col mettere un gran pietrone sulla tomba del Commendatore Notarbartolo.

Non si calunnia attribuendo queste malvage intenzioni alla polizia e alla magistratura. Infatti solamente colla influenza di tale determinata intenzione si spiega il silenzio assoluto e l’inerzia completa e ininterrotta di fronte al Palizzolo; la facilità colla quale si prestò credito all’alibi del Fontana; e la prontezza colla quale furono prosciolti da principio Carollo e Garufi. Polizia e magistratura speravano che il processo fosse chiuso per sempre colla generale assoluzione di tutti gli accusati, colla impunità assicurata agli assassini materiali e al loro mandante, se ce n’era uno.

Se il processo venne riaperto non fu merito nè dell’una, nè dell’altra; ciò non si deve alla loro iniziativa. Si deve invece alle insistenti denunzie del detenuto Bertolani – denunzie una volta respinte e accolte soltanto quando altri minacciò di farne pubblica propalazione. Se il processo dopo tanti anni venne riaperto si deve sopratutto, al figlio dell’assassinato, Leopoldo Notarbartolo, ed all’avvocato Giusepe Marchesano, che si sostituirono nella misura del possibile alla polizia e alla magistratura, e che riuscirono a farlo sottrarre, per legittima suspicione ai giurati di Palermo, e lo fecero condurre per sentenza della Suprema Corte di Cassazione di Roma, innanzi alla Corte di Assise di Milano.

Là, in Milano, finalmente sorge tremenda accusatrice la voce di Leopoldo Notarbartolo, che addita senza sottintesi in Raffaele Palizzolo il mandante dell’assassinio del padre; e solo quando la Camera dei Deputati indignata fa sentire la sua voce, che fa eco a quella di lui, i magistrati d’Italia si muovono e presentano la domanda di autorizzazione a procedere contro il deputato di Palermo, che viene con tumultuaria rapidità concessa senza discussione e conduce allo immediato suo arresto.

Così il processo cominciatosi a svolgere in Milano contro ferrovieri – Carollo e Garufi – si allarga e si trasforma in processo contro il deputato Palizzolo e contro la Mafia. C’è di più: il grande dramma individuale conduce al processo contro le istituzioni principali – politiche e giudiziarie, civili e militari – dello Stato. Il dramma giudiziario assurge alle proporzioni di un grande avvenimento politico, le cui conseguenze potranno tardare a maturare; ma non potranno assolutamente mancare.

Dal processo di Milano a parte tutto ciò che può colpire Carollo o Garufi o Palizzolo, si è appreso con un senso di profondo stupore misto ad indignazione quanto segue: 1.° A Palermo c’erano, e sin dai primi giorni, tutti gli elementi che si sono svolti a Milano; molti altri criminosamente furono dispersi o alterati;

2.° I magistrati i quali accennarono ad istruire seriamente il processo o vennero allontanati da Palermo o vennero dispensati dall’occuparsene;

3.° Un tenente-colonnello dei carabinieri impone o consiglia – si sa il valore di un consiglio dato da un superiore ad un subalterno! – ad una capitano di abbandonare la via sulla quale si era messo nelle ricerche sulle cause e sugli autori dell’assassinio Notarbartolo per seguirne altra che allontanava da Palizzolo.

4.° Scompaiono alcuni reperti che potevano mettere sulle tracce dei delinquenti; e attorno a tale scomparsa si aggruppano alcuni verbali falsi ed altri verbali veri… che non si trovano più.

5.° Si fanno figurare come analfabete alcune persone che sanno leggere e scrivere;

6.° Depongono il falso, si smentiscono, si contraddicono a vicenda in modo scandalosissimo i questori, e delegati di pubblica sicurezza, gl’ispettori, i carabinieri.

7.° Prefetti, Procuratori generali, Commissari Civili e Militari con autorità vicereale in Sicilia hanno convinzione che ci sia un grande delinquente; ma non lo toccano, lo ricevono con segni di rispetto e della deferenza; gli affidano missioni elettorali; gli fanno accordare alte onorificenze.

8.° Dal processo, infine, contro due oscuri ferrovieri, che man mano si traduce in un processo contro una forza poderosa e misteriosa, risulta che c’è una grande accusata: la magistratura!

L’accusa non contro questo o quel magistrato, ma contro tutta la magistratura come opportunamente rilevò l’on. Di Scalea svolgendo una sua interrogazione (16 dicembre 1899) nella Camera dei Deputati venne solennemente formulata innanzi alle Assise di Milano dal Generale Mirri, che era stato Comandante del XII Corpo di armata, capo della Pubblica Sicurezza in tutta la Sicilia e Prefetto di Palermo, e che in tali sue qualità si era visto paralizzare nella sua azione dai magistrati e ch’egli accusò nella sua qualità di Ministro della Guerra.

Con ciò il grande dramma giudiziario cessò di essere l’esplicazione di un delitto comune per quanto grandioso ed orribile ed assunse le proporzioni di un grande avvenimento politico.

Il processo di Milano infatti non andava più a colpire i due volgari accusati e il misterioso mandante, che stava dietro a loro; divenne il processo contro una pretesa associazione, la Mafia, e contro principiali istituti politici e giudiziari, che si chiarirono complici della medesima o del tutto impotenti a fronteggiarla.

Il processo rivelò uno sfacelo politico e morale da fare spavento.

Un certo conforto si ebbe durante lo svolgimento della prima fase del processo nella convinzione generale e profonda che lo sfacelo fosse limitato alla Sicilia.

Ma gli ultimi atti della Corte e del Pubblico Ministero di Milano appresero agl’italiani che c’era la solidarietà nel male tra i magistrati di Sicilia e di Lombardia, poichè i primi si rifiutarono d’incriminare la coorte dei funzionari alti e bassi, la cui falsità era stato luminosamente dimostrata dalle due stringenti ed eloquenti requisitorie dei due avvocati della parte civile, Marchesano ed Altobelli.

Il giorno 1° gennaio fu chiuso il processo contro Garufi e Carollo innanzi alle Assise di Milano; e così doveva essere perchè si dovevano attendere le risultanze del processo iniziatosi contro Palizzolo e Fontana. Ma in quel giorno colla impunità accordata ai falsi testimoni cominciò nella pubblica opinione il processo contro i Magistrati di Milano. Volto al Pubblico Ministero l’on. Altobelli potè esclamare « contro lo scempio della giustizia, delle verità e dell’onore non una parola sdegnosa, non una rampogna civile, non un eloquente invettiva è balzata fremente dalle sue labbra!

« … Il Procuratore generale non si è accorto che dichiarando i funzionari immuni da colpa, si preparava l’assoluzione di Palizzolo e di Fontana, perchè in tutti si ribadiva il convincimento che i loro protetti non potevano essere toccati e che essi, pur essendo in carcere, continuavano ad essere i più forti ed a ridere e a irridere la giustizia.

« Se domani tornando a Palermo i funzionari fossero accolti da una folla ubbriaca della riconosciuta onnipotenza dei loro capi al grido di Viva la Mafia! tutti avrebbero il diritto di protestare meno coloro ai quali risale e risalirà la responsabilità di averli lasciati impuniti ». Conchiuse affermando che se la impunità venisse accordata ai funzionari, che o avevano deposto il falso o avevano altre maggiori responsabilità « ci si darebbe il diritto di ripetere che la Giustizia non può essere il fondamento di certe istituzioni; ed allora il popolo saprebbe a quale via ricorrere per assicurare ad essa il rispetto ed il trionfo. »

Con queste minacciose parole fu chiuso in Milano il 10 gennaio 1900 il processo contro Garufi e Carollo accusati di avere assassinato il comm. Notarbartolo. Continuò il processo nella pubblica opinione contro un’altra accusata, la Mafia, e contro una grande regione, la Sicilia, che della prima venne dichiarata complice necessaria.

Seguiamone lo svolgimento ed assegniamone le responsabilità.

Capitolo II

Chi si fermasse alle manifestazioni degenerative delle istituzioni politiche, giudiziarie ed amministrative quali vennero rilevate nel precedente capitolo, non potrebbe spiegarsi la genesi della manifestazioni stesse e molto meno potrebbe poi assurgere alla designazione dei rimedi possibili. Bisogna procedere oltre; e lo stesso processo di Milano somministra lo addentellato per fare l’analisi di una condizione sociale morbosa, che genera le prime ed alla sua volta ne viene rinvigorita e perpetuata. E chi non sa che nella fenomenologia sociale è continua e generale la reciproca azione e reazione tra cause ed effetti in guisa che a dato momento gli effetti alla loro volta agiscano come cause? Lo studio ulteriore del processi di Milano, in fine, ci conduce a dire della Mafia, che sinora non è entrata in iscena.

Nel processo Notarbartolo sono stati messi alla gogna i rappresentanti delle varie istituzioni fondamentali del regno d’Italia non solo, ma venne intaccata gravemente l’onorabilità di una parte della società siciliana. Ciò ch’è ancora più grave, perchè mostra che il male è più vasto, che c’è un ambiente sociale guasto nel quale si corrompono e si adattano gli uomini e le istituzioni che altrove agiscono e funzionano correttamente.

Il fenomeno che si è osservato a Milano è questo: i testimoni del processi in generale sono reticenti, si rifiutano di parlare, ricorrono ad espressioni vaghe ed indeterminate, appariscono spesso mendaci: tanto che la Corte ne ha incriminati parecchi. Si noti: la reticenza, il mendacio non sono stati propri dei testimoni che vengono dalle basse classi sociali; ma vennero anche deplorati in principi, avvocati, ingegneri, proprietari – tra i rappresentanti, insomma, delle classi dirigenti. Ciò che prova l’estensione e la profondità delle radici del fenomeno stesso.

Come viene esso spiegato? In generale si afferma che i testimoni si rifiutano a dire la verità o dicono addirittura la menzogna perchè hanno paura della Mafia. A questa paura venne assegnata ufficialmente una somma importanza dalla suprema magistratura del regno, che per legittima suspicione sottrasse il processo ai giudici naturali, ai giurati di Palermo, per deferirlo ai giurati di Milano. Nella ricca e colta capitale della Lombardia si suppose che la Mafia non avrebbe potuto esercitare la sua influenza colle minacce di morte o di devastazione delle proprietà che per dolorosa esperienza si sa che non sono vane, ma che si realizzano spesso e terribilmente. Si contano a decine gli omicidi consumati nella provincia di Palermo come esecuzioni di condanne pronunziate dal tremendo tribunale della Mafia. La paura rappresenta una gran parte nel fenomeno constatato; ma la sua azione non è unica e del tutto sempre esclusiva. Non pochi testimoni si rifiutano di dire la verità ed anche mentiscono ubbidendo ad un falso punto di onore, ottemperando ai criteri di una morale speciale, che fa considerare come persona vile e spregevole, chiunque coopera colla polizia o colla magistratura per fare scoprire l’autore di un reato; chi ciò fa o contribuendo all’arresto di un delinquente o denunziandolo o dicendo la verità innanzi ai magistrati viene designato al pubblico disprezzo colle parole: nfami, cascittuni (infame, delatore). Questo criterio morale particolare, questo falso punto di onore è talmente prevalente nelle classi inferiori specialmente nelle campagne di Palermo e nella zona zolfifera, che spesso un lavoratore ritenuto onestissimo riceve una coltellata, si rifiuta di dire chi fu il suo feritore e dichiara di non averlo riconosciuto, quando tutti ne sanno il nome. Il ferito si riserba di pagare il suo nemico con un’altra coltellata, se guarisce – e si conoscono aggiustamenti di conti di questo genere dopo anni ed anni. Se soccombe porta seco il segreto nella tomba e passa ammirato come un vero omu d’onuri.

Lo stesso avviene spesso a Napoli dove impera la camorra, tanto analoga alla mafia.

Questo falso punto di onore, questo speciale criterio morale, generatore di tanta immoralità, costituisce l’essenza del cosidetto codice dell’omertà « che stabilisce come primo dovere d’un uomo quello di farsi giustizia colle proprie mani dei torti ricevuti, e nota d’infamia e addita alla pubblica esecrazione e alla pubblica vendetta chiunque ricorra alla giustizia o ne aiuti le ricerche e l’azione ». Così, e bene, il senatore Tommasi-Crudele definisce il principio informatore del codice dell’Omertà, ch’è il codice della Mafia.

Certamente nella presenta fase di civiltà è altamente riprovevole questo principio informatore della mafia, che si esplica nell’omu d’onuri. Ma la sorpresa o la indignazione dovrebbero avere i loro limiti. Conoscere e comprendere costituiscono il primo passo per perdonare; e per perdonare la mafia in basso dobbiamo rammentare che tra le persone colte più rispettate e più rispettabili del continente italiano, della Francia, dell’America latina ed un poco della Germania c’è ancora una sopravvivenza scomparsa in Inghilterra.

« In Sicilia, scrive il Vaccaro, moltissimi credono che ognuno, il quale sente di essere cristianu, omu per antonomasia, deve farsi rispettare da chicchessia, in qualunque circostanza e atto della vita senza punto ricorrere alle leggi e alle autorità costituite. Chi pensa a questo modo e opera conformemente è un mafioso, com’è un gentiluomo colui il quale, per date offese, lungi dall’invocare il codice pensale ricorre al codice cavalleresco ».

Ma la Mafia cos’è? Chi la credesse una semplice associazione criminosa, con regolamenti ben definiti e con tanti bravi articoli scritti, come qualcuno ha supposto, sbaglierebbe.

La Mafia non è in se stessa una vera associazione di malfattori; ma lo spirito che la informa facilmente può generare le cosche, le fratellanze, che sono state vere società di delinquenti, come quella dei Fratuzzi in Bagheria, degli Stoppaglieri in Monreale, dei pugnalatori in Palermo, della Fontana nuova in Misilmeri, della Mano fraterna in provincia di Girgenti, degli sparatori in Messina.

L’Alongi, che sulla Mafia e sulla Camorra, ha scritto due complete monografie e che nella sua qualità di siciliano e di funzionario di polizia la conosce bene e ne ha descritto l’origine, i costumi, l’atteggiamento, si è rifiutato a definirla.

Ci si provarono due uomini politici di diverso partito e che dal settentrione e dal centro vennero in Sicilia a studiarne le condizioni politiche e morali con diverso carattere. Romualdo Bonfadini, allora deputato, nella relazione della Commissione di Inchiesta parlamentare sulle condizioni della Sicilia nominata nel 1875 così la definisce: « La mafia non è una precisa società segreta, ma lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza, diretta ad ogni scopo di male; è la solidarietà istintiva, brutale, interessata, che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari, tutti quelli individui e quelli stati sociali, che amano trarre l’esistenza e gli agi, non già dal lavoro, ma dalla violenza, dall’inganno e dalla intimidazione ». (Relazione ecc. p.114)

In questa definizione le tinte sono esagerate o falsate. Non sempre la Mafia ha come scopo il male; anzi non di rado, si propone il bene, il giusto; ma i mezzi che adopera sono immorali e criminosi. E ciò specialmente quando esplica la sua azione nei reati di sangue. È falso ancora che tutti i mafiosi rifuggano dal lavoro e traggano gli agi dalla violenza, dall’inganno e dalla intimidazione. Spesso il mafioso, per conservarsi e rivelarsi tale dall’agiatezza passa alla miseria; spessissimo il vero mafioso è persona assai laboriosa, che ci tiene a trarre i mezzi di sussistenza dal proprio lavoro. Non di raro il mafioso che non ha commesso un reato viene processato per coprire i reati degli altri e si rovina economicamente per venire in aiuto agli amici. Il furto, la rapina, lo scopo economico del delitto sono proprio di una Mafia degenerata.

E si comprende agevolmente che questa degenerazione possa avvenire dove c’è una profonda alterazione del sentimento morale.

Si mantiene assai più vicino alla verità il Deputato Franchetti che studiò la Sicilia quasi contemporaneamente alla Commissione d’Inchiesta parlamentare.

Egli scrisse: « La Mafia è unione di persone di ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie, che senza avere nessun legame apparente, continuo e regolare, si trovano sempre riunite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque considerazione di legge e di giustizia e di ordine pubblico; è un sentimento medioevale di colui che crede di poter provvedere alla tutela ed alla incolumità della sua persona e dei suoi averi mercè il suo valore e la sua influenza personale indipendentemente dalla azione dell’autorità e delle leggi ». (Le condizioni politiche e amministrative della Sicilia nel 1876 p.63)

Qui c’è una parte di vero, ma è una parte interessantissima ed è quella che designa la mafia, come un sentimento medioevale e che costituisce lo spirito, che aleggia in Sicilia e in tutto il mezzogiorno d’Italia e che viene rappresentato: dalla profonda e generale avversione verso l’ente governo e verso tutte le istituzioni che ad esse fan capo; dalla diffidenza ineliminabile verso la polizia e la magistratura; dalla salda convinzione che un individuo solo da se stesso e colle proprie mani può ottenere e farsi giustizia vera e completa.

Come e perchè si sia formato questo spirito, storicamente si può dimostrare con una copia ed evidenza di prove quali raramente si riscontrano nella genesi dei fenomeni sociali.

La violenza e la iniquità dei governi che si sono succeduti con vertiginosa rapidità da secoli in Sicilia; la violenza e la iniquità delle classi superiori, che usarono ed abusarono della organizzazione feudale conservatasi nell’isola anche dopo, che fu abolita da per tutto, furono i fattori principali, che agirono dall’alto nel generare lo spirito della Mafia. L’odio di classe tra i lavoratori agricoli e urbani e tra la piccolissima borghesia alimentato dal regime feudale; l’analfabetismo e la miseria, furono i fattori che agirono in basso per diffondere e rendere più profondo lo stesso spirito.

La ricerca storica nel passato trova la conferma contemporanea nelle circostanze seguenti: la mafia, e lo spirito che la genera e l’alimenta, esercita maggiormente la sua influenza nelle provincie di Palermo, di Caltanissetta, di Girgenti ed in parte di Trapani dove prevalgono, isolati o riuniti, il latifondo, l’orrido lavoro delle miniere di zolfo, l’analfabetismo e la miseria. Inutile avvertire che la esistenza di singoli mafiosi agiati o con qualche coltura intellettuale non mette menomamente in dubbio l’azione dei fattori succennati. Si sa indubbiamente che le condizioni igieniche di ogni specie costituiscono l’ambiente fisico-biologico che favorisce lo sviluppo di certe epidemie-colera, tifo, peste bubbonica ecc.; ma quando l’epidemia è sviluppata ne vengono colpiti anche i ricchi e gli intelligenti, che vivono nelle migliori condizioni igieniche. Ciò che avviene nell’ambiente fisico-biologico si ripete analogamente nello ambiente sociale; alla sua azione, quando è viziato, non sfuggono coloro che dovrebbero supporsi immuni.

Capitolo III

Chiunque conosce la storia sa che i governi iniqui e violenti producono sempre e dapertutto la degenerazione morale; quanto più lunga è l’azione dei primi, tanto più profonda deve essere la degenerazione, i cui prodotti assumono le parvenze di caratteri etnici. Ora la Sicilia, senza colpa sua – o meglio la colpa ce l’ha: è bella, è ricca ed è stata sempre agognata da tutti i conquistatori prepotenti – è stata assalita, conquistata ripetutamente da forze preponderanti che l’hanno schiacciata. Tutte le sue numerose rivoluzioni terminarono con lo stabilirvi nuovi tirannici domini; per oltre venti secoli sotto i Cartaginesi o sotto i Romani, sotto i Bizantini o sotto i Saraceni, sotto i Normanni, gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi, i Borboni sempre, sempre e sempre ebbe governanti violenti e disonesti il cui tipo in Verre fu immortalato da Cicerone. « L’aver dovuto per lunghi secoli subire governi stranieri, che cercavano di spogliare e di opprimere il popolo siciliano, hanno fatto nascere in lui una istintiva diffidenza ed un profondo disprezzo verso le leggi e i poteri costituiti » (Vaccaro). Le numerose rivoluzioni cui dovette ricorrere onde scuotere il giogo, non poterono che scavare sempre più l’abisso fra il popolo e l’ente governo.

Tali governi oppressori non potevano che essere odiati; e tali governi non adoperarono soltanto la violenza, ma ricorsero anche alla corruzione. Così, scrisse un modesto siciliano, Ciotti, circa venticinque anni fa: « corrotto il governo, corrotti i suoi agenti, corrotta la pubblica forza per lunghi secoli, a poco a poco la turpitudine nelle masse vestì le forme del dovere e della virtù, si trasfuse nella lingua, negli abiti della vita ed ebbe il suo decalogo. Per questo la giustizia, l’autorità si trovarono circondate da un generale mutismo, nel quale si riverì una virtù ».

In questo mutismo, in questa reticenza generale, che soltanto adesso richiama l’attenzione degli smemorati governanti italiani, l’on. Damiani nella citata Inchiesta agraria fotografava con circa quindici anni di anticipo l’ambiente del processo di Milano con queste parole: « in generale si depone facilmente il falso in giudizio. Le eccezioni sono rarissime qualche volta per favorire un amico, tal altra per spirito di partito, non raramente per ubbidire alla mafia; si dissimula con pertinacia ed imperturbabilmente il vero stato delle cose, e con tanta solidarietà da sviare la giustizia dalla retta via ed a rendere impossibile di procedere contro i falsari. Ciò conduce all’impunibili di molti gravi reati ».

Tutto questo è sufficiente a spiegare le conseguenze del secolare malgoverno politico rappresentato e condensato dal regime dei Borboni.

Chi si volesse contentare delle frasi celebri per fare intendere che cosa sia stato il regime borbonico ripeterebbe il giudizio di Gladstone. Ma il grande statista inglese chiamando il borbonico: governo negazione di Dio – forse esagerando nel giudizio perchè non del tutto esattamente informato – riferì principalmente al regime politico; meglio e più si potrà avere cognizione di quello che esso fosse dal punto di vista sociale, ch’è il lato più generale e più importante; sull’argomento si hanno documenti ufficiali eloquentissimi.

Pietro Ulloa procuratore generale a Trapani in una riservata relazione sullo stato economico e politico della Sicilia, il 3 agosto 1838, scriveva così al ministro della giustizia Parisio: « Non vi è impiegato in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a tirar profitto del suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle fratellanze specie di sètte che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, lì un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un funzionario, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei. Come accadono furti, escono dei mediatori ad offrire transazioni pel recuperamento degli oggetti rubati. Molti alti magistrati coprono queste fratellanze di un egida impenetrabile, come lo Scarlata, giudice della Gran Corte Civile di Palermo, come il Siracusa altro magistrato… Non è possibile indurre le guardie cittadine a perlustrare le strade; nè di trovare testimoni pei reati commessi in pieno giorno. Al centro di tale stato di dissoluzione evvi una capitale col suo lusso e le sue pretenzioni feudali in mezzo al secolo XIX, città nella quale vivono quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal lusso e dal capriccio dei grandi. In questo umbelico della Sicilia si vendono gli uffici pubblici, si corrompe la giustizia, si fomenta l’ignoranza. Dal 1820 in poi il popolo si solleva spinto dal malcontento non dalle utopie del tempo. La sua sollevazione che indubbiamente avverrà potrà paragonarsi a quella dei napoletani sotto gli Aragonesi e gli Spagnuoli, quando il grido del popolo era: Muora il mal governo ».

Il lettore fermi l’attenzione su questo documento di una straordinaria importanza; e ciò non solo perchè con rapide e precise pennellate vi è dipinta la Mafia e le sue cause e la fatalità di una rivoluzione; ma anche e più perchè più tardi dopo sessantanni sotto i Sabaudi, un altro Procuratore Generale, teneva lo stesso linguaggio al Guardasigilli, probabilmente ignorando che aveva avuto un predecessore nel Procuratore Generale Ulloa!

Intanto il mal governo continuava e lo stesso Ferdinando II – Re Bomba – fu costretto a revocare il luogotenente Marchese Ugo delle Favare « per feroce governo e per crudele e sfrenata libidine ».

Ed ora un’ultima e solenne testimonianza su quello che fosse la magistratura e l’amministrazione della giustizia quando la dinastia borbonica era già agonizzante. « Uno dei flagelli della Sicilia sono i magistrati, che manomettono la giustizia e alimentano il malcontento… La magistratura disserve e non serve il governo ed una delle fatalità del paese sta nella mala amministrazione della giustizia civile e penale ».

Chi era questo severo accusatore della magistratura e della amministrazione della giustizia in Sicilia? Maniscalco, il terribile direttore della polizia borbonica, che ebbe in mano la pubblica sicurezza dell’isola dal 1849 al 1860! Dopo quarantanni un Ministro della guerra della Monarchia Sabauda giudicherà con altrettanta severità la magistratura della Sicilia.

Capitolo IV

L’azione del fattore politico veniva rinforzata ed allargata dalla organizzazione economico-sociale. La Sicilia in pieno secolo decimonono e nella parte più colta del bacino del Mediterraneo rimase sotto gli orrori e le angherie del feudalesimo.

In Sicilia non penetrò il soffio della rivoluzione francese, nemmeno sotto la forma attenuata o adulterata della conquista napoleonica: l’isola rimase sino al 1815 sotto la protezione dei soldati e della flotta inglese, che vi mantennero i Borboni.

Nel 1812 il Parlamento siciliano, ch’era rivissuto sotto la protezione inglese, e nel quale prevaleva una aristocrazia culta ed avveduta, fece il suo 4 agosto ed abolì nominalmente il feudalesimo.

L’abolizione si ridusse ad una vera truffa a danno della collettività; le proprietà feudali, ch’erano sottoposte tutte agli usi civici, che limitavano i benefici dei feudatari a vantaggio dei lavoratori, furono trasformate in proprietà allodiali. In compenso delle usurpazioni vere – analoghe alle celebri chimere inglesi – fatte contro la massa, ai Comuni fu ceduta una quarta parte delle terre feudali, che costituirono i demani comunali; ma nell’assegnazione avvennero altre truffe, com’è stato dimostrato da molti scrittori e di recente da Battaglia e da Loncao. Lo stesso governo borbonico più volte legiferò e dette disposizioni amministrative per mitigare il mal fatto; ma sempre invano. D’onde una serie di contestazioni giudiziarie, che dopo ottantotto anni in alcuni paesi ancora durano e che hanno determinate molte insurrezioni agrarie; tra le quali celebre quella di Caltavuturo nel gennaio 1893. Meno male se l’usurpazione economica contro i lavoratori della terra e contro la collettività fosse stata compensata dalla loro emancipazione politica e sociale! Ma no: i lavoratori furono spogliati dell’uso delle proprietà feudali e rimasero servi!

Non si creda a sentimentalismi ed a vaghe frasi di socialisti e di democratici: il fatto è stato dimostrato nella sua triste realtà da tutti gli storici e giuristi della Sicilia; tanto che Sonnino ex ministro di Crispi e conservatore per eccellenza, constatò che l’abolizione legale del feudalesimo nel 1812 e nel 1818 rimase senza effetti reali. « Quella ch’era stata fino allora potenza legale, egli aggiunge, rimase come potenza e prepotenza di fatto e il contadino dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo ed oppresso ».

Giudizi documentati analoghi o più severi se ne potrebbero raccogliere a centinaia; basta per tutti quest’ultimo dello Ispettore Alongi, che riassume fotograficamente i rapporti tra proprietari – più o meno nobili – e contadini. « L’operaio e il contadino sono, secondo il gabelloto, una specie di animale inferiore spesso trattato peggio del suo cavallo da coscia. Egli non può capire, per esempio, perchè i funzionari debbono occuparsi delle violenze gravi che un galantuomo fa ad un servo… Tanto meno poi riesce a comprendere che anche un miserabile ha diritto a giustizia, a godere del porto d’armi, e ad altri privilegi, un tempo riservati solo ai galantuomini. Quel che più li urta poi è la insistenza con cui giudici e funzionari vogliono sapere da loro certe cose intorno ai reati di fresco successi, quasichè un galantuomo debba essere citato a dir quel che sa come qualunque altro; e ve n’è poi di semi-ingenui, che strabiliano nel vedere che un governo debba andar cercando prove e far formalità e spese per mandare un miserabile in galera. Ma che! essi dicono, fatelo sparire senza tanti complimenti ».

In questo pensieri dei galantuomini – e di gran parte delle classi dirigenti – sta tutto intero lo spirito generatore ed alimentatore della Mafia; e viene sorpreso in persone, che spessissimo non hanno mai avuto conti da regolare colla giustizia. Da questi rapporti economici, politici e sociali tra le classi superiori e medie da un lato e le inferiori dall’altro sotto il dominio dei Borboni nacquero queste due gravi conseguenze: uno speciale ed anormale sistema di difesa pubblica e privata dei beni e della vita delle persone ed una speciale amministrazione della giustizia; un odio intenso tra le varie classi sociali, specialmente dei lavoratori della terra contro i galantuomini ed i proprietari.

1°) il governo ufficialmente riconobbe che i metodi ordinari di difesa sociale non erano adatti per la Sicilia. Perciò, sotto i Borboni, la sicurezza pubblica per la parte che concerneva i reati contro la proprietà nelle campagne venne data in appalto – proprio in appalto – alle così dette Compagnie d’armi, sotto il comando di un Capitano, che prestava cauzione al governo e colla quale rispondeva dei furti e dei danneggiamenti di cui non si scoprivano gli autori e dei quali non si poteva ottenere la restituzione o il risarcimento.

Ogni provincia e talora ogni circondario aveva la sua Compagnia d’armi; ma tra le varie Compagnie non c’era solidarietà nè legale, nè morale. Ciascuna Compagnia non rispondeva che dei reati commessi nel proprio distretto; d’onde questa mostruosa conseguenza: una Compagnia d’armi veniva a transazione coi malandrini, coi malfattori di ogni genere e pur di liberare il proprio distretto dalla loro presenza, ne favoriva il passaggio in un distretto limitrofo, a cui addossava la responsabilità delle loro gesta; e proteggeva anche i malfattori purchè essi non si arrischiassero a commettere reati di cui potesse rispondere la Compagnia! Perciò tra le Compagnie dei distretti limitrofi non era rara l’antipatia e la lotta sorda, con quanto vantaggio della pubblica sicurezza, dell’amministrazione della giustizia e della moralità pubblica si può immaginare…

C’era di più e di peggio. Alle Compagnie d’armi poco importava la punizione dei delinquenti; a loro interessava non pagare il valore della refurtiva; perciò essi mercè le loro segrete relazioni e coi delinquenti e coi manutengoli e con altri intermediari venivano spesso a transazioni, ottenevano restituzioni totali e parziali in cambio di altri servizi resi ai ladri o ai loro complici, e della recuperazione della refurtiva e dei mezzi adoperati, per ottenerla non rendevano conto alcuno: nè i superiori politici, nè le autorità giudiziarie indagavano; e non ne avevano il diritto di fronte all’interesse di un appaltatore… della sicurezza pubblica!

Si può credere che questo mostruoso regime, mercè la responsabilità pecuniaria della Compagnia garentisse la sicurezza dei beni rurali. Niente affatto. Il grande, il medio e il piccolo proprietario rimanevano esposti a tutti i danni possibili e immaginabili. 1.° Sorgevano contestazioni sul valore dei beni rubati, che venivano sempre stimati molto al disotto del loro valore reale; 2.° passavano anni ed anni prima che al derubato dalla Compagnia d’armi venisse pagato e compensato il danno; 3.° talora il furto era ingente e la cauzione data dal Capitano non bastando a pagarlo se ne dichiarava il fallimento puro e semplice senza che sorgessero ulteriori responsabilità nel governo.

Questi tre gravissimi inconvenienti conducevano a due conseguenze non meno gravi: 1.° Il derubato, pro bono pacis, o per non soffrire ulteriori danni veniva a transazione colla Compagnia: pel furto di 100 contentavasi di 40, di 50 – di quello che potevasi contrattare – specialmente quando trattavasi di furto di bestiame: il più facile a commettersi dove la pastorizia brada è generalmente prevalente, il vasto latifundium è quasi del tutto disabitato e gli animali sono affidati alla custodia di pochi miserrimi e selvaggi pastori. In questa differenza tra il valore del furto e quello del compenso c’era largo margine agli accommodamenti tra la Compagnia ed i ladri; c’era la convenienza per la Compagnia stessa che i furti – e grossi – avvenissero… L’Intesa, l’accomodamento tra le Compagnie d’armi e i signori ladri era tanto più facile in quanto che il Capitano aveva larghi poteri nel reclutare i suoi dipendenti e li presceglieva tra i più astuti, tra i più coraggiosi, tra coloro che sapevano conservare buone relazioni coi malfattori per potere facilmente scoprire i furti. I Compagni d’armi non erano mai uomini onesti; per lo più avevano subito parecchie condanne o almeno parecchi processi. La loro condizione morale migliorò, però, colla riforma di Nicotera del 1877.

Da ladro, da audace e sanguinario malfattore anzi si otteneva una prima promozione passando al servizio del grande proprietario; ed una seconda più importante passando al servizio dello stato nella Compagnia!

2.° Ma il grande e il medio proprietario non potevano sottostare senza grave loro danno a questo regime di furto legalmente organizzato; perciò essi provvedevano direttamente alla difesa dei loro beni, mercè di un corpo più o meno numeroso di guardie private, chiamate campieri, più o meno generosamente retribuiti.

Il campiere deve – e dico deve, perchè il campiere sussiste ancora, benchè attenuato – rendere sicuri i beni del suo padrone contro il ladro, comunque, e con qualunque mezzo. Esso deve tener testa un po’ al compagno d’armi. Egli, perciò, se la deve intendere un po’ coll’uno ed un po’ coll’altro; e renderà servizi ora all’uno ora all’altro, secondo le circostanze, pur di essere rispettato e temuto da entrambi. Il rispetto di cui si gode, il timore che s’incute sta in ragione diretta del coraggio e della risolutezza mostrati in ogni occasione e specialmente nei più audaci reati contro le persone e contro le proprietà per l’astuzia e per l’avvedutezza.

Perciò da facinoroso, da malfattore sotto il governo borbonico si passava ai servizi del signore, del latifondista, del grande gabelloto, in attesa dell’altra promozione a compagno d’armi di cui si disse precedentemente. Nel reclutamento dei campieri, che sussistono ancora mentre sono scomparsi i Compagni d’armi, il generale Corsi diceva che « il signore purchè fossero uomini di stocco è costretto a chiudere un occhio e magari anche tutti e due nello sceglierli e prenderli della stessa pasta di cui si fanno i briganti » (Sicilia p.303).

Il Generale Corsi si riferiva all’anno 1894 in cui egli scriveva; si può immaginare quale fosse lo stato delle cose quarant’anni or sono sotto i Borboni.

Al latifondista, al grande gabelloto non interessava che la sicurezza dei propri beni, che il governo non poteva garentire; e siccome egli otteneva lo scopo tanto più facilmente quanto più temuto era il suo campiere; quindi egli non solo usava una sapiente selezione – a base di criminalità – nel momento dello arruolamento; ma una volta che lo aveva ai suoi servizi adoperava tutti i mezzi per assicurargli l’impunità, checchè egli facesse, qualunque reato egli commettesse. Era manutengolo di ladri e di briganti? Non importava: purchè i ladri e i briganti non foraggiassero nel latifundium, nel campo del gabelloto. Il campiere sfogava una passione di una donna; sfogava una vendetta ammazzando un antico nemico? Importava meno; anzi giovava: cresceva l’autorità dell’armigero, era più temuto, più rispettato lui… e il latifondo affidato alla sua custodia. e il feudatario, il gabelloto – il cosidetto signore – a delitto consumato lo ricoverava, lo nascondeva, spendeva, prometteva, corrompeva, minacciava, pregava, scongiurava le alte autorità politiche in favore del presunto delinquente, a tutti noto come autore del reato, ma che raramente veniva processato, e più di rado condannato!

Questo signore complice del campiere, in tutto il resto poteva essere – ed era spesso – un uomo onestissimo; e tale è ritenuto oggi il Principe Mirto, ai cui stipendi stava il fontana, che venne processato per vari gravi reati e che è ritenuto essere l’assassino materiale del Commendatore Notarbartolo…

Ma il signore, sotto i Borboni e i Sabaudi, a chi in nome della legge e della moralità gli muove rimprovero della protezione accordata e dei servizi accettati dal campiere malfattore crede in buona coscienza di potere trionfalmente indirizzare questa domanda, a cui sa che non si può dare risposta: e se caccio via il campiere delinquente chi mi garantisce la sicurezza delle mie proprietà?

La forza di questa domanda venne riconosciuta anche dal Generale Corsi.

Quale fosse la condotta del campiere verso il lavoratore si può immaginare; di ordinario era semplicemente scellerata.

Egli armato di fucile e di pistole, guardava il contadino dall’alto in basso; lo tormentava e lo angariava come nei peggiori tempi del feudalesimo; le angherie e i tormenti che infliggeva il campiere erano assai più crudeli di quelli che potevano venire indirettamente dal signore perchè il primo era rozzo, analfabeta, abituato al delitto.

Se il Signore era di animo malvagio e prepotente il campiere non serviva soltanto nella campagna ed a difesa della proprietà; ma diveniva il bravo dei Promessi Sposi, il sicario scellerato, lo strumento di ogni nequizia…

E i piccolo proprietari? Essi in generale non potevano mantenere e pagare i campieri; erano dunque le vittime dei campieri, dei compagni d’armi e dei ladri. Il meglio che potevano fare era d’intendersela cogli ultimi, e di un certo rispetto potevano godere rendendo a loro servizi di ogni genere occultandoli, servendoli in ogni guisa, pagando a loro un tributo proporzionato ai loro beni.

C’era un altro modo di procurarselo il rispetto: procurarselo a difesa dei propri beni ed anche, volendo, per assicurarsi altri lucri; il mezzo era quello di acquistarsi fama di mafioso col coraggio, colla solidarietà col delinquente, col rifiuto sistematico di cooperare colla polizia e colla magistratura nelle indagini sui reati.

E il coraggio era più apprezzato in basso se era stato spiegato più che contro i privati e i singoli cittadini, contro i campieri e contro i compagni d’armi.

La fama di mafioso acquistata in quest’alterno modo era la più legittima e la più ammirata da tutti; e così talora il mafioso anche pei reati commessi trovava simpatia tra persone oneste, perchè quei reati erano stati consumati a danno di altri peggiori malfattori impuniti perchè protetti dai potenti.

Tutta la soma di questa organizzazione incivile, criminosa pesava sul popolo lavoratore; i cui elementi più arditi spesso dalla prepotenza altrui erano spinti fatalmente alla ribellione ed alimentavano nelle folle l’odio ardente contro le classi superiori.

Questo odio inestinguibile e giustificabile generò le insurrezioni agrarie ogni volta che si presentò favorevole l’occasione; perciò in tutti i moti politici appena allentavasi il freno delle autorità ed il popolo aveva la forza con sè, credeva di esercitare un diritto abbandonandosi a feroci vendette.

Così avvennero i massacri dei signori, dei galantuomini nel 1820, 1837, 1848, 1860 a simiglianza dei moti della Jacquerie, dell’Anabattismo e di quelli più recenti dei contadini in Gallizia.

Ma la ribellione collettiva non era sempre possibile; lo era quella individuale, la cui trama è criminosa.

L’organizzazione politico-economico-sociale dà ragione, quindi del prevalere in Sicilia della delinquenza sanguinaria e maggiormente dove il regime feudale rimase immutato anche nelle apparenze; spiega pure la prevalenza, – si potrebbe dire la esclusività – dei contadini e dei pastori tra i briganti. E questi ultimi raramente taglieggiavano i piccolo proprietari e i lavoratori; spesso li aiutarono con denaro e ne fecero le vendette. Ciò che li fece guardare con simpatia in basso, dove venivano considerati ed ammirati come giustizieri, e permise che tenessero la campagna per lungo tempo – favoriti anche dalla mancanza di strade e dalle condizioni demografiche – non ostante le taglie e la caccia, che in certi momenti davano loro le autorità politiche a militari.

Il pullulare dello spirito della mafia in un siffatto ambiente era il fenomeno più naturale di questo mondo; sarebbe stato strano che non fosse sorto un tale spirito qualunque ne avesse potuto essere la denominazione.

Le stesse cause dettero dovunque gli stessi effetti; perciò dovunque ci fu malgoverno sistematico ed oppressione sociale vediamo sorgere associazioni segrete più o meno analoghe alla Mafia talora più vaste e con impronta più spiccata politico-sociale; ma sempre impeciate di criminalità. Così sorsero la Sainte Veheme e la Iacquerie. Così in Piemonte e in Lombardia sotto il malgoverno degli Spagnoli – esiziale in Sicilia perchè più a lungo durato e non sostituito da altro meno cattivo. Dello spirito che animò i compagni d’arme, i campieri e i mafiosi ce n’era un poco anche nel mite Renzo Tramaglino come ha osservato Gaetano Mosca. Così a Napoli sorge e dura ancora la Camorra; e negli Abruzzi, quando non esisteva più il brigantaggio avvennero incendi numerosi ed uccisioni di bovi nel 1877 in odio a ricchi proprietari spesso usurpatori di terreni comunali; e in un comune di Basilicata i contadini si confederarono in setta di mutuo soccorso per false testimonianze, sempre benevoli al proprio ceto in caso di liti coi possidenti, per offese private o per questioni demaniali (Turiello); nelle Romagne sotto i Pontefici ci furono le squadracce e alle porte di Roma sino a pochi anni or sono potè regnare il brigante Tiburzi; nel mezzogiorno continentale per secoli potè fiorire i brigantaggio – le cui cause politiche e sociali furono messe in evidenza nel Parlamento italiano – dal 1861 al 1866; in Irlanda germogliarono i fanciulli bianchi, il ribbonismo, i molly maguir, i feniani e tutti i delitti agrari che la caratterizzarono sino a poco tempo fa. La fenomenologia identica si ripete sotto tutti i climi e con tutte le razze dovunque agiscono le stesse cause.

La Mafia in Sicilia sotto i Borboni divenne l’unico mezzo per gli umili, pei poveri, pei lavoratori per essere temuti e rispettati, per ottenere la forma di giustizia ch’era compatibile in quelle condizioni e che non era possibile ottenere nelle forme legali. E alla Mafia si dettero tutti i ribelli, tutti gli offesi, tutte le vittime: sia attivamente, sia passivamente occultando le gesta criminose e proteggendone, comunque, gli autori, creandole un ambiente favorevole.

Sicchè la qualifica di mafioso nel passato non venne ritenuta offensiva; e mafioso nelle buone famiglie chiamavasi scherzevolmente qualunque ragazzo coraggioso, ardito, indipendente.

Su questo fondo di giustizia sociale che servì a creare lo spirito della Mafia e dette corpo alle sue manifestazioni s’intende che s’innestarono tutte le tendenze perverse, tutte le passioni losche, tutte le cause e gl’incidenti della delinquenza volgare. Ma nello insieme essa nacque e fu mantenuta dalla generale diffidenza contro il governo; dalla sua impotenza e dal malvolere nel rendere giustizia, dalla coscienza profonda che l’esperienza aveva dato agli uomini che la giustizia bisognava farsela da sè e non sperarla dai poteri pubblici.

Ecco il criterio e la base medioevale giustamente segnalata dal Franchetti nella sua definizione.

La Mafia, in fine, rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borboni; e in questo addentellato politico sta una delle cause del rispetto e della devozione della medesima verso l’aristocrazia, che in massa era avversa ai Borboni, come notò Alessandro Tasca. I più noti mafiosi furono di più valorosi combattenti nelle cosidette squadre nel 1848; gli stessi Mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi alle porte di Palermo e dentro Palermo.

Quando trionfa la leggendaria spedizione dei Mille di Marsala, nel momento in cui una nuova vita doveva cominciare per la Sicilia, la mafia, specialmente nella provincia di Palermo, si trovò circondata dall’aureola del patriottismo e col battesimo del sangue versato in difesa della libertà.

I Borboni crearono la mafia; vediamo ciò che hanno saputo fare i Sabaudi per distrurla. 

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Pubblicato da terrazze Studio Garufi&Garufi

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi ha insegnato Lettere, Storia dell0Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie su Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini e Enrico Guarneri (Litterio).

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