Il costo del libretto allegato alla mostra è dei 5 euro.
Salvatore Paolo (Rocambole) Garufi
Berretti, cappelli e camicie rosse
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Presupposti della Rivoluzione nazionale nella Sicilia dei Borbone
in 60 momenti storici
1. La rivolta di Bronte
La lotta contro i privilegi feudali nel Regno delle Due Sicilie si concluse sotto il caldo agostano del 1860, quando nella piazza di Bronte irruppe una rivoluzione senza pietà del prossimo e senza timor di Dio. Era la mattina del due, giovedì, e quel giorno i benestanti capirono che ci si può fare davvero male, se si cade dai piani alti della società (i, ci si fa male, se si cade. 000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000000.
La folla si mosse come un elefante impazzito, invincibile e completamente sorda ai richiami del suo padrone, che da qualche anno era l’avvocato Nicolò Lombardo.
“Costui” testimoniò Benedetto Radice, coevo scrittore brontese, “era a capo di quel partito definito comunista, che nell’impazienza degli oppressi aveva sperato di cogliere la palla al balzo, per recare nelle sue mani il potere.”
Il comunismo, ovvero la spartizione della terra, era un ideale che la vecchia setta dei carbonari aveva posto come ultima, segretissima meta. Ora, per arrivarci, in ogni città ed in ogni villaggio della Sicilia venivano agitati gli argomenti più adatti a suscitare la rivolta popolare. Sarà, questa, una delle parole d’ordine per tutto il resto del secolo e per l’intero Novecento.
A Bronte, poi, non mancavano i motivi del malcontento. Pesava su quella comunità di contadini e di pastori il feudo dei Nelson, grande quanto tutto il territorio della frazione di Maniace. Così, mentre il freddo invernale e le male annate falcidiavano i figli dei poveri, troppa terra restava sterile di cibo; terra, per di più, nella quale era severamente punito persino il furto di una fascina di legna, che tenesse vivo il braciere. Oggi, quindi, è facile dedurre che in quel 1860, se c’era spazio per la rabbia e le illusioni, non ce n’era per i ragionamenti. Era l’epoca dei capipopolo alla Lombardo, quella!
2. La rabbia dei “berretti” e dei “cappelli”
Paura e rabbia accecavano da tempo soprattutto il notaio Ignazio Cannata. Per questo non ce l’aveva fatta, a tenersi dentro la bile, quando, un mese e mezzo prima di quel 2 agosto 1860, era stato inalberato il tricolore al balcone del Casino dei Civili.
Di contro agli applausi ed agli entusiasmi dei paesani, livido e provocatorio, s’era lasciato uscir di bocca:
“Perché non si leva ‘sta pezza lorda?”
Ora, addirittura, Cannata si presentava con una doppietta, netto nel suo rifiuto delle storiche novità che aveva davanti. I larghi baffi, irti sulle gote arrossate dall’ira, fronteggiavano i villani; i quali, sciolti i lacci del timore, cominciavano a ringhiargli intorno, a chiedergli conto e ragione delle sue ricchezze, a rinfacciargli prepotenze e malefatte…
Era troppa, però, la sua abitudine al comando (e troppo insufficiente la sua intelligenza), per mantenere la prudenza. La duttilità mentale non appartiene a chi ha avuto dalla sorte una condizione di privilegio.
“Sono i tempi di Frajunco, questi” disse al rispettato barone Meli, venuto sopra una sedia, perché sofferente di podagra, con l’incarico di placare gli animi. “Guardatelo, il nuovo caporione di Bronte!”
Il contadino Nunzio Ciraldo, detto Frajunco, era lo scemo del paese e scendeva in piazza con la testa coronata da pezzuole tricolori ed una fèrula come scettro. Già dalla notte, andava in giro, annunciando:
“Attenti, cappelli, che l’ora del giudizio si avvicina!”
Attorno a lui c’era tutto un serpeggiare di movimenti, di risa sguaiate, di minacce; c’era, ancora, un continuo chiamarsi a vicenda, il manifestarsi di rancori vecchi e nuovi, un battere ai portoni serrati.
“Popolo, non mancare all’appello!” urlava Frajunco al popolo, che per risposta gli marciava accanto.
“Volete farci linciare tutti?” sibilò il barone Meli, impressionato dallo spettacolo.
“Me ne porto dietro qualcuno, all’inferno!” rispose Cannata.
3. La morte del notaio Cannata
L’inferno il notaio Cannata lo vide verso le tre pomeridiane, quando la folla ruppe ogni indugio ed andò a cercarlo dove moglie e figli lo obbligavano a starsene rintanato. Si cominciò da lui, perché era lui che aveva il vizio di dirlo chiaro ed in faccia a tutti, cosa pensava di Garibaldi.
“Scendi, notaio, che prima delle tue terre ci prendiamo la tua carne di porco!” uno sghignazzò alla porta.
“Affàcciati con la doppietta, cornuto!” inveì un altro. “Che forse non t’è bastato tutto il sangue che ti sei succhiato!”
Cominciarono a tirare pietre alle finestre ed il frantumarsi dei vetri fu il sinistro avvio dell’Apocalisse. Mani che impugnavano falci, zappe, asce e martelli si levarono e presero a picchiare sui muri e sulla porta. Di minuto in minuto, la folla s’ingrossava e le intenzioni si facevano più truci. Una fervida impazienza di far male s’impadronì degli assedianti e ne centuplicò le forze. Fu portato un tronco d’albero da una vicina falegnameria e si buttò giù il portone.
Il notaio fu trovato nella stalla, non più tanto sicuro dei fatti suoi. Stava accovacciato in uno sportone di letame, col corpo che la paura aveva reso una tremolante massa gelatinosa.
“Sta in mezzo alla merda!” esclamò chi lo trovò.
“Ora laveremo la pezza lorda di Garibaldi nel tuo sangue di ladro!” latrò rauco un altro, brandendogli un’ascia davanti agli occhi dilatati per il terrore.
Allora, gli strapparono i vestiti e lo legarono per i piedi. Uno, con un secco colpo di roncone, lo evirò.
“Tanto dove vai non ti serve” sentenziò sarcastico, mostrando il pene staccato.
Poi, lo strascinarono sanguinante per le scoscese vie di Bronte, punzecchiandolo coi coltelli, affondando nella carne viva e dolorante calci e bastonate, facendogli “assaporare a centellini gli spasimi della morte (come, poi, raccontò Radice).
Ci fu uno, di Maletto, che, dopo avergli vibrato una coltellata nella pancia, portò alla bocca la lama insanguinata. “Lui s’è succhiato il mio sangue ed io mi lecco il suo!”
Quindi, un certo Bonina, detto Caino, gli aprì il fianco e gli strappò il fegato. “Sentiamo che sapore ha…” gridò e affondò un morso.
4. L’eccidio
A Bronte le stragi furono come le ciliegie: l’una chiamava l’altra. I cappelli furono tutti cercati dai berretti, senza sconti, né pietà. Di quelli che trovarono, nessuno venne risparmiato. Il padre di Benedetto Radice, sentendosi chiamare, si affacciò sulla soglia di casa e ingenuamente ebbe fede nella forza della sua coscienza pulita.
“Eccomi” disse. “Se ho fatto mai del male, uccidetemi.”
Vicino a lui, ginocchioni, il figlio del notaio Cannata, aveva soltanto la forza di guaire: “Grazia, vi prego, grazia…”
Gli era accanto la moglie, tutta discinta, che invasata, con l’energia della disperazione, urlava: “Ricordatevi che è padre di due figli!”
Ma, gli insorti non smisero di schiamazzare, chiedendo altro sangue. Partirono i lampi di due schioppettate ed il giovane Cannata stramazzò, mentre il Radice si salvò poiché, svenuto, fu creduto morto.
In tanto scatenarsi di ferocia, apparvero tardivi gli sforzi dell’avvocato Lombardo, capo degli insorti, per placare la belva.
Il sabba della rivoluzione infuriò senza alcun argine per tutta la giornata, guidato soltanto dall’unico sentimento di giustizia sociale che si ha in tali momenti: volere nella polvere chi sta sopra.
“E in quel carnevale furibondo” scrisse con impareggiabile poesia Giovanni Verga, “in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.”
Ecco perché, quando arrivarono a Bronte le camicie rosse, su ordine del generale Nino Bixio, l’avvocato Lombardo e quelli che erano stati più in vista vennero arrestati, processati e condannati alla fucilazione.
L’esecuzione avvenne nel piazzale dello Scialandro.
5. I Mille e la seconda guerra d’indipendenza
La premessa del movimento garibaldino al Sud ci fu il 22 maggio del 1859, quando, nel bel mezzo della guerra tra i franco-piemontesi e l’Austria, morì Ferdinando II di Borbone.
Purtroppo, il nuovo Re del Regno delle Due Sicilie, Francesco II, aveva commesso l’errore di non accettare subito la proposta del Cavour di partecipare al conflitto come terzo alleato. L’avesse fatto, forse, anziché un Regno d’Italia, sarebbero nati due regni, uno al nord ed uno al sud, lasciando disoccupato Bossi.
Sfortunatamente per lui, Francesco II non dimostrò molta prontezza nel cogliere le novità dell’epoca. Perciò, quando il 25 giugno 1860 si decise a proclamare lo Statuto (cioè, la Costituzione) e ad aderire all’offerta piemontese, era ormai troppo tardi. Quella vecchia volpe di Camillo Benso conte di Cavour tergiversò, quanto bastava per permettere a Giuseppe Garibaldi di finire il suo lavoro.
Il Cavour, secondo lo storico Denis Mac Smith, approfittò della risposta negativa di Francesco II per screditarlo presso i liberali.
S’incominciò a tramare un’insurrezione in Sicilia: un primo movimento insurrezionale avvenne il 4 aprile a Palermo, nel convento della Gancia, e un altro seguì due giorni dopo a Messina; ma vennero facilmente repressi.
Si formarono tuttavia delle bande armate riunitesi poi intorno a Rosalino Pilo. A sostenere e diffondere la rivolta una spedizione fu preparata a Genova, soprattutto da Francesco Crispi, per opera di esuli siciliani e coll’aiuto della Società Nazionale.
Prima e dietro ogni cosa c’era l’azione instancabile del Mazzini.
6. I dubbi del Risorgimento
La diplomazia era stata efficace per annettere la Lombardia al Piemonte.
Ma, l’alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II non c’era più, se si portava la conquista alle terre meridionali.
Era stato, infatti, proprio l’Imperatore francese a convincere il Re Borbone a tentare di salvare il regno dall’espansionismo dei piemontesi, intavolando trattative con loro.
“Un’Italia spezzata in due” pensava Napoleone III, “è forte al punto giusto per dar fastidio all’Austria, senza essere ingombrante per la Francia.”
C’era, inoltre, il problema dello Stato Pontificio. Roma doveva restare sotto il governo del Papa, pena la perdita del consenso dei cattolici francesi, sul quale si reggeva il consenso a Napoleone III.
“Queste dannate campagne militari di Garibaldi!” pensava, ancora, l’Imperatore. “Si sa dove cominciano, ma non dove finiscono! O, meglio, si sa fin troppo bene dove vogliono finire: a Roma, purtroppo.”
Da Cavour, al contrario, finì per non eessere malvista un’azione di forza al Sud e l’unico che potesse realizzarla era Garibaldi.
“A patto, ovviamente…” come fece capire in una lettera al suo collaboratore Costantino Nigra, “che sia ben preparata, strettamente controllata (dato il carattere di avventuriero del personaggio) ed, infine, fermata nel momento giusto.
7. Caracciolo e le riforme
In Sicilia i presupposti politici della Rivoluzione nazionale risalivano a ben prima del 1860. Già dalla fine del Settecento, infatti, la composizione sociale nei paesi dell’isola era cambiata.
Per fare un esempio che valga per tutti, sappiamo che nella città di Militello in Val di Catania (CT), dal Settecento era molto presente e potente la categoria dei professionisti. Così, quando dopo l’arrivo dei garibaldini, fu votata la decadenza del regime borbonico, in una popolazione che non arrivava a diecimila abitanti, si trovarono a dare il voto favorevole: 28 sacerdoti, 6 padri benedettini, 15 avvocati, 12 medici, 5 farmacisti, 4 architetti e 3 notai.
Tali presenze intellettuali venivano dall’ambiente favorevole creato dal viceré Domenico Caracciolo, che fece egregie cose per modernizzare la Sicilia:
– Con ordinanza dell’8 novembre 1788 abolì le angarie (cioè, le prestazioni lavorative obbligatorie e gratuite);
– con ordinanza del 4 maggio 1789 liberò i sudditi dalle servitù personali;
. nella deputazione del regno (nominata direttamente dal viceré e non più dal parlamento) i nobili passarono da dodici (la totalità) a quattro;
. fu introdotta la vaccinazione antivaiolosa;
– fu proibita la monacazione dei minorenni e dei figli unici.
8. Il collegio Capizzi
Molti professionisti siciliani che vennero alla ribalta come classe diregente dell’epoca del Caracciolo avevano studiato in scuole prestigiose anche per i nuovi metodi di insegnamento.
Particolare rinomanza ebbe, per esempio, il collegio Capizzi di Bronte. Esso continuò ad essere molto reputato anche nell’Ottocento e per buona parte del Novecento, tanto che, insieme al Pennisi di Acireale, fu un pilastro dell’educazione dei futuri scrittori, dei futuri politici e dei futuri burocrati della Sicilia orientale.
L’istituto brontese era stato aperto dal Venerabile don Ignazio Capizzi (e costruito in soli quattro anni, dal 1774 al 1778), col nome di Reggie Pubbliche Scuole di Educazione.
“Grazie all’illuminata protezione di sua maestà Carlo III di Borbone” usavano dire i suoi professori, “il nostro Collegio è diventato un faro del sapere. Nei pochi anni della sua esistenza ha già potuto conquistarsi un’acclarata fama, come centro di sapienza e dottrina. Questo per il rigore delle Regole, che sono quelle volute dal suo fondatore. Esse prevedono obblighi e doveri, sia per i convittori, che per i professori. Latino, greco ed eloquenza sono per noi le materie regine e disponiamo di un ricco patrimonio librario, in parte proveniente dalla collezione personale dello stesso don Capizzi.”
Divenuto laico dopo l’Unità d’Italia, col nome di Real Collegio Capizzi, l’istituto brontese continuò ad ospitare personaggi destinati a farsi un nome. Un adolescente Luigi Capuana, fra gli altri, vi compose i primi versi.
9. Caramanico e la massoneria
Il vicerè di Sicilia che succedette al Caracciolo fu il Gran Maestro della massoneria Francesco Maria d’Aquino, principe di Caramanico.
Le prime logge massoniche di cui in Sicilia si ebbe notizia risalivano al 1754 ed operavano sotto l’autorità della Loggia di Marsiglia. Nel 1760 esse ottenevano una nuova Costituzione dalla Gran Loggia d’Olanda.
Appena sette anni dopo, però, le logge siciliane passarono al rito inglese, finché non si deliberò di costituire una Gran Loggia Nazionale dello Zelo a Napoli.
Questa, a sua volta, costituì quattro nuove Logge: della Vittoria, dell’Uguaglianza, della Pace e dell’Amicizia. Confermò, inoltre, due Logge dipendenti, una a Messina e l’altra a Caltagirone. In seguito, nacquero anche le logge di Catania e di Gaeta.
Nel 1779 esisteva la loggia dell’ardore di Catania, quando la Gran Loggia Nazionale di Napoli era guidata da Diego Naselli e aderiva al rito dei riformati di Lione.
Dopo avere incorporato la loggia degli intraprendenti di Caltagirone, quella di Catania contava diciotto membri. Altre logge in Sicilia erano quella della Vittoria di Trapani (quindici membri), quella della Concordia di Palermo (ventisei membri) e quella de’ Costanti o della Riconciliazione di Messina (quindici membri).
10. Manifesto massone
(7 dicembre 1775)
Precisiamo ancora che in questa città si trovano anche due Logge irregolari, che non sono state da noi mai riconosciute. La ragione è d’una parte perché non sono state costituite in concordanza con i veri principi dell’Ordine, volendo essere governate da Superiori esteri, d’altra parte perché nel nostro paese sono atte piuttosto ad ostacolare i veri scopi, i loro membri essendo esclusivamente delle persone che consideriamo indegne di essere da noi accettate. Oltre a queste due, vi è in quest’Oriente ancora una Loggia piccolissima e completamente degradata, sotto la guida del Principe di Ottajano, il quale, pur essendo stato iniziato da noi, in seguito si è lasciato trascinare dal falso orgoglio di voler essere alla guida di una Loggia. Attraverso diversi maneggi egli ha carpito una Patente dal Duca di Lussemburgo, il quale alcun tempo fà era qui presente, quale Grand Administrateur Général delle Logge francesi (…) Egli ha cominciato i suoi lavori irregolari con alcuni Francesi e Napoletani, e persiste tuttora, malgrado il fatto che il Duca di Lussemburgo stesso, dopo aver avuto conoscenza della vera natura delle circostanze, ha riconosciuto la nostra autorità, ritirando la Costituzione da lui concessa. In conseguenza consideriamo la sua Associazione come una Loggia irregolare.
11. Radici secentesche della classe dei funzionari
La crescita dei professionisti che avevano finito per aderire alla massoneria in Sicilia era stata favorita dalla necessità di avere funzionari capaci nei nuovi centri urbani che, a partire dal XVII secolo, nascevano attorno all’imprenditoria agricola dei feudatari siciliani (qualcuno la definirà capitalismo feudale).
Nel catanese le maggiori realtà di questo tipo furono: Mirabella Imbaccari nel 1681 (309 ab.), Belpasso nel 1613 (3.763 ab.), Mascali nel 1623 (570 ab.) e, tutte nate nel 1651, Scordia, Camporotondo, Mascalucia, Massa Annunziata, San Pietro Clarenza, Gravina.
Verso Ragusa vennero fondate Santacroce nel 1605 e Vittoria nel 1616, città, quest’ultima che passò dai 691 ab. dell’anno di fondazione ai 3.950 del 1681, per arrivare ai 5.668 ab. nel 1714.
12. La Rivoluzione francese e Napoleone
Nel Regno borbonico dei gran cambiamenti vennero da quel ciclone chiamato Napoleone Bonaparte.
In verità, però, ad interrompere la disponibilità riformatrice di Ferdinando III di Borbone, erano già arrivate le paure suscitate dalla rivoluzione francese del 1789, dato che la moglie Maria Carolina, la vera padrona del regno, era sorella della decapitata regina Maria Antonietta.
Nacque, così, un generale clima di sospetto, tragicamente confermato il 9 gennaio 1795 dall’improvvisa morte del Caramanico. Si parlò di veleno, dato che chi ci guadagnava era l’amante della regina, lord Acton.
Ad aggravare la situazione, in quello stesso anno, durante la Settimana Santa, vi fu un tentativo insurrezionale repubblicano, capeggiato dal giurista Francesco Paolo Di Blasi (poi decapitato il 20 maggio).
13. Carlo Cottone
Le fibrillazioni causate dall’irrompere in Italia delle armate napoleoniche fecero della Sicilia un interessante laboratorio politico. Si costruì in quell’occasione una alternativa moderata alla rivoluzione.
Il protagonista del riformismo siciliano nei primi dell’Ottocento fu il principe Carlo Cottone di Castelnuovo, che grazie alla protezione del plenipotenziario inglese in Sicilia, lord Bentinck, riuscì alla fine a far approvare una Costituzione liberale.
Purtroppo, tale cambiamento politico non bastò ad evitare le tempeste abbattutesi sul governo siciliano. Non si riuscì, per esempio, ad alleviare il peso fiscale.
I ministeri, inoltre, erano sistematicamente attaccati da sinistra, con le critiche del deputato catanese Emanuele Rossi e del senatore palermitano Giuseppe Vaccaro.
La situazione esplose dopo un discorso del presidente della Camera dei Comuni, Cesare Airoldi, in cui i deputati venivano esortati ad occuparsi prima di tutto delle dissestate finanze del Regno.
Si realizzò a quel punto il convergente attacco dei demagoghi di snistra e dei moltissimi realisti ferdinandei eletti nel nuovo parlamento, apertosi il 18 luglio 1813.
Puntualmente, perciò, arrivarono i disordini a Palermo, nella notte del 18 luglio.
A questo punto, il principe Carlo Cottone di Castelnuovo dovette lasciare il governo.
14. I poteri del Re nella Costituzione siciliana del 1812
Art. 1 La religione dovrà essere unicamente, ad esclusione di qualunque altra, la cattolica apostolica romana. Il re sarà obbligato a professare la medesima religione, e quante volte ne professerà un’altra, sarà ipso facto decaduto dal trono.
(…)
Art. 3: il potere esecutivo risiederà nella persona del re;
(…)
Art. 5: la persona del re sarà sacra ed inviolabile;
(…)
Art. 9: sarà privativa del re il convocare, prorograre e sciogliere il Parlamento, secondo le forme ed istituzioni che si stabiliranno in appresso.
15. Cronici, anticronici e la nascita del Regno delle Due Sicilie
Col ministero del marchese Ferreri, successo a Cottone, i fermenti, lungi dal placarsi, portarono a contrapposizioni fra deputati, divisi in cronici ed anticronici.
I primi erano i costituzionalisti, sostenuti dal giornale “La cronaca di Sicilia”; i secondi erano i loro avversari. Data la rivalità tra i due capi, Cottone e Ventimiglia, un altro modo di chiamare le due fazioni era quello di villermosisti (Cottone era principe di Villermosa, oltre che di Castelnuovo) e belmontisti (essendo il Ventimiglia principe di Belmonte).
Disgraziatamente, le simpatie inglesi verso il regime costituzionale erano troppo asservite alle variabili della guerra a Napoleone, per rappresentare un forte baluardo a favore delle argomentazioni dei cronici villermosisti.
Col ritorno di Bentinck dalla campagna di Catalogna, comunque, il parlamento venne sciolto e Cottone fu richiamato al governo.
Questa volta, però, si volle mettere insieme la sinistra villermosista e la destra belmontista. Si tentò, cioè, quello che oggi si chiamerebbe inciucio, o governo di larghe intese.
Ma, com’era prevedibile, ciò non bastò a placare i continui dissidi tra deputati. Già i siciliani sono nati litigiosi. Se poi sono siciliani e pure deputati, è facile immaginare il caos.
La conclusione fu la più ovvia: nel 1814 il Ventimiglia finì per invocare il ritorno al potere di Ferdinando.
“Il mio affare è fatto: si richiami il re e torno alla mia vita privata!” esclamò Cottone in parlamento, per tutta risposta.
Figurarsi se il branco parlamentare perdeva un’occasione così ghiotta di liberarsi di un leader! Il re venne richiamato e successe ciò che il Medici (futuro primo ministro del Regno delle Due Sicilie) aveva, più o meno, confidato ad un collaboratore:
“Molti siciliani preferiscono perdere nel modo peggiore, pur di non darla vinta ad un avversario migliore.”
Tramontato l’astro di Napoleone, la Sicilia perdette ogni interesse strategico per l’Inghilterra (per le basi navali, Malta era più che sufficiente).
L’11 luglio 1814, al posto di Bentinck, venne William ‘A Court. Il Regno di Sicilia non ebbe neppure rappresentanza al Congresso di Vienna.
Nel 1815 Ferdinando mise definitivamente fine al Regno autonomo di Sicilia. Nasceva il Regno delle Due Sicilie.
16. Lavori pubblici a Militello nel Regno delle Due Sicilie: acquedotto
Nel giro di ventitré anni le autorità della cittadina di Militello intervennero più volte sul problema dell’acqua. La più antica notizia al riguardo risale proprio all’anno di nascita del Regno, il 1815, quando il perito Fragalà costruì la canalizzazione dell’acqua della fonte Zizza da Piazza Maggiore a via Porta della Torre.
Seguirono a intervalli opere di manutenzione e di miglioramento: nel 1819 l’architetto Francesco Capuana effettuò un sopralluogo nella sorgiva della Zizza; nel 1821 si fecero lavori di manutenzione della linea dell’acquedotto; nel 1825 il mastro Mario Messina e gli eredi di Francesco Messina eseguirono viattazioni e ripari nella sorgiva della Zizza e tentarono la canalizzazione dell’acqua del Lembasi.
Finalmente, il 30 giugno 1831, come da ricevute date dai sindaci, fu affisso nei comuni di Scordia, Vizzini, Mineo e Caltagirone il primo avviso per appaltare i lavori nell’acquedotto di Militello.
Nello stesso anno il perito Tinnirello scriveva una relazione sui catusi realizzati e dava notizia dell’acquedotto cosiddetto della Strada Corta, costruito con tombonelli(?) di calce e cenise, ed indi coperto di balatato nero, in cui passaro le acque piovane che raccogliono varie strade interne, non solo, ma pure lo scolo dei pubblici canali di detta Comune.
Nel 1832, ancora, venne dato l’appalto per la conservazione dell’acquedotto e fontane; infine, nel 1838 il mastro Salvatore Lo Drago di Messina s’era preso l’incarico di una guida dell’acquedotto pubblico, con le annesse riparazioni.
17. Lavori pubblici a Militello nel Regno delle Due Sicilie: lluminazione, orologio, edifici religiosi
Resta una corrispondenza del 1819, nella quale Giovan Battista Patricolo si impegnava a costruire dei fanali a lume inglese nei pressi del palazzo comunale.
Il 7 febbraio 1820, inoltre, venne pubblicato l’avviso per procedere all’appalto per la costruzione del nuovo orologio pubblico, seguendo i criteri stabiliti nella relazione del perito mastro Domenico D’Agata di Aci Sant’Antonio. Il successivo atto per procedere alla costruzione è datato 2 agosto 1820. Il macchinario fu collocato sulla facciata della Chiesa Madre del SS. Salvatore.
Nel 1828 venne imposta la realizzazione dei camposanti fuori dall’abitato. Così, secondo una relazione del 1853 dell’amministrazione catastale, l’area destinata a cimitero misurava 698 metri quadrati.
“A questo riguardo, però” scrisse l’architetto Mancuso, “va notato che a quell’epoca fra i Comuni del distretto di Caltagirone, solo Militello aveva un cimitero e che nell’intera provincia di Catania ne risultavano dotati solo nove comuni su un totale di sessant’uno.”
Non mancarono neppure i lavori di rifacimento degli edifici religiosi, attorno ai quali all’epoca ruotava gran parte dell’economia e la vita sociale. Nel 1845, per esempio, i francescani procedettero alla radicale ristrutturazione del loro convento. L’architetto fu Mancuso, che adottò una soluzione che non si dimostrò felice. Anziché demolire la vecchia struttura, per costruire ex novo, egli preferì realizzare dei muri interni alla chiesa esistente, lavoro che sarebbe risultato poco solido, per il diverso assestamento dei due corpi nel terreno.
18. Lavori pubblici a Militello nel Regno delle Due Sicilie: viabilità
Proprio al contrario di quel che comunemente si crede, la viabilità fu uno dei migliori lasciti borbonici.
Il più antico avviso per la costruzione della strada Scordia-Militello è datato 18 novembre 1823.
Più in generale, per i collegamenti nell’isola, il 20 aprile 1830 veniva fissato con apposito avviso il dazio di pedaggio nelle strade rotabili di Sicilia. In relazione a ciò, il 18 maggio 1830, venne annunciata l’apertura della rotabile che univa Catania con Palermo e Messina per mezzo di due lunghi tronchi di strada che incontrano la consolare, uno ad Adernò, e l’altro a Ponte Minissale sopra Diana.
Per completare l’opera, il 17 settembre 1830 dall’Intendente arrivò comunicazione ai Decurionati (le amministrazioni di allora) di quanto giovamento sieno gli alberi di ormeggio lungo le carrozzabili strade provinciali, pel comodo de’ viandanti, per la salubrità dell’aere, e pel legno che producono. Per cui, concludeva l’intendente, sono sicuro che codesto Decurionato come fervescente del pubblico bene, bisogno non ha che d’un impulso, per procurare tra gli altri ai suoi concittadini, utilità siffatte.
Nel 1832, finalmente, a Scordia furono avviate le procedure per la costruzione della strada di Militello e nel 1833 venne affisso l’avviso di gara d’appalto per la Strada delli quadri, che univa Scordia a Militello.
19. Il catasto e le dogane
Il 28 settembre 1829, arrivò nei comuni siciliani una circolare con un questionario allegato. Si voleva superare il vecchio catasto meramente descrittivo, per acquisire un’archiviazione dei dati completa di mappe.
Il comune di Militello, in ottemperanza, dette l’incarico della rilevazione planimetrica del territorio all’agrimensore Francesco Costanzo. Ovviamente, si trattò di un lavoro privo di scale di proporzione, ma era pur sempre un inizio.
Inoltre, già dal 1824 venne confermato dal ministro Medici l’abbattimento delle dogane interne. Lo prova il libro dei dazi di Ferdinando I, per la grazia di Dio re del Regno delle Due Sicilie, di Gerusalemme, ec. (sic), infante di Spagna, Piacenza, Castro ec. ec., gran principe ereditario di Toscana ec. ec. ec., pubblicato a Napoli, il 30 novembre:
Avendo maturamente esaminati i rapporti, ed i progetti a Noi presentati dal nostro Ministro delle Finanze, e volendo rendere libero il commercio di cabotaggio, e libere le circolazioni in tutta l’estensione del nostro Regno delle due Sicilie.
Su la proposizione del nostro Consigliere Ministro di Stato, Ministro Segretario di Stato delle Finanze.
Udito il nostro ordinario Consiglio di Stato.
Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:
Confermiamo il principio da Noi stabilito con Decreto del 15 dicembre 1823, di potersi tutto estraregnare senza il pagamento di nessun dazio.
In conseguenza tutt’i lavori, le manifatture, e tutte le produzioni di qualunque natura vegetabile, animale, e minerale de’ nostri Dominj al di quà (sic), ed al di là del Faro sono dichiarati esenti nell’estraregnazione dal pagamento di ogni dazio doganale.
20. La carboneria
Le trame della Carboneria giocarono un ruolo di primo piano per tutto il periodo dele Regno delle Due Sicilie.
La sua composizione sociale sfiorava il mondo emergente dei possidenti. Ma, era soprattutto fra i professionisti che venivano reclutati i quadri: ufficiali, avvocati, medici, preti, frati, letterati, professori, e così via.
Oltre a questi, c’erano pure alcune donne, dette Sorelle Giardiniere, con la funzione di diffondere gli ordini, eludendo i controlli della polizia.
Come in ogni società segreta che si rispetti, non a tutti gli adepti erano note da subito le finalità ultime della setta. Alla conoscenza si arrivava per gradi.
21. Il 1° grado carbonaro
Nel 1° grado si era soltanto apprendisti.
Il nuovo cugino (così i carbonari si chiamavano fra di loro) era un novizio pagano, smarritosi nel buio della foresta. La simbologia della foresta era legata a quella della morte-rinascita, poiché la carbonizzazione del legno implica l’idea della combustione e della trasformazione attraverso il fuoco. In altre parole, si trattava di una purificazione che faceva diventare il novizio (cioè, il legno) un agente della rivoluzione (cioè, il materiale per scatenare l’incendio).
Quindi, quando aderiva alla società, l’apprendista andava a cercare la luce nel Tempio della Virtù, dove con diffidenza si viene accolti, per cui, spogliato dei metalli e accompagnato nel gabinetto di riflessione, veniva interrogato sulle ragioni della sua richiesta.
In seguito, l’adepto veniva condotto a fare i tre viaggi simbolici. Era sottoposto, cioè, a prove tendenti a provarne il coraggio, per essere pronto a prestare il giuramento, con il quale si impegnava a mantenere il segreto, a soccorrere ed aiutare i Cugini in difficoltà e ad essere sempre a disposizione dell’Ordine.
A questo punto, egli poteva assumere un nuovo nome, scelto fra quelli della tradizione greco-romana, oppure fra i simboli di lotta contro la tirannide (questo, sia per confermare la morte rituale, sia per agevolare la lotta politica clandestina).
Così, si diventava parte della famiglia carbonarica, che è una sola in tutta la terra. Ciò implicava che al suo interno erano tutti fratelli, senza alcuna divisione sociale.
Nel primo grado si propagandavano idee vagamente umanitarie e si coltivavano attività filantropiche.
22. Carboneria e massoneria
Le cerimonie carbonare rivelavano una derivazione dalla simbologia cattolica. Le parole sacre, infatti, erano quelle religiose: fede, speranza, carità.
C’era, inoltre, il culto dei Santi (addirittura, San Teobaldo era il patrono dei carbonari).
La setta, perciò, poteva essere collocata nel filone culturale del cristianesimo esoterico, come quello degli Illuminati di Baviera, o quello giovanneo (dove si credeva ad una iniziazione cristiana originaria, fondata su una rivelazione segreta di Gesù, trasmessa per via orale ai discepoli e, quindi, a una catena di iniziati).
Altrettanto evidenti erano le derivazioni massoniche, che avevano una simbologia legata ai costruttori di cattedrali, per cui all’entrare di un nuovo adepto la pietra grezza deve essere sgrossata e squadrata.
Si possono, inoltre, fare puntuali paralleli tra i linguaggi carbonaro e massonico: apertura dei lavori = apertura dei travagli, cugini = fratelli, pagano = profano, pezzo di fornello = pezzo di architettura… e così via.
23. Il 2° grado carbonaro
Il 2° grado, detto pitagorico, era quello dei maestri.
Da qui si cominciava a sapere. Ma, c’era l’obbligo del più assoluto riserbo, pena la morte (e probabilmente fu questa la causa della scarsa conoscenza che si ha della storia della setta).
I maestri parlavano di costituzione, di indipendenza e libertà, di lotta contro il dispotismo politico.
Il rituale prendeva spunti dal grado diciottesimo della massoneria di rito scozzese di Sovrano Principe Rosa-Croce.
In particolare, partendo dal sacrificio di Cristo, alla simbologia cristiana si sovrapponeva quella del ciclo di morte e rinascita vegetale: foglie, terra, ceppo, ciocco, fascina, ascia, scala di legno.
Si passava, poi, alle parole di felce e ortica, piante che mescolate alla terra separano gli strati di legna, per favorire la carbonizzazione.
Infine, c’è da dire che i debiti lessicali verso la massoneria vengono confermati dall’idea carbonara del gomitolo di filo, simbolo muratorio della catena d’unione, che può essere anche una catena dei diritti naturali, oppure un modo per legare il tiranno.
24. Il 3° ed il 4° grado carbonaro
Il 3° grado era quello di gran maestro.
Inizialmente nato come grado amministrativo, era divenuto il grado operativo del progetto finale dell’Ordine, nel quale si proclamava l’aspirazione a creare, con la restituzione all’uomo della purezza primordiale, un regime di eguaglianza sociale, nella forma politica della Repubblica. Cosa che implicava la lotta contro la superstizione religiosa e il dispotismo del principe, la spartizione delle terre e la promulgazione della legge agraria.
Qui si vede l’influenza degli Illuminati Bavaresi e di Gracchus (nome di battaglia di Francois-Noël) Babeuf, dai quali fu pure ripreso il programma del partito comunista.
Nella Francia rivoluzionaria Babeuf e Filippo Buonarroti (i due si erano conosciuti in carcere) avevano elaborato alcune teorie estremiste ed utopistiche, ancora di natura rurale e precapitalistica.
A loro parere, la società doveva essere costituita da piccoli coltivatori e da artigiani, il cui prodotto doveva essere messo in comune e ridistribuito con criteri egualitari.
Tale comunanza doveva essere garantita dalla dittatura di un ristretto numero di virtuosi (da dove, poi, venne l’idea della dittatura del proletariato, gestita dal Comitato centrale del partito comunista).
Le parole sacre del rituale del terzo grado, quindi, erano Libertà e Uguaglianza, per cui il cittadino che amava la Patria lottava per questi valori e per la costituzione.
In ultimo, il 4° grado era quello di Grande Eletto. Questa figura presiedeva una vendita centrale, ai cui ordini c’erano venti vendite periferiche.
25. L’organizzazione carbonara
L’organizzazione carbonara era molto articolata. I nuclei locali venivano chiamati baracche; gli agglomerati più grandi vendite.
I rappresentanti di più vendite centrali costituivano un’alta vendita. A loro volta, i rappresentanti delle alte vendite formavano la vendita suprema.
Il giuramento dei grandi eletti era questo:
Io giuro in presenza del Gran Maestro dell’Universo e del Grande Eletto, buon cugino, di impiegare tutti i momenti della mia esistenza a far trionfare i principi di libertà, di uguaglianza e di odio alla tirannia, che sono anima di tutte le azioni segrete e pubbliche della rispettabile Carboneria.
Io prometto, se non è possibile di ristabilire il regime della libertà senza combattere, di farlo fino alla morte.
26. Statuto della carboneria
Art. 1 – Tutti i Carbonari si chiamano Buoni Cugini; di qualunque paese essi siano, e dovunque trovinsi, sono sempre membri dell’ordine cui appartengono, e fanno parte integrale della società, poiché la Carboneria forma una sola famiglia, essendo unico l’oggetto a cui tende.
Art. 2. – La Carboneria è un ordine che ha per oggetto la perfezione della società civile.
Art. 3. – In qualunque paese dove esistono dieci Buoni Cugini Carbonari alla meno, potrà installarsi una vendita regolare.
Art. 4. – La vendita non è altro che la riunione dei buoni cugini Carbonari.
Art. 5. – La vendita adotta un titolo distintivo, ed il suo paese assume il titolo di Ordine: tutte travagliano sotto gli auspici del glorioso S. Teobaldo, la cui festa si celebra il 1° luglio.
Art. 6. – Ogni vendita di qualunque grado avrà indispensabilmente sette dignitari, cioè Gran Maestro, primo assistente, secondo assistente, oratore, segretario, tesoriere, archivista. Possono avere degli ufficiali, che saranno in appresso nominati. I primi tre dignitari si chiamano Luci.
27. I moti carbonari in Spagna
L’1 gennaio 1820, improvvisamente, la carboneria entrò in azione a Cadice, in Spagna, dove scoppiò la ribellione delle truppe, che dovevano imbarcarsi per andare a sedare le insurrezioni delle colonie americane.
Al comando dei ribelli, insieme al colonnello Quiroga, c’era il colonnello Riego. Quest’ultimo rappresentava una lampante dimostrazione dell’esistenza di una vera e propria internazionale delle sette segrete, dato che era membro della versione spagnola della carboneria: i comuneros.
La richiesta era il ripristino della Costituzione spagnola del 1812, che nel 1814 era stata abrogata dal re Ferdinando VII di Spagna.
Su questa parola d’ordine, ben presto, ai rivoluzionari si unirono le truppe mandate a combatterle, per cui, il 7 marzo, il monarca spagnolo non poté fare a meno di prendere atto della situazione.
28. Moti carbonari nel napoletano
Nel Regno delle Due Sicilie, già nel maggio del 1817, fra le rovine della città romana, si erano radunati i carbonari di Napoli e di Salerno. Con loro c’era il Supremo Magistrato della setta lucana.
Si era costituito in tal modo il comitato centrale della carboneria dell’intero regno, che aveva stabilito che la rivoluzione doveva scoppiare entro quello stesso mese.
Poi, si era rinviato a settembre ed a settembre si era rinviato a data da destinarsi.
L’idea era stata ripresa nel 1818 dalla suprema gerarchia carbonara, l’alta vendita di Salerno, fissando l’azione per febbraio. A febbraio non era successo niente.
A quel punto, persino il governo aveva smesso di preoccuparsi, allentando la repressione.
Nel 1819, ancora, si ridava l’ordine di tenersi pronti, per quando non era dato saperlo.
Per fortuna, nel frattempo, l’idea carbonara era penetrata profondamente nell’esercito regolareed in questo senso gli ufficiali dell’esercito borbonico Michele Morelli e Giuseppe Silvati, non delusero le aspettative.
Nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1820, alla testa dei loro reggimenti di cavalleria, antesignani di una futura e più famosa marcia su Roma, marciarono su Napoli.
29. Luigi Minichini
La miccia della rivolta del 1820 in Campania venne innescata da poche decine di carbonari di Nola. Questi erano guidati dall’abate Luigi Minichini, una strana figura di religioso, forse così innamorato della giustizia, da trascurare il consiglio evangelico di dare a Dio quello che è di Dio. Egli, infatti, per intanto intendeva dare a Cesare quello che è di Cesare, o meglio a Ferdinando I quello che era di Ferdinando I (col piccolo particolare che ciò che voleva dargli era la forca).
Minichini era nato in una famiglia di agiati possidenti. Il padre avrebbe voluto farne un prete ed egli lo aveva accontentato fino al suddiaconato. Poi, si era tolto la tonaca, trasferendosi in Inghilterra per due anni.
Tornato, aveva ripreso gli abiti religiosi, entrando in un convento di Napoli.
Si era, quindi, dedicato agli studi ed aveva finito per dirigere il Collegio dei Frati Ignorantelli di San Giovanni in Galdo, nel Molise.
Qui era entrato nella carboneria e subito aveva mostrato un carattere perlomeno deciso, quando aveva avvelenato, insieme a quattro complici, un poveraccio che serviva messa. Gli si voleva impedire di riferire ciò che non avrebbe dovuto neppure sapere.
In quell’occasione, la setta aveva dispiegato tutta la sua potenza, corrompendo i giudici e facendolo rimettere in libertà.
Ora, alla testa di qualche facinoroso marciava sulla strada per Avellino, insieme a 127 soldati comandati da Morelli e Silvati.
30. La vittoria dei carbonari
Morelli, Silvati e Minichini si diressero a Napoli. All’inizio furono in pochi ad unirsi al drappello. Però, a Monteforte (dodici chilometri appena da Avellino) si fecero numerosi.
Ad Avellino, il tenente colonnello De Concilj, comandante in assenza di Guglielmo Pepe, era incerto. Come Pepe, neanche lui era carbonaro; ma, non disdegnava contatti ed amicizie con la setta.
Infine, De Concilj decise di bloccare i dimostranti fuori della città ed, al contempo, mise in stato di allarme le truppe. L’effetto fu che la notizia del moto si diffuse fulmineamente in tutta la provincia.
Il 3 luglio Morelli, forzando le incertezze di De Concilj, entrava in città e, di fatto, assumeva il comando di tutti i soldati che vi erano stanziati.
Il 9 luglio i rivoluzionari entrarono a Napoli.
Il Re si finse malato e passò la mano al figlio, come suo vicario (si ripeteva, praticamente, la situazione del ’12, in Sicilia). Fu, quindi, Francesco, insieme ai principi reali, ad assistere dai balconi della reggia alla sfilata dei costituzionalisti che entravano a Napoli.
Il corteo procedette fra due ali di folla festante.
In testa c’era il battaglione di Nola, autonominatosi battaglione sacro.
A seguire, si vedevano le bande musicali ed i regimenti insorti, con a capo il generale Pepe, fiancheggiato dai colonnelli Napoletano e De Concilj.
Non mancavano, ovviamente, la Vendita “Muzio Scevola” di Nola, guidata da Minichini, ed alcune migliaia di carbonari, con le loro bandiere tricolori: rosso, nero e azzurro.
I principi nei balconi della reggia si fregiarono della coccarda carbonara. Seguì un’ovazione.
Poco dopo, il re ammalato ricevette Pepe e gli altri capi del movimento.
31. Gli indipendentisti
Il 14 luglio la notizia della rivoluzione napoletana era arrivata a Palermo.
Il re, però, aveva giurato fedeltà alla costituzione spagnola, cioè ad una carta che lasciava integro ed unitario il Regno delle Due Sicilie, senza prevedere alcuna forma, né di federalismo, né di autonomismo.
A complicare le cose, Messina, la secolare rivale della capitale, si era subito adeguata. Per questo, sotto la pressione popolare, il principe di Scaletta, governatore militare, aveva promulgato la costituzione spagnola, accettando di fatto il predominio di Napoli.
Per conseguenza, a Palermo non aveva tardato a ricostituirsi il vecchio partito dei cronici e subito all’occhiello di tante giacche era comparso un nastro giallo, simbolo dell’indipendenza dell’isola.
“Vogliamo la costituzione siciliana del ‘12” avevano chiesto i cronici al luogotenente del re, l’anziano generale Naselli.
Per converso, erano ricomparsi anche gli anticronici, questa volta a favore della costituzione spagnola.
Il 15 Naselli promulgò la costituzione spagnola e pose Palermo in stato di assedio.
La popolazione della città, in risposta, cominciò a chiedere l’indipendenza e, per essere meglio ascoltata, assaltò la casa di un mercenario irlandese al servizio dei borboni, il generale Church. Motivo? L’uomo aveva strappato il nastro giallo appuntato sulla giacca di un cittadino.
“Viva Palermo e Santa Rosalia!” gridò, a quel punto, padre Gioacchino Vàglica, monaco del convento di Sant’Anna. “Sicilia indipendente e libera! A morte i forestieri!”
I popolani gli andarono dietro, inebriati dal gusto del saccheggio, tanto che dopo aver devastato la casa di Church, liberarono i prigionieri delle carceri.
Da quel momento, Palermo cadde in mano loro e cominciarono le uccisioni.
I primi a morire furono due uomini che non avevano fatto mancare il loro impegno nell’esperienza costituzionale del ’12, il principe di Cattolica, organizzatore della guardia civica, ed il principe di Aci, collaboratore del generale Naselli.
Il generale Naselli, vista la piega, era fuggito precipitosamente, lasciando il comando ad uno ch’era stato ministro ai tempi di Bentinck, il principe di Villafranca.
32. La guerra civile in Sicilia
Dopo la nomina a comandante generale del principe di Villafranca, non tardarono ad arrivare notizie di una vera e propria guerra civile in atto.
Ruggiero Settimo, nel frattempo, rifiutò la nomina a luogotenente generale. Invece l’accettò il principe di Scaletta, proprio il governatore militare di Messina, fatto che non fu per nulla accettato dai palermitani.
Ad aumentare la burrasca,venne reso noto il primo atto di governo del principe di Villafranca: un proclama con cui vietava agli intendenti dei valli siciliani di aver rapporti con la giunta palermitana.
Il principe di Villafranca era un personaggio abbastanza sicuro delle sue idee. Non era tipo, perciò, che potesse esitare molto, neppure davanti all’ipotesi di scatenare una guerra civile.
Lo fece, infatti, con un proclama, in cui ordinò l’arresto e la deportazione a Gaeta delle deputazioni palermitane mandate a Catania ed a Messina, col compito di portare anche lì la lotta separatista.
Palermo reagì inviando in giro per l’isola reparti armati (in cui abbondavano gli ex-galeotti) chiamati guerriglie.
Il compito era quello di convertire alla causa le città riottose (praticamente, la stragrande maggioranza).
Durante la guerra civile ci furono alcune stragi, la più grave delle quali, ad opera delle bande del principe di San Cataldo, il 13 agosto a Caltanissetta.
33. Florestano Pepe
Sotto sotto, il più contento per la guerra civile scoppiata era Ferdinando I.
“Mi arrivano informazioni di una sollevazione nell’isola” disse, infatti, al generale Florestano Pepe, fratello di Guglielmo.
I suoi sentimenti verso la famiglia Pepe potevano definirsi di cordiale antipatia. Già gli dava ombra il comando dell’esercito che aveva dovuto affidare all’infido Guglielmo. C’era, in più, il mal di panciaprovocatogli dal fatto che Florestano era uno dei quindici membri della Giunta Provvisoria di Governo, cioè di un organo che aveva i poteri del Parlamento, almeno fino alle elezioni.
Aveva, quindi, pensato che una bella missione in Sicilia, dove era facile trovare molta impopolarità e nessuna gloria, fosse una scelta ideale per toglierselo di torno.
Florestano Pepe sbarcò a Milazzo il 5 settembre, protetto in mare dalla flotta napoletana e in terra da un reparto di messinesi.
Questi, fra l’altro, erano molto arrabbiati per il sequestro delle loro navi da parte dei palermitani e per l’arresto, come traditori della patria siciliana, dei relativi equipaggi.
Prima che il generale attaccasse Palermo, il principe di Villafranca gli andò incontro. I due s’intesero subito ed a Termini Imerese fu firmata la pace, stabilendo un’amnistia generale e fissando l’entrata dei napoletani nella capitale per il 25 settembre.
34. Vincenzo Natale
Le elezioni generali vennero celebrate secondo la costituzione spagnola ed il 22 settembre 1820 si riunì la giunta preparatoria del Parlamento delle Due Sicilie.
Due giorni prima, il Giornale Costituzionale del Regno delle Due Sicilie aveva comunicato:
“Giungono in questo momento due basimenti di Messina, partiti da quella città il dì 17 del corrente. Con uno di essi sono arrivati i signori D. Francesco Strano di Catania, D. Paolino Riolo di Centorbi, D. Vincenzo Natale di Militello, Deputati del Valle di Catania al Parlamento Nazionale.”
L’1 ottobre ebbe luogo la seduta inaugurale. Presidente del parlamento fu eletto Matteo Galdi, che nel discorso di insediamento, alla presenza di Ferdinando e di Francesco, suo vicario, affermò:
“La fraterna ed intima amicizia che ci unisce all’isola di Sicilia, la quale pur forma, mercé la nuova costituzione, un solo Stato con noi, e ci unisce con più stretti vincoli ancora, si è accresciuta dall’arrivo dei suoi deputati che già siedono in Parlamento e ci aiutano nei nostri travagli coi loro lumi e con la loro esperienza; speriamo che giungeranno presto anche quelli dei paesi che furono agitati da passeggiero spirito di vertigine, e che di questa si estingua finanche la più lontana rimembranza.”
Nella prima riunione della Giunta carbonara venne nominato segretario il deputato militellese Vincenzo Natale.
35. L’idea autonomista di Vincenzo Natale
L’attività parlamentare di Vincenzo Natale, pur nel rigore di un concetto unitario del Regno, mirò a dare maggiore autonomia amministrativa alla Sicilia, creando nuovi organi istituzionali. Fu la parte non caduca della sua opera politica, quanto mai attuale ancor oggi, a distanza di quasi duecento anni.
In quest’ottica, per esempio, presentò una mozione, affinché si elegesse un consigliere di Stato in ciascun Valle dell’isola.
In un successivo intervento, però, seppe chiarire la sua avversità al separatismo palermitano, frutto avvelenato dell’antico e rapace baronaggio:
“Quale sarebbe la causa di tanta miseria, di tanta desolazione, se non è in massima parte questo mostro della feudalità? I baroni di Sicilia hanno formato fra di loro dai più remoti tempi una lega infernale. Essi, nuotando sempre nelle dovizie e nel lusso, si sono resi immuni dai pesi pubblici. I proprietari, che sono essi, non pagarono mai alcun dazio; tutte le imposte sono sempre ivi gravitate sopra generi di consumazione, sopra la bocca del povero. I baroni di Sicilia rassomigliano perfettamente ai di lei antichi tiranni, dei quali non vi erano sulla terra tiranni più atroci, più sospettosi, più intraprendenti e sottili, come porta l’acume nazionale, a trovare dei ripieghi a loro favore.”
Guidato da tali idee di fondo, partecipò alla discussione sulle modifiche da apportare alla Costituzione, sostenendo che per esse bastava il voto favorevole della metà più uno dei deputati e non della maggioranza di due terzi.
Natale, inoltre, sviluppò un coerente ed alternativo programma di interventi economici, basato sull’abolizione delle dogane interne. Così, si liberavano i commerci, i traffici marini e le esportazioni.
Sarebbe potuta nascere da ciò una creatura che disgraziatamente non riuscì a nascere (e che attende ancora di nascere): la moderna borghesia, cosa molto più necessaria dell’indipendenza siciliana.
36. Natale ed il dibattito del suo tempo
Le idee di Vincenzo Natale furono diverse da quelle dei cronici del 1812.
Infatti, sempre in parlamento, egli ne demolì i furori propagandistici con la forza dei ragionamenti:
“Sia libera ed esente dei diritti nei porti del Regno l’importazione e l’esportazione di qualunque genere, produzioni, manifatture provegnenti dall’una e dall’altra Sicilia di qua e di là del Faro. Che tale facoltà si eserciti con le necessarie cautele disposte dalle leggi in vigore, per evitarsene l’abuso.”
Un altro cruciale campo di intervento riguardava il perenne conflitto tra contadini e baroni. Il punto dolente era rappresentato dagli effetti che si avevano dalla quotizzazione e dall’assegnazione delle terre ecclesiastiche e demaniali ai privati.
In quella privatizzazione c’era stata, infatti, pure la “perdita degli “usi civici”, i quali, per quanto ridotti da numerose usurpazioni di nobili e borghesi, ancora nel Settecento valevano ad attenuare la miseria delle popolazioni rurali.”
Le proposte di Natale, pur avendo ben presente la necessità di superare lo sfruttamento promisquo delle terre (tipico degli usi civici), disordinato e poco redditizio, erano per realizzare quote sufficientemente grandi, che avessero le caratteristiche della moderna azienda agricola privata, con tutti gli annessi diritti: poter trasmettere in eredità, poter affittare e, magari dopo un certo numero di anni, poter vendere.
37. Le ragioni degli unitari
Purtroppo, i contrasti tra Palermo e Napoli non erano finiti con l’accordo tra Florestano Pepe ed il principe di Villafranca. Lo si scoprì, quando a novembre i termini di quella specie di armistizio arrivarono in parlamento.
“Si vuol spezzare l’unità del Regno delle Due Sicilie” insorse il deputato Gabriele Pepe.
“E’ vero!” confermò il deputato Matteo Imbriani.
Molti deputati volsero lo sguardo sul deputato Vincenzo Natale, che aveva già chiesto ed ottenuto di parlare.
La sua dote più apprezzata era il tono di voce sempre pacato, cosa che rendeva piacevole ascoltarlo. Fra l’altro, era noto il cordiale incontro che in Sicilia c’era stato tra lui e Florestano Pepe. Quindi, ci si aspettava un invito alla moderazione.
Ma, ci fu una sorpresa.
“Dico subito” esordì Vincenzo, “che nego la corona civica, sia alla città di Palermo, sia al generale Florestano Pepe. Con la nostra capitolazione (tale la definisco io) a Palermo, come ha già detto il deputato Gabriele Pepe, è stata spezzata l’unità del regno ed infranta la sua costituzione. Propongo, in aggiunta, che si nomini una commissione d’inchiesta che indaghi su quei fatti. Ribadisco, una volta per sempre, che la Sicilia al di là del Faro è parte della nazione, e parte non piccola, non ultima, non ignobile. Lo Statuto di tutto il Regno, quello soltanto, deve garantire i diritti individuali del cittadino e quelli di tutti gli abitanti della mia isola!”
38. La difesa del territorio
A coclusione dell’intervento parlamentare in cui aveva ribadito le sue convinzioni unitarie, Natale tirò fuori il fazzoletto, per asciugarsi un fastidioso sudorino al collo.
Guardò i colleghi. C’era un silenzio che si tagliava a fette.
“Come può esserci, dunque” riprese a dire, “un proclama col quale militarmente si fa la requisizione di 300.000 ducati sopra la città di Palermo, fra un brevissimo corso di giorni? Chi in forza della Costituzione ha il diritto d’imporre contribuzioni o chiedere prestiti? Lo ha forse il potere esecutivo? No. Questo è un sacro diritto soltanto della rappresentanza nazionale!”
Fece un’altra pausa, per osservare la reazione dei colleghi.
In quel momento pensò che la carboneria passava dalla congiura al governo.
“Quanto poi possa essere giusta la distribuzione, voi lo ravvisate dallo stesso proclama. Tutte le botteghe, tutte le entrate delle case sono gravate smisuratamente; e forse in quella tale casa una famiglia si ricovera, che manca del pane, e che non può covrire la sua nudità per le rapine sofferte. Con tutto ciò, se non paga prontamente, è condannata a pagare due volte.”
Si asciugò di nuovo il collo. Ormai, egli dominava l’assemblea.
Vide Gabriele Pepe, che gli sorrideva con amicizia. Vide tutti gli altri pendere dalle sue labbra.
“Io non intendo graziare i rivoltosi di Palermo dall’obbligo delle spese di una guerra provocata. Ma, un tale esame deve conoscerlo il Parlamento, e le spese devono gravitare su de’ concitatori della insurrezione, su di coloro che la fomentarono, ed a cui giovava; e non mai su quella gran parte de’ cittadini, che animati da giusti sentimenti resisterono alla violenza de’ furibondi, si armarono, e batteronsi sintanto che, per effetto de’ loro sforzi, l’armata poté entrare nella città, ed impadronirsi de’ forti. Si indaghi, invece, su qual è lo stato generale dell’isola, si controlli che vi regni la tranquillità. Si chieda quali ricerche sono state fatte intorno alle cause ed agli autori della rivolta. Si facciano conoscere tutte le azioni di quel periodo in Sicilia, da qualunque funzionario e per qualsiasi titolo siano venute!”
39. La questione del nome da dare al Regno
Il 7 novembre arrivò in Sicilia, come comandante in capo del corpo di spedizione, il generale Pietro Colletta, il quale, più che per le virtù militari, lasciò poi gran traccia di sé come storico.
“Il primo atto che pretendo da voi” disse senza tanti complimenti ai primari di Palermo, “è che giuriate fedeltà alla costituzione spagnola.”
Il 19 novembre i rivoltosi dovettero giurare e furono indette le elezioni per il parlamento nazionale a Palermo e provincia.
Cominciò, così, una specie di resistenza passiva, dato che i deputati eletti si rifiutarono di andare a Napoli.
Dove, frattanto, continuava l’attività del parlamento. C’era, per esempio, da trattare la questione relativa al nome da dare al Regno.
“Col convertire” sostenne il deputato Vincenzo Natale, a nome della maggioranza dei deputati, “l’attuale denominazione di tutto il Regno in quella di Regno dell’Italia Meridionale si confonderebbe il presente linguaggio diplomatico, e susciterebbesi la gelosia delle potenze poco disposte a nostro favore. Le parole non sono né belle né brutte, se non per quanto esprimono le cose, o buone o cattive; ma servono a denotare gli oggetti; e quando ciò comunemente non si ottiene, manca il profitto essenziale del linguaggio. Come mai si vorrebbe pretendere che i nostri contadini, ed altri idioti, che è quanto dire la gran massa della Nazione, riconoscessero i vecchi nomi de’ Bruzii, de’ Lucani, de’ Messapii, e non si meravigliassero più tosto di tali nomi ignoti, non sapendo nemmeno sospettare che potessero appartenere a loro?”
40. Contrasto tra Vincenzo Natale e Matteo Imbriani
La ribellione palermitana, fra gli altri guai, mise in gravi difficoltà anche i deputati siciliani leali al nuovo ordine carbonaro.
Le rivelò un contrasto sul numero della rappresentanza siciliana nell’Assemblea Permanente, il cui compito era detenere il potere legislativo nel periodo tra un’elezione e l’altra del parlamento. Secondo la costituzione spagnola, le province d’oltremare (cioè, la Sicilia) avevano diritto a tre rappresentanti; ma, non mancò chi, come il deputato Matteo Imbriani voleva dargliene soltanto due.
“I siciliani” disse Imbriani, “fino a questo momento non hanno contribuito al nuovo ordine di cose, se non con danni e rovine!”
Si votò, quindi, la modifica della costituzione. Quarantadue deputati votarono per portare a due i rappresentanti della Sicilia, venticinque per lasciarli a tre.
A quel punto, prese la parola il deputato Vincenzo Natale:
“Voi avete modificato la costituzione, senza tener conto che per ogni sua modifica è necessario il voto dei due terzi del parlamento.”
Matteo Imbriani si levò prontamente:
“Il deputato Natale ha una memoria tanto corta da aver già scordato ch’egli stesso ha sostenuto la necessità di poter apportare le opportune modifiche costituzionali con la semplice maggioranza assoluta e non col voto dei due terzi…”
“Non la mia memoria corta me lo ha fatto scordare” rispose Natale. “Ma, il vostro egoismo napoletano, ancor più devastante del separatismo palermitano!”
Vi fu un applauso da parte dei deputati Francesco Strano e Paolino Riolo; ma, la votazione per appello nominale che seguì all’intervento confermò la scelta di due rappresentanti in tutto per la Sicilia.
41. Vincenzo Natale e Pietro Colletta
Fu il generale e storico Pietro Colletta colui che seppe meglio mettere in evidenza la natura della lotta politica di Vincenzo Natale, scrivendo:
“Altre leggi, proposte dal deputato Natale, abolirono la feudalità di Sicilia; non essendo bastati fino al 1821 gli esempi de’ più civili regni, e la pazienza de’ tempi e i costumi dei signori, e la stessa costituzione dell’anno ’12, e parecchi decreti degli anni ’16 e ’17. Quella feudalità, cessata molte volte nel nome, non mai ne’ possessi, era finalmente per le nuove leggi distrutta, le stesse che sotto i re Giuseppe e Gioacchino operarono tra noi la piena caduta del barbaro edificio.”
Ed, in effetti, il filo rosso che unì le posizioni politiche di Vincenzo Natale potrebbe essere individuato nell’aver favorito il passaggio da un concetto feudale della ricchezza ai nuovi valori individualistici, con tutto il conseguente dinamismo dell’imprenditoria, del commercio e delle professioni.
Questo impegno si tradusse nell’idea di allargare il mercato, il che contrastava con qualsiasi indipendentismo. Al contempo, però, vedeva la necessità di un’autonomia gestionale, per rompere i lacci che impedivano quella che oggi si chiamerebbe un’economia liberista.
“Ho appoggiato la proposta” egli scriveva al padre, con chiara coscienza, il 6 dicembre 1820, “di istituire un supremo tribunale di giusttizia o cassazione in Sicilia. Le mie argomentazioni hanno preso forza dal fatto che il mare separa la nostra terra dalla capitale. Ho chiesto pure al Ministero delle finanze di vedere la possibilità di una diminuzione dei gravami fiscali.”
42. La necessità di un demanio siciliano a garanzia dell’autonomia
Di particolare interesse fu il dibattito tra Vincenzo Natale ed il deputato Carlo Poerio.
“E’ l’abolizione della feudalità” disse Natale in parlamento, “il compito assegnatomi, fin da quando, più di venticinque anni fa, in una piccola città siciliana l’avvocato don Alfio Natale, mio padre, non cominciò ad attaccare i privilegi baronali, ottenendo una prima vittoria!”
“Non occorrono nuove leggi per questo” gli rispose Poerio. “Bastano il richiamo e l’esecuzione di quelle vigenti, che riguardano tutto il regno.”
“La Sicilia non è Napoli” insistette Natale. “Noi non abbiamo avuto forze rivoluzionarie al governo per un tempo bastante ad incidere sugli usi e sui costumi. Ciò mi ha convinto dell’opportunità, non soltanto di una nuova legge per l’abolizione della feudalità, ma pure di una divisione dei demanii della Sicilia oltre il Faro.”
Così, il 20 gennaio 1821, egli poteva orgogliosamente scrivere al padre. “Il parlamento ha nominato una commissione per presentare al principe vicario le leggi sull’abolizione della feudalità e sul nuovo regolamento delle guardie nazionali. Con la presentazione di queste leggi, concernenti sì da vicino la prosperità nazionale, il parlamento ha voluto festeggiare nel modo più solenne il giorno natalizio del nostro re e padre della patria, che ricorreva il 12 gennaio. Io facevo parte di tale deputazione.”
Peccato che, quasi due mesi dopo, il 15 marzo, in Parlamento Natale era costretto a tornare sull’argomento:
“E’ doloroso non sapere ancora i tempi di esecuzione della legge sull’abolizione della feudalità in Sicilia, mentre occorre una pronta decisione per liberare dall’antica tirannide baronale quest’isola infelice. Ma, so già che tutte le guerre private che mi sono state mosse nel passato e che mi saranno mosse nel futuro sono state causate dal mio interessamento e dalla mia opera contro la feudalità.”
43. Il voltafaccia del Re
Il 6 gennaio 1821 il generale Pietro Colletta venne richiamato a Napoli ed il suo posto fu preso dal generale Vito Nunziante. In quegli stessi giorni il re Ferdinando I si trovava a Lubiana, dove aveva realizzato il suo ennesimo voltafaccia.
Infatti, era partito da Napoli dicendo:
“Io vado al Congresso per adempiere a quanto ho giurato.”
Una volta fuori della portata dei carbonari, però, aveva chiesto l’esatto contrario:
“Le potenze della Santa Alleanza usino la forza per ristabilire l’ordine a Napoli, se non vogliono che l’ubriacatura rivoluzionaria coinvolga l’intera Europa!”
Gli sbigottiti parlamentari, perciò, il 28 gennaio si videro arrivare la comunicazione delle decisioni reali, concordate coi fedeli alleati austriaci:
“Bisogna distruggere la deplorevole rivoluzione del luglio ultimo. Che i costituzionali delle Due Sicilie ascoltino la voce paterna del loro re; ma, ove questo non facessero, sarebbero le prime vittime dei mali che attireranno al loro paese.”
Quella stessa sera, persino il reazionario ministro austriaco Klemens Wenzel Lothar, principe di Metternich-Winnerburg, affidava l’inevitabile disgusto al suo diario:
“Mi è capitato più volte di dover dire che l’Italia è solo un’espressione geografica. Di questo se ne convincerebbe più di me chi frequentasse Ferdinando I di Napoli ed immaginasse che popolo possa essere quello in cui governa un simile re!”
44. L’intervento della Santa Alleanza
Al parlamento, nella seduta del 9 febbraio, non restò altra scelta che dichiarare il re prigioniero delle potenze della Santa Alleanza. E fu la guerra.
Ciò mise in allarme il padre del deputato Vincenzo Natale, il vecchio don Alfio. Ci resta un interessante corrispondenza al riguardo, che vale la pena di riportare.
Il 23 febbraio scrisse al figlio:
“Le cattive notizie corrono con la velocità del fulmine. Si sa da tre giorni il risultato del congresso di Lubiana contrario alla giurata costituzione, e che il re ne ha fatto la partecipazione al principe reggente, e quindi riunito straordinariamente il parlamento il giorno 12. La guerra quindi mi pare inevitabile. Ho letto un avviso in stampa venuto come si dice da Messina, che invita all’armi i popoli delle Due Sicilie. Ma questo non sarebbe il maggiore dei mali, se non si avesse a temere una nuova insurrezione in quest’isola. Il fuoco dell’anarchia cova sotto le ceneri, ed un piccolo soffio lo farà divampare. Già gli amici dell’Indipendenza gioiscono, ed hanno già alzato la testa.”
Erano ritornate, insomma, le divisioni tra cronici indipendentisti e anticronici unitari, le stesse che già avevano fatto fallire il governo costituzionale siciliano del 1812. Lo sbocco inevitabile fu quello di sempre: la sconfitta di tutti.
45. Fine del parlamento carbonaro
In pochissimo tempo la situazione si fece disperata. Don Alfio Natale in una lettera del 27 febbraio ai figli non nascose il suo pessimismo:
”Sono qui arrivate molte stampe eccitanti il patriottismo per il sostegno della Costituzione. Si sa qualche cosa degli avvenimenti dello Stato Romano, e se l’Alta Italia ne imitasse l’esempio, come ne corre voce, sarebbe una gran lezione alla Terra, perché i Potentati rispettino i dritti de’ Popoli. Io però dubito molto che i poveri Italiani possano alzare un dito, atteso lo stuolo d’armati che li circonda. Attendo con ansietà vostre notizie.”
Gli austriaci arrivarono in mezzo ad una ridda di voci, di si dice e di ipotesi e con loro aumentò il caos.
A don Alfio, in una ulteriore lettera del 5 marzo, non restò che prenderne atto:
“Le notizie che partecipate si erano già divulgate per via di molte stampe, che rapidamente si succedono da un giorno all’altro. Anzi argomento che molte di queste non si verificano, giacché voi non ne fate altro cenno, come sarebbe la sollevazione della Prussia e del Piemonte e Genovesato, per avere la Costituzione; il prossimo arrivo di 30.000 fucili, e di un corpo di milizie spagnuole, e che gli Austriaci marciano di mala voglia contro Napoli. Il tutto dunque si riduce, secondo si deduce dalle vostre lettere, allo Stato Romano, che ha proclamato la Costituzione di Spagna e ha formato quattro campi per raccogliere truppe e ingrossare l’esercito. Ma, come questo esercito, che non può essere molto numeroso, né ben organizzato e disciplinato, potrà resistere al colossale e agguerrito esercito austriaco che già sta per scacciarlo, senza un pronto e potente soccorso che lo sostenga? Io spero è vero nell’energia e nell’entusiasmo dei nostri, ma molto più temo la potenza dei coalizzati. Prevedo al tempo stesso che in quest’Isola dovrà risorgere la non ben estinta anarchia.”
Finalmente, il 25 marzo, le truppe austriache entrarono a Napoli, mettendo fine all’ esperienza parlamentare carbonara.
46. La carboneria torna nell’ombra
Soltanto le trentacinque vendite carbonare di Messina, agli ordini del generale Giuseppe Rossaroll, pensarono di resistere.
Purtroppo, ogni buona intenzione durò lo spazio di un mattino, poiché all’avvicinarsi delle armi della reazione vittoriosa, il Rossaroll si ritrovò solo.
Non gli restò, quindi, che fuggire in Spagna.
Morì nove anni dopo, combattendo per la libertà della Grecia, come George Gordon Byron e Santorre di Santarosa.
La carboneria tornò a far parlare di sé con le rivolte siciliane del 1837, che nacquero dalle dicerie sull’esistenza di agenti del governo che spargevano il colera.
In quello stesso anno a Milano lo scrittore Alessandro Manzoni revisionava il romanzo I promessi sposi. Le notizie che gli arrivavano da Palermo, da Siracusa, da Catania probabilmente lo resero ancora più scettico sull’affidabilità del detto vox populi, vox Dei.
Pensò, al contrario, che il popolo sa essere un gran bestia e probabilmente aveva in mente quei fatti contemporanei, scrivendo la famosa scena di Renzo che bussa al portone di don Ferrante, nella Milano del Seicento.
”Renzo afferrò ancora il martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo, l’alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In quest’agitazione, si voltò per vedere se mai vi fosse d’intorno qualche vicino, da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio, qualche lume. Ma la prima, l’unica persona che vide, fu un’altra donna, distante forse un venti passi; la quale, con un viso ch’esprimeva terrore, odio, impazienza e malizia, con cert’occhi stravolti che volevano insieme guardar lui, e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e ritirando due mani grinzose e ripiegate a guisa d’artigli, come se cercasse d’acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva cercar gente, in modo che qualcheduno non se ne accorgesse. Quando s’incontrarono a guardarsi, colei, fattasi ancora più brutta, si riscosse come persona sorpresa.
“Che diamine…?” cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo cogliere all’improvviso, lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora:
“L’untore! Dagli! Dagli! Dagli all’untore!”
47. Il 1837
La tensione durava dal 1836, quando a Napoli era spuntato il colera.
I moti veri e propri, però, si ebbero quando il contagio giunse in Sicilia.
Il primo scoppiò il 12 luglio 1837, a Messina, cuore del traffici commerciali del regno. Il popolo assalì l’ufficio sanitario del porto, calpestando le insegne borboniche, perché un piroscafo con a bordo truppe borboniche non aveva rispettato la quarantena.
Quando si manifestò a Palermo, il colera era nel punto più alto della sua virulenza. Arrivarono a morire in un solo giorno circa 1.800 persone.
In quell’occasione, fra gli altri, scomparvero anche due grandi scrittori, lo storico Nicolò Palmieri ed il letterato Domenico Scinà.
In tale tragica congiuntura, anche molte persone di buona cultura cominciarono a condividere con le donnette (o a fingere di condividere, il che è peggio) la convinzione che il colera fosse sparso ad arte dal re, per diminuire le bocche da sfamare e per punire i siciliani indipendentisti.
La situazione precipitò a Siracusa, dove scoppiò una violentissima rivolta. Un francese, un poveraccio di nome Giuseppe Schwentzer, che vendeva intrugli contro il malocchio, venne accusato di essere un untore. Sol per questo una turba di invasati, fra gli applausi generali, uccise lui, la moglie e, per non sbagliare, anche dei funzionari statali.
Subito dopo, venne formato un Comitato di salute pubblica, che assunse i pieni poteri. Uno dei capi era l’avvocato Mario Adorno, politico amatissimo dalla folla. Su quali basi, lo si capisce da una frase del proclama che scrisse:
“il veleno che aveva fatto stragi a Napoli e a Palermo ha trovato la tomba nella patria di Archimede.”
In altre parole, uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, ucciso dalla soldataglia ignorante, avrebbe dovuto essere contento di quei morti ammazzati!
48. La rivolta di Catania
Anche a Catania la paura del colera creò un clima di ribellione nei confronti dei Borbone.
“La molla di un siffatto timore gigante ed universale ha eccitato il popolo!” esclamò, infatti, Gaetano Mazzaglia, davanti agli amici pronti all’insurrezione. “Ed i liberali, quand’anche non credessero all’avvelenamento, di tale credenza debbono avvalersi.”
“Il cholera morbus” continuò il professor Salvatore Barbagallo Pittà, “altro non è se non il risultato di polveri e liquidi venefici, agenti nelle sostanze cibarie, nei potabili e sin anche per la via degli organi respiratorii, infettando l’aria di micidiale fetore.”
Su una spiegazione scientifica del genere, quel giorno stesso i rivoltosi elaborarono una piattaforma politica, dove, insieme all’indipendenza da Napoli, si chiese la decadenza dei Borbone ed il ripristono della Costituzione del ’12.
“Indi” scrisse uno scrittore coevo, “è abbattuta la statua del re Francesco I avanti l’Università, ed è giurata nel Duomo e sottoscritta l’indipendenza siciliana il 1° agosto, da chi? Da quello stesso Intendente, dal Senato, dai magistrati, non esclusi i procuratori generali e regi, e da tutti gli impiegati amministrativi e giudiziari, da quel marchese presidente della Giunta e da questa.”
Al comando del movimento fu messa una Giunta di pubblica sicurezza, che poi divenne Giunta di governo, di 21 membri.
Ogni istinto di ribellione fu spento dal marchese Francesco Saverio Del Carretto, notoriamente il ministro più duro del regno. Del resto, i fatti che infiammavano la Sicilia orientale erano tali, da non lasciare spazio alle pazienze della diplomazia. Naturaliter, quindi, il re gli aveva dato i pieni poteri dell’alter ego, col compito di stroncarli sul nascere.
Così, dopo i moti, con monotona ripetitività, vennero le repressioni poliziesche.
49. Azioni carbonare prima del 1848
Prima della rivoluzione del 1848 ci furono tanti moti falliti, promossi dal Comitato Centrale della rivoluzione.
Persino Palermo e Messina avevano superato l’antica rivalità, tanto che nel 1842, nei festeggiamenti per il ritrovamento delle reliquie di San Placido, la città dello Stretto aveva accolto fraternamente la delegazione palermitana.
Allora, come nella rivoluzione del ’20, ricominciò il gioco delle date fissate per l’insurrezione.
“Dopo una visita del marchese Livio Zambeccari” comunicò, infatti, Francesco Crispi nella riunione dell’alta vendita di Catania, “Si è deciso che Messina insorgerà il 21 agosto 1843.”
La polizia borbonica, però, si fece subito viva, per reprimere ogni intenzione ribelle.
La rivoluzione, di conseguenza, venne rimandata all’ottobre 1843 e poi al marzo 1844.
Furono arrestati alcuni liberali, come Agostino Plutino di Reggio Calabria e l’agitatore e finto fotografo siciliano Giacomo Antonini. A Cosenza morirono fucilati i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera.
Nel 1847, dunque, si era ancora al semplice gesto di gettare nella carrozza di Ferdinando II, in visita nell’isola, una copia della Protesta del popolo delle Due Sicilie di Luigi Settembrini (con il concorso del siciliano Giovanni Raffaele).
Il 14 aprile di quello stesso anno, con il linguaggio brioso ed allusivo dell’amico Carlo Gemmellaro, anche l’ex deputato Vincenzo Natale veniva mobilitato dalla vendita carbonara di Catania:
“Che mai è avvenuto quest’anno al sig. D. Vincenzo Natale? Passò l’inverno, e in fine la primavera, e non si tratta di sentire ch’egli voglia risolversi a rivedere il suo appartamento, da dove sono venute alla luce tante belle produzioni! Assicurarsi almeno se i topi hanno risparmiato i candelieri di stagno!”
50. Il 1847
Alla fine, il Comitato Centrale Rivoluzionario di Napoli stabilì che nel settembre 1847 insorgessero Messina e Reggio. Andò male per il mancato coordinamento dei tempi.
La rivolta divampò prima a Messina e, quando i borbonici erano già riusciti a soffocarla, fu la volta di Reggio Calabria.
Per risposta, Ferdinando ordinò lo stato d’assedio.
Fortunatamente, i tempi erano mutati. In quell’occasione i piemontesi Cesare Balbo e Camillo Benso conte di Cavour apparvero sulla scena della storia italiana, rivolgendo al Re un’esortazione alla clemenza.
Apparentemente, il Borbone tenne duro; ma presto licenziò i ministri reazionari Del Carretto e Santangelo. Poi, fece uscire dal carcere alcuni liberali.
Non gli servì molto. La sera del 27 novembre 1847, al Teatro Carolino di Palermo festeggiarono l’insediamento della Consulta per il governo dello Stato pontificio, voluta dal papa liberale Pio IX (che non restò tale).
“Viva Pio IX! Viva la Lega italiana!” si gridò.
Le manifestazioni continuarono il 28 ed il 30 novembre nella piazza della Cattedrale, nonostante la polizia li avesse proibite.
A dicembre fu diffusa la Lettera di Malta di Francesco Ferrara, dove venivano stabiliti i due punti-chiave del programma rivoluzionario: indipendenza da Napoli e federazione italiana.
51. Il proclama di Francesco Bagnasco
Il 9 gennaio 1848 apparve un proclama dello scultore Francesco Bagnasco:
Siciliani!
Il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni. Ferdinando tutto ha sprezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i leggittimi diritti?
Alle armi, figli della Sicilia! La forza di tutti è onnipotente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re.
Il giorno 12 gennaio 1848 segnerà l’epopea gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quei siciliani armati che si presenteranno a sostegno della causa comune, a stabilire le riforme e le istituzioni conformi al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia,, da Pio.
Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le autorità, e che il furto si dichiari tradimento alla causa della patria, e come tale sia punito.
Chi sarà mancante di mezzi sarà provveduto.
Con giusti principi, il Cielo seconderà la giustissima impresa.
Siciliani, alle armi!
Quella stessa mattina si vide un altro proclama dal titolo Ultimo avvertimento al tiranno. Il giorno dopo ne spuntò un terzo. Finalmente, il 12 i palermitani si riversarono nelle strade e uno di essi, Vincenzo Buscemi, sparò la prima fucilata.
52. Il 1848
Il 12 gennaio 1848 in diversi punti della città di Palermo l’abate Vito Ragona, il sacerdote Luigi Venuti, Giuseppe La Masa e Paolo Paternostro incitavano alla rivolta.
Si improvvisò la prima bandiera tricolore e si distribuirono le coccarde preparate nella notte dalla sarta Santa Astorina.
La Masa redasse un proclama, si costituì il comitato rivoluzionario e si diede il via agli scontri.
Alla fine della giornata i ribelli piansero un caduto in rua Formaggi, Pietro Omodei. I borbonici, invece, contarono dieci morti, di cui non ritennero necessario tramandare i nomi.
Il maresciallo Vial ed il generale De Maio, comandanti delle truppe regie, di fronte ad un simile precipitare degli eventi, non seppero far altro che ordinare alle truppe di rientrare nei loro alloggiamenti, aspettando che la buriana passasse.
Il giorno seguente, però, a dispetto della stagione, fu ancor più caldo. Durante gli scontri, per di più, Vial e De Maio constatarono che i soldati non avevano alcuna voglia di impegnarsi troppo.
Per loro fortuna, arrivarono in soccorso da Napoli 5.000 uomini a bordo di otto vascelli da guerra, al comando del maresciallo De Sauget e del fratello del re, il conte d’Aquila.
Si prese a bombardare Palermo. Ma, la città non si arrese. Al conte d’Aquila non restò che tornare a Napoli, per fare rapporto e ricevere ulteriori ordini. A complicare le cose, per di più, nell’esercito borbonico c’erano alcune diserzioni.
Ferdinando II tentò di correre ai ripari concedendo l’autonomia alla Sicilia. Mossa inutile, visto che i buoi ormai erano scappati dalla stalla.
I siciliani, questa volta uniti e determinati a vincere, il 4 febbraio finirono di liberare l’isola dai napoletani, regalando a Giuseppe Mazzini uno dei pochi sorrisi della sua vita.
“Siciliani” egli scrisse, “voi siete grandi!
“Voi avete, in pochi giorni fatto molto di più per l’Italia, patria nostra comune, che non tutti noi con due anni di agitazione, di concitamento generoso nel fine, ma incerto e diplomatizzante nei modi…
53. Vincenzo Natale nel parlamento rivoluzionario
Il 25 marzo si riunì il parlamento siciliano.
Due giorni dopo, il 27, veniva conferita a Ruggiero Settimo la reggenza della Sicilia, con tutte le prerogative regali nei limiti della Costituzione siciliana del 1812.
Ai ministeri andavano: Michele Amari alle finanze, Gaetano Pisano alla giustizia ed al culto, Pietro Lanza di Scordia all’istruzione e ai lavori pubblici.
Nella seduta parlamentare del 25, inoltre, su segnalazione del deputato di Catania Gabriele Carnazza, venne chiesta la nullità dell’elezione del deputato di Aci S. Antonio perché la commissione elettorale di quel comune aveva impedito che prendessero parte al voto gli elettori di Aci Catena, che su ragioni appoggiate da un atto del Parlamento del 1814 il Comitato generale aveva ammesso alle elezioni.
Col suo intervento Carnazza mirava a recuperare un seggio, per farlo assegnare a Vincenzo Natale:
“Bisogna operare” disse ai colleghi, “a beneficio di un uomo dal glorioso passato di parlamentare, la cui dottrina ed il cui equilibrio daranno ulteriore prestigio a questa istituzione.”
La faccenda non richiese tempi lunghissimi (ma, neppure brevissimi), dato che nella seduta del 6 giugno si fece la seconda lettura della legge che facultava il comune di Aci Catena di continuare a godere del diritto di rappresentanza nel Parlamento. Il voto favorevole fu all’unanimità. Così, finalmente, arrivò l’indirizzo di Aci Catena, dove si ringraziava la camera e si dichiarava di aver scelto Natale a rappresentare la città.
54. Le riforme
Vincenzo Natale venne ammesso nel Parlamento il 5 luglio e si distinse subito per una certa premura nel voler dare avvio alle riforme.
Il 31 luglio, per esempio, si votò lo scioglimento delle corporazioni dei gesuiti e dei liguorini. Ma, mentre parte della camera si mostrava restìa ad una loro espulsione dall’isola, Natale intervenne appassionatamente per far votare l’immediata espulsione di tutti.
Il 6 settembre ripropose il suo vecchio progetto sulla istituzione di un Giurì, ossia dei giudici di fatto, in tutte le materie criminali, per i delitti politici e per quelli commessi a mezzo stampa.
Era una piccola rivoluzione liberale in 37 articoli, poiché toglieva dalle mani di una chiusa corporazione, troppo spesso asservita ai potenti, il potere giudiziario.
“Il cittadino” disse, “non riposa sulla inviolabilità dei suoi diritti, se non quando è persuaso che la giustizia penale non potrà servire all’altrui vendetta, o favore, o ambizione: e questa persuasione può essere soltanto ispirata dalla istituzione dei giurati, i quali sono sottratti ad ogni influenza superiore, sono scevri da ogni spirito di corpo ed animati sempre dall’interesse comune a tutti i cittadini, cioè di protezione all’innoccente e di punizione ai malvagi.”
Vinse anche questa battaglia, dato che ottenne la costituzione di una commisione ad hoc, della quale ovviamente fu eletto membro.
Molte battaglie, ancora, furono combattute per far approvare un aumento del dazio sul vino, da tarì uno a tarì quattro, da versare al comune di Aci Catena, fino a tutto il 1849. Per questo il consiglio civico comunale gli mandò una lettera di ringraziamento.
55. Il triste caso del tenente colonnello Lanzarotti
Natale ebbe occasione di aiutare la vedova del tenente colonello don Carmine Lanzarotti, la triste vicenda del quale fu narrata dal deputato di Siracusa, Moscuzza:
“Il 3 settembre scorso il popolo di Siracusa, saputo che il nemico era alle porte di Messina, istigato dai rancori di alcuni, credette che il Lazzarotti stesse per tradire, se già non l’aveva fatto. La situazione si volse in tragedia quando l’innoccente venne ucciso, per essersi rifiutato di far parte del Comitato di difesa. Si istruisca, quindi, e tosto, il processo, ma non si leda l’onore del popolo siracusano. Io credo che, se l’ottimo cittadino signor Lazzarotti fosse stato più accorto, quel fatto atroce non si sarebbe al certo avverato.”
“Non si può mai giustificare il linciaggio” disse il deputato Vigo Calanna di Acireale. “Soltanto se gli assassini saranno processati, il popolo di Siracusa serberà intatto il suo onore.”
“Al momento, però” disse Natale, “il nostro primo compito è quello di rendere giustizia ad una vedova. Il processo, poi, eventualmente chiarirà i lati bui di questa dolorosa storia. Ora propongo una pensione vedovile di dieci onze mensili a favore della signora donna Maria Lanzarotti, con l’obbligo di contribuire per tre onze al mese al mantenumento della sorella dello sfortunato tenente colonnello.”
Si votò, a quel punto, sulla proposta di Natale, che venne approvata.
Di quell’esito, la sera stessa, il militellese deputato di Aci Catena dava comunicazione all’amico Gaspare Gambino di Catania:
“Lei mi comunicò che il Lanzarotti non volle mai servire il governo borbonico e viveva della sua professione di ingegnere e che il 1842 gli fu di assoluta rovina. So che nella rivoluzione ebbe da Mariano Stabile missione in Messina, quindi fu mandato a Siracusa. Egli, perciò, fu vittima della più cruda malvagità, che seppe eccitare il furore del popolo. Il suo parente, capitano d’arme D. Giocchino Gambino, procurò di salvarlo, e in effetti lo avea salvato, mettendolo in carcere, ma col tradimento lo fecero sortire quasi subito, tanto che il Gambino si portò a chiamare la forza ed il resto fu conseguenza. Oggi ho potuto soltanto porre il riparo che si poteva alla tragedia determinata dall’irragionevolezza della folla.”
56. Catania nel ‘48
I rapporti epistolari tra Vincenzo Natale e Gaspare Gambino erano nati dal compito che questi si era assunto di comunicargli il clima politico catanese di quei mesi.
Per esempio, l’11 settembre questi gli pennellava un quadro che tendeva al nero:
“Saprà certamente lo stato delle cose in Messina. Qui tutto il popolo è in armi, anche i ragazzi corrono avanti con piccole picche, l’entusiasmo è incredibile. L’evento di Messina, lungi di portare scoraggiamento, ha portato una maggiore straordinaria energia; tutti, al suono della campana della cattedrale che suona a stormo, corrono all’armi, chi con fucili, chi con lunghe micidialissime picche. Le strade sono barricate; molte pietre sono buttate in tutte le larghe e lunghe nostre strade. La causa di tutto ciò è stata la vista di tre vapori con due fregate napoletane che si vedono in questo mare, ma fino a questo momento che son le ore 24 non si sono avvicinati, tuttoché siano fin da questa mattina a vista. Ma le squadre sono venute dai paesi di questi contorni.”
Esattamente due mesi dopo, l’11 novembre, Gambino si rifaceva vivo:
“Ieri fu sontuosa e magnifica la solita processione dell’Immacolata. La guardia nazionale e tutta la truppa di linea in gran tenuta marciavano dietro la bara con un contegno militare veramente ammirabile.”
57. Fine della rivoluzione
Il 12 aprile 1849 a Catania tutto finito. Ruggero Settimo ne dava il triste annuncio col solito proclama:
Siciliani!
La città di Catania è caduta dopo fiera lotta, una parte delle milizie sosteneva l’accanito combattimento, mentre l’altra marciava a soccorrerla; sventuratamente non giunse a tempo!
L’onore delle armi è salvo, il Popolo di Catania ha versato il suo tributo di sangue, il nostro esercito si ricompone, e minaccia nuove offese!
Dalle ore 13 del Venerdì Santo sino all’alba del sabato, la città fu teatro di reciproche stragi; la feroce soldatesca incrudelì contro le donne, i vecchi, i fanciulli, portando a piene mani la morte e lo incendio, violò chiese e monasteri.
Cristo vendicherà le profanazioni commesse nel giorno del suo martirio in nome del superstizioso tiranno.
Noi non parliamo più all’inesorabile Europa; parliamo a noi stessi; desideriamo soltanto che il nemico venga qui a combatterci corpo a corpo ad un fatale duello. Palermo o Ferdinando di Borbone dovranno scomparire dall’Universo!
Il 17 aprile 1849, infine, il Parlamento siciliano decretò la sua proroga al 1° agosto; ma. non si poté più riunire.
58. Memoria del futuro ministro del Regno d’Italia Salvatore Majorana Calatabiano
Nato a Militello, da giovanissimo feci proposito di non restarvi anche perché ero addolorato dalla depressione in che Militello era tenuto dalla famiglia Majorana Cocuzzella che mai risparmiò mezzo per signoreggiarlo.
E pure non ebbi mai a lamentare un grave e diretto contrasto con quella famiglia. Se non che nel mese di giugno 1848 si veniva ad aprire un Circolo Nazionale per incitamento di quello di Catania, e malgrado io ne avessi invitato l’attuale barone a prendervi parte, essendo un’istituzione giovevolissima per l’educazione morale e politica del popolo; quella famiglia si scatenò con tale e tanta violenza contro tutti, e segnatamente contro me, che più volte taluno di loro, e più il fu Giovanni Majorana alla testa di bravi e d’armati a spese del Comune, scorazzò, più spesso e più accanitamente che nei precedenti mesi del 1848 non avesse fatto, per le piazze e strade della città, e sotto le case particolari, offendendo in mille guise i più rispettabili e pacifici cittadini.
Ad uno di quegli insulti ed alle minacce relative è dovuta la malattia e quindi la morte del medico don Felice Laganà, giusto nel settembre 1848.
Una sera dell’agosto 1848, presso alle ore due, sono stato aggredito insieme al fu avv. Vincenzo Vecchio dai sicari di casa Cocuzzella, il fu loro cuoco Salvatore il Palermitano, e l’attuale Rosario Alimo Circello.
I sicari avevano armi da fuoco e bianche, io e il mio compagno eravamo nella via della piazza presso al Monastero S. Benedetto: sopravvenne gente e mi lasciarono; e pure continuarono le ingiurie e minacce fino alla piazza contro il povero Vecchio.
Altra volta nel 1848 nella famacia Tinnirello il Giovanni Majorana con bravi venne a fare invettive e minacce d’arresti, e quasi per un’ora tenne sequestrati me e alcuni amici che eravamo colà.
Alquanto pronunciato, precisamente nei miei scritti del 1848/9, contro la signoria borbonica, fui consigliato, al di lei ritorno in Sicilia, di non allontanarmi da Militello, dove pure mi teneva debito d’onore di non abbandonare la famiglia del mio povero defunto Laganà.
Nel 1850 divenni sposo della sua vedova e padre dell’unico suo figliuolo allora di meno di cinque anni.
59. Salvatore Majorana Calatabiano a Militello
A differenza di Natale, Salvatore Majorana Calatabiano non aveva aristocraticismi illuministi. Era cosciente che una forza politica moderna, più che sulle idee, poggia sulla coesione del gruppo. Per questo, organizzò i suoi amici come un partito, i cui leader carismatici, oltre a lui, erano il baronello Vincenzo Reforgiato, i fratelli Cirmeni e il giovanissimo figlio del medico don Felice Laganà, Francesco Laganà Campisi. Riunitisi attorno alla parrocchia di Santa Maria, ben presto, questi si fecero conoscere come gruppo dei cavallacci, o dei comici.
Composto in prevalenza da giovani, erano uniti da un legame di natura goliardica, oltre che politica.
Fino all’Unità, essi si distinsero soprattutto per certi scherzi memorabili, come quando provocarono una vera e propria inondazione nella casa di due poveri venditori di acciughe.
Spesso e volentieri, inoltre, praticarono la rivoluzione anticipando il concetto di esproprio proletario dei moderni contestatori, cioè facendo man bassa nei vigneti e nei porcili non ben guardati.
60. La carriera di Salvatore Majorana Calatabiano
L’ascesa politica di Salvatore Majorana Calatabiano cominciò nel 1850, dopo la laurea in giurisprudenza a Catania. Se il caldo interessamento di Vincenzo Natale, gli fu insufficiente per ottenere la cattedra di Economia all’Università di Catania, ebbe in compenso affidato un insegnamento privato di scienze sociali, esercitando al contempo l’avvocatura.
Il salto di qualità, però, lo fece nel 1860, con la nomina a delegato della Dittatura garibaldina a Militello.
Da qui, passò alla carica di ispettore provinciale ed a quella di provveditore agli studi.
Nel 1865, poi, vinse il concorso a professore di economia politica nell’ateneo di Messina, ufficio da cui si dimise per l’elezione alla Camera nel 1866.
Restò deputato ininterrottamente fino al 1879.
Nel marzo 1876 venne, finalmente, chiamato nel governo della Sinistra di Agostino Depretis, come ministro dell’Agricoltura, dell’industria e del commerico, incarico che resse fino al dicembre 1877, quando il ministero fu soppresso.
Lo stesso ministero fu ricostituito nel 1878 ed affidato da Depretis nuovamente al Majorana, che lo resse fino al 1879.
Quello stesso anno venne, infine, nominato senatore.
La carriera politica politica non gli impedì di mantenere un prestigio intellettuale di livello nazionale. Perciò, nel settembre 1874, insieme ad un gruppo di uomini della Destra (Peruzzi, Ricasoli, Cambray-Digny, Bastogi, Busacca, Torrigiani) e della Sinistra (Ferrara, Magliani, Mancini), fondò a Firenze la Società “Adamo Smith”, che si proponeva di promuovere, sviluppare, propagare e difendere la dottrina delle libertà economiche, quali furono intese dal suo precipuo fondatore, Adamo Smith, poi svolte ed applicate dagli economisti e da’ governi che l’hanno adottata.
Come organo ufficialedell’Ente, fu fondato il settimanale ”L’Economista”, al quale, ovviamente, egli collaborò. Morì a Roma nel 1897, capostipite di una dinastia di uomini illustri, fra i quali spiccarono i figli Angelo (che fu ministro di Giolitti) e Giuseppe (che fu deputato e rettore dell’Università di Catania) ed il nipote Ettore (il geniale scienziato misteriosamente