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AGRITURISMO ARTE LETTERATURA MILITELLO VAL CATANIA: VICTORIAM NUMQUAM ABDICAVIT

Garufi Tanteri, S. P. “L’Uliveto di Ponte Boria”, novella (scritta nel ricordo di mia nonna e dei miei zii, Concetta Garufi e Carmelo Polvirenti)

L’Uliveto di Ponte Boria

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

La leggenda del pollo azzurro per un po’ di tempo diventò conosciutissima nei cieli sopra il Castello degli Schiavi, territorio di Marina di Cottone, parte dell’ex-Contea di Mascali, tra l’Etna ed il Mar Jonio.

Un paio di chilometri più sopra, una volta, prima che vi passasse l’autostrada Catania-Messina, c’era – e c’è – Ponte Boria, una fila di case pensate e costruite per restare a un solo piano, a diretto contatto con la campagna retrostante.

Ancor più su, si distende Piedimonte Etneo e poco più sotto trovi I Putieddi, come oggi improvvidamente non viene più chiamata Fiumefreddo di Sicilia.

In dialetto, Putieddi significa Botteghelle. Questo perché lì era il punto tra Giarre e Taormina, dove carrettieri e pescatori si fermavano a far spese importanti: farina, ceci, acciughe sotto sale, formaggi, baccalà, stoccafisso, vino e carne vaccina. Invece, verdure, limoni, frutta, maiali, galline, conigli, olive e gamberi di fiume a Ponte Boria non avevano banchi in cui stare esposti. L’autarchia familiare faceva girare poco il commercio.

Ogni casa, infatti, aveva una porta che dava sulla strada, oltre la quale correva la saia, un canalone di pietra bianca, con dentro l’acqua chiacchierina del Fiume Freddo, che, poco dopo, si sarebbe sposata con l’infinito azzurro di Marina di Cottone.

Sul retro, poi, trovavi l’intero universo. Si entrava in un cortile abitato da un pulviscolo di animali domestici, chiuso da una staccionata che dava sulla collina dell’Uliveto, misterioso continente, dove noi ragazzi ci contendevamo i nostri personali imperi a suon di timpiate, cioè con pietre e schegge di timpa aguzze, che cercavano direttamente le teste degli avversari.

Scendendo verso Marina di Cottone, inoltre, incontravamo il Castello degli Schiavi, famoso per aver fornito la scenografia del film Il Padrino, nel racconto degli anni siciliani del giovane Michael Corleone.

I racconti leggendari degli uomini del posto si raggrumano intorno al Castello degli Schiavi, dove inganni, scorrerie e prepotenze dominano la scena. Lì, infatti, il rampollo della nobiltà taorminese, don Nello Corvaja, visitava con piacere la bellissima donna Rosalia di Villabianca, moglie del medico palermitano Gaetano Palmieri, che aveva ottenuto la proprietà del prestigioso edificio – opera di Giovan Battista Vaccarini e di Sebastiano Ittar – da don Ferdinando Francesco Gravina, Principe di Palagonia (avendone guarito da una grave malattia il figlio, Ignazio Sebastiano).

Un giorno sbarcarono a Marina di Cottone i turchi, che saccheggiarono la zona e rapirono i coniugi Palmieri, allo scopo di rivenderli come schiavi.

Ma, fortunatamente, i pirati furono fermati dagli armati del cavalier Corvaja, che, dall’alto di Taormina, aveva visto lo sbarco delle galere.

Come ringraziamento per lo scampato pericolo, il Palmieri fece edificare, accanto al castello, una chiesetta dedicata alla Madonna della Sacra Lettera. Fece, in più, costruire una loggia nella quale mise due statue di turchi, Shamira e Mustafà, a raffigurare due prigionieri che guardano con nostalgia il mare.

Fin qui il racconto degli uomini, che – si sa – hanno un modo di ragionare diverso da quello degli animali. Ogni essere – animale o vegetale che sia – vive in un universo personale.

Per esempio, per noi ragazzi, in quei posti diventava del tutto irriconoscibile lo spirito avventuroso del cavaliere Nello Corvaja. Le armi – le filecce (fionde) e i cannoli (cerbottane) – ce le costruivamo da soli, con un tocco di robustezza e di decorazione che ristabiliva le gerarchie sociali.

In un certo senso, andava meglio così. Ognuno era capo nel suo spazio e non aveva né giornalisti né santoni della comunicazione, a dirgli come è giusto pensare, o come è giusto vestirsi.

Persino don Felice, il gallo di donna Michela Grasso – e qui passiamo negli universi degli animali -, si sentiva un sovrano, avendo ben dieci pollastre a disposizione.

Mica si informava mai sul Natale, don Felice!

Purtroppo, un brutto giorno anche lui, don Felice, si prese una bella collera. Carolina, una gallina che spesso se ne stava sulle sue, a pigolare appartata dalle compagne, cacciò fuori un uovo piccolo piccolo e azzurro come il mare… o come il cielo di Mascali, che del mare è lo specchio, se lo guardiamo con l’occhio di una gallina.

Alla verità del fatto, purtroppo, don Felice non poteva arrivarci. Un gallo può saperci fare con le galline, ma dei misteri della vita non studia nulla. In quello strano uovo, infatti, era andato a ficcarsi Turiddu Garufi, parente di Barbara A bedd’o canali e marito di donna Michela.

Tutti lo credevano morto in una rovinosa caduta dal carretto – non si seppe mai bene se dalle parti di Carrubba o di Pasteria -. Fine, in fondo, prevedibile per lui, cugino di Pancrazio Garufi, il mitico capo-mandamento della Mano Nera di New York (dove si era rifugiato, scappando dalla Sicilia, dopo che il deputato Napoleone Colajanni lo aveva indicato come complice degli assassini di Emanuele Notarbartolo).

A quei tempi, anarchici e socialisti oltrepassavano facilmente i confini della legge ed avevano un debole soprattutto per le donne, le grandi mangiate ed il vino nero dell’Etna. Era il loro modo di sposare la lotta dei diseredati e degli sfruttati, molto simile a quello del romagnolo Alessandro Mussolini, il padre del più celebre Benito.

E che cosa c’è di più diseredato e di più sfruttato di un pollo?

“Che uovo miserello! E che brutto colore che ha!” disse, perciò, donna Michela e non lo raccolse.

Così nacque Turiddittu Fungidda (Piccolo Salvatore nel dialetto del posto), un pulcinetto con le piume azzurre spruzzate di bianco, a cui donna Michela, un po’ per celia, un po’ per scaramanzia, mise il nome del suo gigantesco marito, erroneamente creduto ad arrostire all’inferno, mentre invece era rimasto sotto forma di fantasma nelle vicinanze del carretto col quale era caduto dal ponte, ubriaco come una scimmia e molto, molto arrabbiato con chi soltanto lui sapeva che l’aveva buttato giù.

Per Turiddittu la vita da pollo, con quelle penne che da pollo non erano, fu subito dura. Nessun compagno gli dava confidenza. Persino don Felice, il padre ufficiale, lo beccava per cacciarlo via. I conigli, addirittura, lo guardavano ed avevano un fremito sotto il naso, come una specie di sorriso sfottente.

“Sciò! Sciò!… Allascati, che porti jella!” tutti gli dicevano, tortore e porcellini d’India compresi.

“O resto proprio la vergogna dei gallinacei…” concluse allora Turiddittu, che a forza di star da solo aveva imparato a ragionare da solo. “O dimostro di essere un bellissimo ed incompreso cigno!”

Quest’ultima ipotesi gli veniva dalla fiaba del Brutto anatroccolo, che donna Michela, amante delle storie antiche, gli aveva raccontato.

“Ad ogni modo, so bene di non essere come gli altri!” completò Turiddittu. “E tanto vale che mi abitui all’idea e coltivi la mia diversità… magari per farne un motivo di forza!”

Per esempio, cominciò a riflettere… le galline hanno le ali, ma non volano. Però, se Dio ci dato gli strumenti, perché non li usiamo?

“Hanno paura!” esclamò, dopo un paio d’ore di domande senza risposte. “La paura ci fa diventare conservatori. Nella giusta dose è un bene perché non ci fa imbarcare in avventure sistruttive, tipo la delinquenza o la rivolta populista. Ma, la paura esagerata ci blocca e, quindi, quando sarebbe il caso di scappare, ci facciano acchiappare come tanti scemi!”

Salì, perciò, sulla staccionata e si lanciò nel vuoto, tentando di volare…

Ed, infatti, fece un ruzzolone tale, che per poco non ci rimise l’osso del collo!

“Ecco perché le mie compagne hanno paura di pensare!” mormorò Turiddittu, restando a terra meditabondo. “Se pensi e sùbito agisci, senza pensare a come agisci, è davvero un guaio!”

Non si scoraggiò, quindi. Scelse un’alzata più piccola e per giorni e giorni stette a sbattere le ali in aria, sperando di andar su, anziché giù.

Finalmente, una mattina azzeccò la giusta posizione del corpo, addirittura al primo tentativo.

Sentì sotto di lui come un cuscino solido e morbido, che lo teneva e lo lasciava libero di muoversi in ogni direzione. La libertà, cioè il diritto di ognuno ad essere diverso dagli altri, fu il primo regalo che gli fece il pensiero.

Purtroppo, dopo pochi giorni, mentre se ne stava a volteggiare nel cielo insieme ad alcuni passeri – che già avevano deciso di eleggerlo capo dello stormo – sentì uno sparo e vide un suo compagno cadere colpito.

Riuscì a scappare, nascondendosi tra il fogliame di un albero e lì stesso, anziché perder tempo a tremare di paura, ricominciò a riflettere:

Perché l’uomo è così forte?

E’ brutto, non ha peli per proteggersi dal freddo, non ha ali per volare, non ha denti buoni per azzannare, non segue le piste di odori, si muove male nel buio…

Perché… perché mai l’uomo è l’animale più forte?

“Perché non si rassegna ai suoi limiti!” gridò e ci stava quasi rimettendo le penne, poiché per la gioia fece un salto e mosse le foglie, facendo ripartire i colpi di fucile nella sua direzione.

Passò subito da un albero all’altro, sempre nascosto nel fogliame, senza tentare la fuga nel cielo aperto, come, invece, stupidamente fecero i passeri, lasciando numerose vittime sul terreno.

Arrivata la sera, Turiddittu si sentiva tanto stanco che decise di rimanere sugli alberi per l’intera notte, anche se il drappello di cacciatori fondamentalisti era ormai andato via.

“Ci si sazia mai con la carne di un passero?” si chiese Turiddittu. “E puoi definire cacciatore un tipo che uccide, non per fame, ma per divertimento?”

Capì che la risposta a questa domanda stava in un fatto che apparentemente non c’entrava… Gli uomini avevano sostituito il becco e gli artigli coi fucili, diventando, così, tanto forti da poter permettere a troppi di loro di esibire tutta la loro prepotenza da psicopatici.

“Possiamo essere cattivi ed anche imbecilli, soltanto se si è sicuri di vincere, soltanto se si può uccidere senza essere uccisi!”

In altre parole, la libertà non esiste quando si è sotto minaccia.

Urgevano, quindi, due cose:

  1. Artigli artificiali;
  2. fare gruppo, in modo da moltiplicare la propria forza.

Per gli artigli artificiali bastava il pensiero. In fondo, già col pensa e ripensa aveva imparato a volare. Con un po’ di concentrazione, prima o poi, l’idea di un’arma adatta alla sua razza gli sarebbe venuta…

Ma, come fare diventare un gruppo ben organizzato ed efficiente tutto il mondo dei polli?

“La parola!” starnazzò, che ormai spuntava l’alba. “Con la parola entrerò in relazione coi miei fratelli e costruirò la Libera Confederazione dei gallinacei!”

Si mise subito all’opera.

Elaborò un nuovo linguaggio per certi versi geniale, perché comprendeva anche i concetti astratti e le relazioni che li legano.

Combinò i versi tipici delle varie razze con la posizione delle ali, della coda e della testa, fino ad arrivare a tremila parole.

Per esempio, per dire “Ho voglia di dormire” tirava fuori la lingua per leccarsi il becco, come se stesse assaggiando un cibo gustoso, e poi reclinava dolcemente la testa e chiudeva gli occhi.

I movimenti, invece… – battere la zampa, un passo avanti, un inchino… – diventarono le connessioni grammaticali.

Per ricordarsi il tutto inventò la scrittura dei polli, fatta con sassolini disposti in modo appropriato.

Alla fine, si fece il giro di tutti i casolari dei dintorni, per insegnare la sua lingua ai pulcini più svegli.

Arrivò fin sotto la villa che chiamano il Castello degli schiavi, da cui – così dicevano gli antichi – si partiva un sentiero che saliva fino alla Luna.

“Ma non basta!” gli disse alla fine Beppe U Messicanu – un condor immigrato clandestinamente dal Cile, a bordo di una nave battente bandiera tedesca – che era diventato il suo braccio destro e la sua guardia del corpo.

“Senza le armi…” continuò Beppe, “di tutte le cose che ci hai insegnato, restano soltanto parole e discorsi a perdita di tempo!”

“L’arma per battere l’uomo…” scandì Turiddittu, “l’abbiamo sempre avuta sotto gli occhi!”

Fece un volo e salì sopra un albero, per dominare dall’alto il suo interlocutore.

“E’ la sua stupidità…” riprese, “il suo egoismo cieco, la sua avidità!”

“Addio!” fece il condor. “Ci mancava proprio il comizio, per completare il nostro destino amaro di uccelli!”

Turiddittu si spostò su un ramo più in alto.

“Lo so“ declamò. “Sono figlio del mare… Mia mamma Carolina buonanima… che nell’ultima Pasqua è finita ingloriosamente a bollire in una pentola, non era buona soltanto per il brodo… Ai suoi tempi era una bella e vezzosa gallinella, tanto che mi concepì col dio Nettuno, che… ma pochi lo sanno… abita da queste parti!”

“Tu sei figlio di don Felice, che, anche lui ingloriosamente, si è ritrovato in padella lo scorso Natale!” lo schernì Beppe. “E poi, che c’entra questo discorso con l’arma che cerchiamo?”

“Tu non hai i miei studi e non sei in grado di capirmi subito… quindi il tuo parere è inutile!” ribatté Turiddittu. “Nettuno confidò a mia madre che davanti a Marina di Cottone naufragò un galeone spagnolo pieno zeppo di zecchini d’oro provenienti dalle Americhe…”

“Ebbe’? Che ce ne facciamo? Col denaro possono farci qualcosa gli uomini, ma gli uccelli? Manco mangiarlo, possiamo!”

“Basta andare a prendere quelle monete e buttarne un po’ in mezzo alla gente…” concluse Turiddittu. “Vedrai come tutti si scanneranno fra loro!”

“E come ci arriviamo a quell’oro, se giace in fondo al mare?”

“Mentre tu sprecavi i tuoi giorni a fare lo scettico blu con polli più polli di te… io, Turiddittu, il pollo azzurro, figlio del dio Nettuno e della gallina Carolina… ho imparato a nuotare… a pelo d’acqua ed anche sott’acqua!”

Ne diede subito dimostrazione.

Salì alto alto, fin quasi a toccare le aquile, chiuse le ali, allungò il collo e si lanciò in picchiata sul mare, come fanno i falchi quando si avventano sulla preda.

Fu un tuffo perfetto. L’acqua lo accolse, quasi senza lanciare spruzzi. Dopo un po’, riemerse con una moneta nel becco.

“Bene” disse a pulcino Beppe. “Impara questa tecnica ed insegnala agli altri… Poi, prendete tutte le monete del galeone e nascondetele dietro il muro della chiesa della Nunziatella di Mascali.”

E così si fece.

Quando, finalmente, Turiddittu ebbe a disposizione gli zecchini, cominciò a farli cadere dall’alto in ogni assembramento umano che vedeva. Quei soldi, piovuti da chissà dove senza un minuto di lavoro, provocarono lo scatenarsi dell’arraffa arraffa e nella Contea di Mascali scoppiarono mille guerre.

Divide et impera!” osservò Turiddittu, chiudendo il libro di Machiavelli. “In quanto ex-uomo, sapeva già leggere e capiva ciò che leggeva, a differenza degli uomini dei tempi nostri, che pensano soltanto a guadagnare bene, a spendere male e a non capirci nulla della vita.”

Dopo un mese il cimitero divenne il paesaggio dominante della Contea di Mascali, tanto più che ben presto arrivarono i topi, gli animali più vocati alla politica, a ruzzolare in mezzo alle rovine, facendo scoppiare la peste.

Tutti questi avvenimenti portarono, finalmente, al costituirsi della Libera Repubblica dei polli nella zona dell’Uliveto sopra Ponte Boria.

Furono issati dei muri tutt’intorno ed i ciottoli della spiaggia di Marina di Cottone diventarono degli ottimi proiettili, dato che i soldati di Turiddittu, che ormai volavano come uccelli e nuotavano come pesci, applicando la tecnica guerrigliera del mordi e fuggi!, li facevano cadere in testa a chiunque si avvicinasse.

“Ora bisogna che io ti dica la verità!” disse a Turiddittu Martino, il gufo dei Monti Iblei., in una notte stellata di luglio, mentre la Luna all’orizzonte sembrava sedersi a riposare sulla cima degli alberi.

Martino veniva da lontano, cioè dalla campagna davanti alla Casa del Sogno Antico, sui primi balzi dei Monti Iblei, dove aveva abitato Mariano Coricuntentu, prima di essere impiccato da gente invidiosa, che non sopportava l’idea che lui sapesse fischiare come neppure gli usignoli sanno cantare.

“Tu non sei figlio di Nettuno… e neppure di don Felice buonanima… Tanto tempo fa il mio amico Mariano Coricuntentu venne qui con Urano, il dio del cielo… Fu con Urano che tua madre ti concepì, non con Nettuno!”

“Ma, allora Nettuno?” osservò Turiddittu.

“Beh, un po’ leggera tua madre lo era… Urano fu l’avventura di una notte, Nettuno quella di una vita…”

“E le mie penne azzurre… come le spieghi?”

“Il cielo è azzurro! Urano è grande come il cielo… Il mare non fa altro che riflettere il suo colore.”

Qui cominciò il tormento di Turiddittu.

Finché suo padre era Nettuno tutto andava bene. Il mare lo tocchi, puoi farti accarezzare da lui, ti puoi fare abbracciare…

Ma, il cielo?

Il cielo è il vero Dio… lo vedi da lontano, sai che esiste, ma non sai com’è fatto veramente.

“Ecco dove si ferma la forza degli uomini!” esclamò Turiddittu, dopo tre giorni di intensa concentrazione. “Gli scienziati, è vero, cercano sempre di capire come sono le cose, quali sono le leggi che le governano… ma la testa che ha pensato quelle leggi non la vedono e, perciò, dicono che non esiste… oppure la vedono da lontano, come da lontano vedono il cielo… e quindi la vedono a modo loro!”

Per tutto il giorno non mangiò neppure, perché sapeva che stava per prendere la decisione più importante della sua vita…

“Andrò da mio padre!” si disse, infine, sul far della sera. “Volerò fino a toccare il cielo, fino ad entrare dentro di lui come si entra dentro il mare, fino a farmi ab-bracciare da lui, fino a diventare una cosa sola con lui!”

Preparò un bel po’ di vettovaglie, che mise in uno zainetto e all’alba successiva salutò gli amici e i compagni, che già lo piangevano perduto, e partì.

Volò per tutto il giorno.

Verso le cinque del pomeriggio toccò le prime nuvole e sentì freddo. Per fortuna, nello zainetto c’era una specie di gilè e lo indossò.

Volò tutta la notte.

All’alba successiva le nuvole erano sotto di lui, come un branco di candide pecore, come isole soffici sul mare, come le brizzolature che elegantivano le sue penne.

Alzò lo sguardo: il cielo era di un azzurro compatto, lontano sopra di lui, esattamente come quando era partito.

“Ora chiudo gli occhi e volo finché con la testa non tocco il cielo…” decise.

Per tre giorni e tre notti volò senza fermarsi.

Ad un certo punto, gli mancò il respiro.

Aprì gli occhi e vide che la terra era diventata una specie di palla azzurra sotto di lui.

Si guardò intorno…

C’era nero e silenzio dappertutto.

Fu questo ciò che vide e sentì, un attimo prima di morire.

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Pubblicato da terrazze

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).

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