Le Terre dell’Ulivo e i loro protagonisti: un oratore

Le Terre dell’Ulivo e i loro protagonisti: un oratore

Un oratore

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

La Storia, fino a questa sera, è stata un carnevale. Sono cambiati i vestiti, le divise, le lingue… cose che non toccano l’anima del popolino. Dai discorsi non esce niente e la loro pioggia scivola via dalle spalle dei contadini. La sostanza, il succo, sta nei maccheroni che buttiamo nella pentola. Francia, Spagna, Italia, fascisti, democristiani, comunisti sono stati acqua di fiume. Rumori che vanno via, a morire in un mare lontano.

Resta il contadino che parla con la sua zappa.

“I mafiosi non sono più neppure briganti” questo va predicando Nello Musumeci, al di là delle chiacchiere. “Non sanno essere leoni e si accontentano degli avanzi, come gli sciacalli. Chiedono il pizzo, rapinano i vecchi; ma, se vedono una divisa di carabiniere, si mettono a pecoroni, offrono il caffé e diventano nulla!”

Tutto questo mondo di ruffiani, maccagnoni e affaristi ora va via, come una macchia sul vestito della festa. Ora Nello si toglie la cinghia e a qualcuno insegna l’educazione.

Ecco, quindi, come un comizio diventa una cosa diversa. Non è più la sfilata di Regime di sovietica memoria, o la folla oceanica davanti al balcone di Piazza Venezia. Non c’è neppure il peronismo descamisado davanti alla bellezza fiera di Evita. Giovanna d’Arco e tango argentino non erano di moda quando negli anni Settanta si impazziva per i Beatles e si protestava contro la guerra in Vietnam.

Il comizio di Nello Musumeci fotografa una società ormai cambiata.

“Porque esta vez no se trata de cambiar un Presidente, serà el pueblo quien costruya un Chile bien differente!” accenna Tommy, nostalgico degli Inti-Ilimani e della Unidad Popular.

I compagni lo guardano, prima con la faccia brutta del papà dopo una birichinata del figlio… poi, scrollano le spalle e mostrano un trattenuto sorriso.

“Ma sì! Proviamo anche questa!” conclude Antonio, barbiere da poco eletto Sindaco, dopo che al Partito Comunista gli hanno comunicato che tutti i comunisti non sono più comunisti.

“Però, i manifesti di Gramsci e Che Guevara restano dove sono, sui muri della mia bottega… Con Gorbaciov si vince, ma non si sogna!”

Così, ora che Nello Musumeci torna a Militello, alla fine del suo giro elettorale, come il Santissimo Salvatore alla chiusura dell’ottava, applaudono in molti, compagni, amici e camerati.

Veloci saluti strappati alla calca e, finalmente, spunta sul palco, circondato dai pretoriani. La musica tace. C’è un accenno di inizio, subito interrotto dalla campana che scandisce le ore cittaddine…

“Campana santa!” commenta Nello, catturando la sorridente attenzione generale.

In fondo, Papa Giovanni Paolo II conquistò il mondo col suo Se sbaglio, mi corrigerete!

“In verità, a voi che mi avete visto crescere posso dirlo…”

Ha il tono confidenziale di Alberto Lupo, quando recitava le poesie di Jacques Prevert.

“Qui sto con gente che mi vuol bene, alla quale posso parlar chiaro, pane pane vino vino, come si dice… Questa campagna elettorale è stata durissima e non so quanti chili ho perso…”

Ora, egli è l’icona bizantina del ragazzo che ha scalato la montagna delle invidie e delle trappole.

“Sta squagliando come una candela!” nota Rita, vecchia compagna di giochi della più tenera infanzia.

“Ci nuota dentro quei pantaloni, povero figlio!” aggiunge Olga, che le sta vicino.

Olga è la sorella di Nello e, certamente, è la più fedele delle sue fan.

“… E sono stanco, credetemi” riprende a dire Nello. “Sono stanco davvero! Ho comiziato in tutti i paesi della provincia di Catania. Vi confesso che non è stato un viaggio di piacere. Non ho trovato la Provincia che io amo e che voi amate, ma una strada in salita, scoscesa, piena di rovi e di burroni…”

In questo attacco anti-eroico c’è una secolare sapienza oratoria, acquistata d’intuito e pazientemente raffinata, come accade ai cavalli di razza della politica. E’ questo il suo modo di pulire dai pregiudizi ideologici l’animo di chi lo ascolta. Egli non si rivolge alla folla, ma agli individui, come presi uno a uno. Tutti si sentono speciali compagni di strada.

Migliaia di punti di vi sta che non si incontravano convergono sul suo unico punto di vista. Esibire la propria fragilità è il modo migliore per parlare a nome di una comunità.

Eppoi, lo scrittore Leo Longanesi, al termine di una tempestosa riunione di redazione, disse ai giornalisti che avevano opinioni che tra loro si volevano bene come il diavolo e l’acqua santa:

“Sono il vostro capo e quindi vi seguo!”

Nello fa la stessa cosa, ma in contro-danza. Si fa seguire da tutti perché a tutti dà l’idea di essere loro le teste che pensano. Il cuore, u civu civu, della sua tecnica oratoria, infatti, non lo trovi teorizzato nei manuali di letteratura classica. Non c’è la fioritura decorativa dei vasi corinzi e le metafore dello stile asiatico; non c’è neppure il racconto asciutto dello stile attico, che fu proprio dei fratelli Caio e Tiberio Gracco; e non ha la sapiente mescolanza di cultura e provocazione dello stile ciceroniano, che ha fatto la fortuna di molti rinomati oratori di Destra, da Gaetano La Terza, a Enzo Trantino, a Giorgio Almirante.

Se proprio vogliamo trovargli un modello – la sparo grossa -, credo che il William Shakespeare del discorso di Marco Antonio nel Giulio Cesare sia l’archetipo platonico del suo stile sentimentale:

“Non sono venuto a vendicare Cesare. Sono venuto a seppellirlo.”

“Ma, in quarant’anni di Regime, quanti aiuti abbiamo visti? Dove sono i De Mita, i Craxi, gli Andreotti?” ripiglia il filo del discorso Nello. “Durante tutta la campagna elettorale, ho sentito insulti, calunnie, anatemi! Non ho sentito un’idea per risollevare quest’isola dalla miseria, per farla uscire dall’umiliazione di cercare una raccomandazione, per dare a ognuno un lavoro necessario come il pane, un lavoro che ci desse la dignità a cui ogni uomo ha diritto, un lavoro che ci restituisse la stima dei figli e delle mogli, un lavoro per poter guardare dalla stessa altezza il potente di turno, un lavoro che non ci faccia andare emigranti, un lavoro che dia orgoglio alla nostra agricoltura, al nostro artigianato, al nostro turismo, alla nostra creatività nell’arte, alle nostre eccellenze nella cultura e nell’imprenditoria… un lavoro che sia sintesi e segno di vita, un lavoro che sia ricordo dei compaesani, un lavoro che sia consolazione nelle disgrazie, un lavoro che non sappia di sale come il pane dato per elemosina…”

Il professor Giovanni Cavalli, a questo punto, non può fare a meno di sussurrarmi la scovata citazione: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scender e il salir l’altrui scale…”

“Ed anche Dante l’abbiamo sistemato!” dice Cavalli.

A me, invece, il martellare della parola lavoro riporta in mente lo stile del poeta medievale Turoldo, autore della Chanson de Roland (Rolant, nel francese dell’epoca).

Questa tecnica – il nome giusto è interazione – venne evidenziata dal filologo Antonio Viscardi:

“Respont Rolant: Jo fereie que fils! “En dulce France la perdreie mun los.

“Respont Rolant: Ne placet Dominedeu…

“Respont Roland…”

Così, dopo i fuochi d’artificio dei cahiers de doleances, secondo un letteratissimo schema – o. meglio ancora, secondo uno schema quasi cinematografico -, il viso si distende nell’affabulazione di un idillio leopardiano.

Nello racconta un suo momento intimo. E’ una storia che tutte le orecchie che pendono dalle sue labbra avrebbero già potuto conoscere, che probabilmente hanno già conosciuto.

“Eravamo a tavola” dice. “Io, mia moglie e i miei figli… a Catania… ma, tanto per cambiare, io pensavo a Militello… Giovanna, ho detto allora, non voglio farti un torto, ma vivere in città, lontano dai miei amici, per me è un po’ un esilio… se dovessi venire a mancare, un solo favore ti chiedo… tu mi devi portare…”

Col braccio steso indica la via Pietro Carrera, che tutti i funerali della città percorrono, prima di scomparire nelle nebbie smemorate del cimitero. “… Là in fondo! Coi miei fratelli della Confraternita della Catena!”

Qui gli applausi diventano delirio collettivo.

La zza Lucietta si alza dal suo trono e, agitando le braccia ed il suo vasto corpo fasciato di sempieterno nero – quasi una divisa iraniana delle donne siciliane – urla dal balcone del Movimento Sociale Italiano:

“No, Nello! Tu non devi morire mai!”

E questo parve il giusto epilogo di una nottata indimenticabile.

“Sarà nato stanotte il notabile di domani?” chiese Rocambole a Mazzacanagghia.

“Chiedilo a lui, non a me” rispose Mazzacanagghia, indicando un’ombra tremolante ai piedi della scala di San Nicolò.

Sorrideva ed era preciso preciso il ritratto di don Popò De Cristofaro.

Era forse un fantasma?

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Pubblicato da IL GIORNALE DI ROCAMBOLE

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).

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