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Dopo il suo trasferimento in Piemonte (per “assegnazione provvisoria”), Salvatore capì che il confine tra l’isolato ed il superuomo è molto labile. Quando l’intero mondo diventa nemico, qualcuno può cominciare a pensarlo come uno strumento per la propria difesa. Proprio quello stesso mondo.
La sua prima conquista femminile nordica successe perché a Marilena piaceva Pasquale.
Veniva dalla Puglia, Pasquale, ed aveva portato un olio fragrante e dorato, che solidificò al freddo immobile di Cortemilia, provincia di Cuneo. Poi, gli portò pure il danno della stufa a legna otturata, disperatamente inutilizzabile. Fra i tanti pregi, Pasquale aveva il difetto di piccarsi meccanico e, per migliorare il rendimento della stufa, l’aveva sfasciata definitivamente.
Quindi, nelle due stanze più accessori che dividevano il freddo cominciò a latrare come un cane impazzito e le ossa faticavano a stare insieme.
Pasquale era sposato. Nato in un solido ceppo contadino, si era laureato a Urbino, relatore Carlo Bo (come non mancava di aggiungere).
A Cortemilia era arrivato verso novembre, quando la neve aveva già tolto i colori alle Langhe. La mattina, nove su dieci, un cielo che non dava ombre srotolava fiocchi grossi e duri, che venivano giù a piombo e si ispessivano sul terreno e sui tetti delle case. I passanti camminavano con la testa affossata tra le spalle, a irregolari saltelli, per evitare le pozzanghere.
In tutto questo c’era qualcosa che paradossalmente lo riportava alle sieste siciliane. Il gravare, o del caldo o del freddo, l’aveva sempre sentito come un anticipo del silenzio, quando, dice Jacopone da Todi:
“…sé ionto a le prese che stai en terra attumulato.”
Soltanto il fiume Bormida aveva scampoli di eleganza, per le bianche merlettature dei detersivi dentro le acque brune di acido fenico.
Fisicamente, Pasquale non era granché, ma dava sicurezza. Perciò gli andò bene con Marilena. D’altra parte, Nicla, sua moglie, era troppo lontana. Non era bella manco Marilena. Aveva i tratti negroidi, i capelli crespi ed il naso camuso. E parlava assai, come troppe donne indipendenti. Era ciò che La Rochefoucauld definiva un petit esprit qui a le don de beaucoup parler et de ne rien dire.
Pasquale amava giocherellare con le parole e nei momenti di ozio, per ridere, rifaceva l’appello delle alunne carine:
“Castelli, regina fra gli uccelli!… Diana e la minchia se ne acchiana! Dotta, ci la dassi na botta!”
Era un ridere nevrotico, alloppiante, che dentro lasciava come un’urgenza, il senso d’un irreparabile spreco. Odiava Pasquale, pur non riuscendo a fare a meno della sua compagnia.
Sul finire di dicembre, l’amico lo portò nella casa che Marilena aveva ad Alba, proprio di fronte alla stazione ferroviaria e, sullo sfondo, il ponte sul fiume Tanaro.
Smesso il nevicare, il freddo si era stabilizzato. Viaggiava sicuro come una rondine, con le ali ferme e salde nelle correnti d’aria. La campagna scintillava di riflessi azzurrati.
Egli se ne stava in terrazza, impavido. Da binari invisibili arrivò il fischio di un treno e gli piacque immaginarlo diretto al Sud. La partenza, forse… ecco la sua vera vocazione! Cercava il futuro vago e promettente, l’eterno inizio…
Volse lo sguardo alla sua sinistra, a Filomena accanto a lui.
“Proprio quel che si dice una massaia del Cilento, che chiede l’iniziativa al maschio!” pensò.
Le circondò le spalle col braccio e gli parve che lei trattenesse il respiro. Le prese il mento fra pollice e indice. Poi, sollevatole il viso, la baciò. Sentì la sua saliva. Fredda, insapore. Gli pareva di esplorarle la bocca, più che baciarla.
Andarono in una stanza. Intorno al pube, Filomena aveva ciuffi folti e scuri, che spiccavano sul ventre latteo, tremolante per una leggera pinguedine. Con la lingua esplorò quell’intrico che dava l’idea di una cozza immersa in un bagno di olio di vasellina. Lei accettava tutto… remissiva… con qualche gemito… tanto per gradire.
Quando tornarono in cucina, Filomena preparò il caffè. Adesso, in quella sua finzione di moglie, sembrava più a suo agio. Egli teneva appesa alle labbra una sigaretta. Gli piaceva ascoltarla.
Era figlia di un maresciallo ed aveva quattro fratelli sparsi per il Nord, tutti sposati e padri di famiglia. A scuola era brava, ma i voti migliori li prendeva in disegno ed in italiano. Gli era rimasta cara una professoressa marchigiana a cui ancora qualche volta scriveva.
Fuori, intanto, le forme delle case e delle colline divennero di morbida spugna. Tutto dava l’idea del silenzio. Persino le automobili che sulla strada lasciavano scie di sporco passavano come riflessi lontani.
Immaginò il treno di prima che correva nel buio. Sentì persino l’odore di chiuso degli scompartimenti. Vide le persone che dormivano e le luci delle stazioni che sciabolavano su di loro.
Pensò, quindi, al giorno dopo. Anzi, ai tanti giorni dopo che ci sarebbero stati, l’uno uguale all’altro, a seppellire inavvertitamente l’emozione che, per quella sera, lo fece sentire vivo.