Un notabile
di Salvatore Paolo Garufi Tanteri
I
Ippolito Luigi De Cristofaro (Scordia, 23 giugno 1884 – Catania, 25 febbraio 1963) è stato un politico italiano.
Barone, nipote del senatore Ippolito De Cristofaro. Laureato in giurisprudenza, intraprese la carriera diplomatica.
Vicino al conterraneo Luigi Sturzo, fu tra i fondatori del Partito Popolare Italiano (1919).[1] Nel 1919 fu eletto deputato del Regno, e riconfermato nel 1921 alla Camera, fino al 1924.
Aderì al fascismo solo nel 1934, senza incarichi di rilievo. Dopo la seconda guerra mondiale divenne dirigente della Democrazia Cristiana, vicino alle posizioni di Mario Scelba
II
Con la mentalità dnella periferica Scordia, come ci racconta Nello Musumeci, operò don Ippolito De Cristofaro (Scordia, 1884 – 1963). Egli, infatti, poté diventare il padre-padrone di un bel pezzo di Sicilia, senza essere mai stato eletto Sindaco.
Come si vede, il suo esempio è qualcosa di più serio di una biografia locale. James Joyce, forse, l’avrebbe chiamato un’epifania, cioè il manifestarsi di un motore occulto della storia che si studia – quando si studia – sui testi scolastici.
La statura culturale del personaggio, fra l’altro, giustifica tante dotte citazioni. Infatti, don Ippolito De Cristofaro – anche se confidenzialmente veniva chiamato don Popò – nacque a Scordia, in provincia di Catania, il 25 giugno del 1884 in una famiglia che già conteneva per intero una sicilianissima impassibilità di fronte al mutare delle ideologie politiche. Sotto il Re Borbone, i De Cristofaro erano imparentati con uomini d’ordine per antonomasia, quali i Majorana Cocuzzella della vicina Militello.
Così, per esempio, avevano potuto godere della speciale protezione del terribile ministro Del Carretto, sceso in Sicilia a reprimere i disordini scoppiati per il colera, a Scordia, fomentati proprio da un rampollo liberale di quella stessa famiglia (cfr. Umberto Amore, in “Militello-Notizie”, rivista del Comune, diretta da Rosario Talio).
In don Ippolito, però, più che trasformismo, ci fu una forte consapevolezza del suo appartenere al notabilato, il che gli impose una severa cultura storica, che lo mise al riparo da delusioni ideologiche. Badò alla sostanza delle cose e degli eventi. Se volete, realizzò una versione più nobile dei Mazzarò descritti da Giovanni Verga, o più volgare dei Vicerè di Federico De Ro berto.
Da giovane, perciò, Ippolito studiò prima nel Real Collegio di Lucca e poi a Mondragone, per intraprendere infine la carriera diplomatica. Dopo qualche saltuaria presenza nelle ambasciate di San Pietroburgo e di Berlino, egli arrivò in Turchia, dove conobbe la donna della sua vita, Maria Vekil di Kiev, figlia di un turco facoltoso e di una nobildonna greca, dama di corte della zarina russa.
Ne venne fuori una storia d’amore contrastato, tipica della frivola mentalità del Secondo Romanticismo. Ovviamente, finì come doveva finire, cioè col matrimonio.
La parte più interessante della vita di don Ippolito, comunque, cominciò dopo l’abbandono della carriera diplomatica e il definitivo ritorno in Sicilia. Egli, infatti, si legò all’emergente don Luigi Sturzo e, dopo la fondazione del Partito Popolare, ne diventò deputato e leader in Sicilia.
Ebbe, quindi, modo di incrociare altre straordinarie carriere, spesso entrando in conflitto con esse. Un esempio per tutti fu Riccardo Lombardi, destinato a diventare un riferimento nazionale per la Sinistra socialista.
In questa occasione don Ippolito diventò davvero don Popò, realizzando una carriera che poi percorse l’ex sindaco di Catania, il prof. Magrì, che tanto affascinò il Leonardo Sciascia della commedia I mafiosi e, coerentemente, il suo successore, l’on. Nino Drago.
In altre parole don Ippolito mise il suo notabilato a disposizione delle mille e mille esigenze dei singoli cittadini. Adattò, cioè, le geniali intuizioni del Concilio di Trento ai moderni strumenti della democrazia. Se il capitalismo, sistema ideologico per eccellenza, fa della libera concorrenza – come capì Marx, indovinando l’analisi, ma sbagliando la soluzione – il suo feticcio, la politica di De Cristofaro diventò uno scudo a difesa dei singoli.
Era una sorta di massoneria di massa, ben diversa dalla mafia. Essa, in qualche modo, rendeva visibile e percepibile il solidarismo e l’associazionismo. Le vecchie confraternite, insomma, si dinamizzavano nei gruppi fiancheggiatori. Alla fine, sarebbe stata un’idea copiata da tutti, compresi i comunisti delle cooperative emiliane.
Il successo non mancò a don Popò, almeno fino all’avvento del fascismo. Fu, però, una parentesi in cui i De Cristofaro restarono i notabili di Scordia, dato che diventò podestà il cugino Alfredo De Cristofaro, un uomo perbene, che concesse qualcosa alla teatralità del regime, ma conservò intatta la concretezza amministrativa.
Caduto il fascismo, così, Ippolito De Cristofaro diventò il padrone del nuovo partito-Stato a Scordia. Furono gli anni in cui l’intera vita dei siciliani passò nelle mani dei democristiani. Egli decise sindaci, assessori, consiglieri, impiegati e posti di lavoro. Egli stabilì le infrastrutture che dovevano realizzarsi e come doveva scorrere la vita pubblica. Potrebbe sembrare il tipico baronato meridionale, ma c’era la novità che le catene usate erano invisibili, perché entravano nelle più riposte pieghe della mentalità meridionale.
Era, appunto, l’egemonia culturale a cui accennavo all’inizio. L’opera di Nello Musumeci, perciò, col suo raccontare piano e ricco di curiosità, dipana una matassa complicatissima e ci fa intravvedere nel piccolo lo spirito di un’epoca.
In verità, Nello Musumeci non è nuovo a queste operazioni. Molti interessi mi sono venuti da stimoli da lui ricevuti.
Ricordo, a tal proposito, alcune monografie sull’ambasciatore Filippo Anfuso e sui lucidissimi scritti dell’on. Gaetano La Terza. Probabilmente, mi piacerà tornarci ancora, anche per dimostrare che il “cambiare tutto affinché tutto resti come prima” di lampedusiana memoria viene troppo spesso citato a sproposito.
Il notabilato non è stato – e non è – un fatto immobile. Esso cammina con la Storia, come confusamente ha intuito Bernard-Henry Levy in “La barbarie dal volto umano”.
Esso, spesso, è stato il segreto e mobilissimo motore delle idee: “Il Principe è l’altro nome del mondo.”