Garufi Tanteri, S. P., “I lager dell’Impero”, racconto introdotto da alcune pagine del libro “Impero” di Michael BHardt e Antonio Negri (detto Toni)

Garufi Tanteri, S. P., “I lager dell’Impero”, racconto introdotto da alcune pagine del libro “Impero” di Michael BHardt e Antonio Negri (detto Toni)

I Racconti dell’Impero

di Salvatore Paolo Garufi Tanteri

Qualche burla di lampo ed il fracasso breve dei fuochi d’artificio non scalfiscono il buio.

Di certo, i più non moriranno eroi.

Sciolto un grido strozzato, li troncherà

la lama sul traguardo.

E tornerà il silenzio.

Amarti, forse.

Sei grande e nel tuo ventre c’è l’intero

universo. Ogni senso è nella vita,

o mia buia e Grande Madre!

Cosa importa il prima, il dopo?

Opera fra gli undici finalisti del “Premio Calvino 1990”

Indetto dalla rivista l’Indice – Torino

1

Nel lungomare di Naxos, in provincia di Messina, a Salvatore quelle vacanze sembravano un niente. Al più, lo portavano a un triste pensare: troppa ciccia unta e tremolante, oscenamente in luce.

Sotto gli ombrelloni, la sabbia era marrone, opaca e solcata da ignobili rughe. Lungo la riva si sentivano gli elicotteri, a coprire la voce del mare. Aveva quasi il sospetto di trovarsi in un lager ben organizzato. Lì, la morte era un trucco: c’era, ma non si vedeva. Le anime dei bagnanti non salivano verso il cielo – come il fumo delle vittime dell’Olocausto – e non correvano dentro il vento… S’impigliavano nei riccioli sporchi di corpi abbronzati e senza mistero, che diventavano un misero guizzo in un mare liscio come l’olio.

Mentre la madama con la falce mieteva il suo grano, tutti guardavano culi e tette in esposizioni da grandi magazzini. Topless e bikini, perciò, come avrebbe detto l’abate raccontato da Eco nel Nome della Rosa, servivano soltanto a coprire ciò che era conveniente velare e a mostrare ciò che era sapiente disvelare.

Salvatore spesso pensava che la Moira – vabbe’… la morte! – fosse l’unica dea trionfante. La morte poteva persino permettersi il lusso di star serena, mentre attendeva. L’eternità è sicura, soltanto quando parliamo della morte.

Da ragazzo, figuratevi, lo incantava la lettura del Foscolo. Nella noia del collegio, una sera gli capitò di scrivere, in margine ai noti versi di Quasimodo:

Or, ch’è subito sera,

c’è la morte e non c’è nessun mistero.

Mi aspettava, sicura del mio sì,

sapendo la mia strada.

E sorride ancora.

Aveva sedici anni, Salvatore.

Quel serpente gli restava ancora nelle viscere. Si contorceva ed iniettava veleno. Gli sarebbe parsa impazienza, se avesse saputo cosa voleva. Forse erano gli intellettuali ed astratti furori del Vittorini di Conversazione in Sicilia.

Provò a distrarsi, pensando alle montagne valdostane di quando era a Ivrea. Anzi, no! Meglio i picchi del Trentino, dove fu prima. In Trentino la neve può diventare dura e luminosa come il vetro. In un lontano giorno aveva visto barbagli di perla sulle pareti verticali che si elevavano incombenti. Dal trenino che lo portava a Malè, nel cuore della Val di Sole, poteva intravedere il cielo soltanto di scorcio. Stava lassù, molto in alto, oltre le cime. Il suo colore aveva riflessi d’argento.

Accese l’ennesima sigaretta, sapendo già che il solo effetto sarebbe stato un aumento del mal di testa. Davanti a lui un bagnante andava scuotendo un piccolo canotto, di quelli della Standa. Duri granelli di sabbia gli arrivarono alle narici e agli occhi. Lo guardò bieco, ma questi non mostrò neppure di accorgersene.

Allora, si disse che, le sue, erano reazioni e riflessioni banali; di quelle, appunto, che si potevano avere nell’ozio di una spiaggia. Ma, provateci voi, gentilmente, a trovare l’originalità nel succedersi millenario delle vite e delle morti!

Guardò la moglie che guazzava a riva. La vide meno bella del solito. I fianchi erano larghi, molli. I neri e lunghi capelli, anche se riflettevano stille di luce, le si erano appiccicati in testa e gliela rendevano sproporzionatamente piccola. Un grande uccello dai movimenti goffi. La sua forza animale si addensava nel peso del seno e del sedere. Soltanto le gambe avevano la liscia bellezza del fusto di una colonna corinzia.

“Vieni in acqua!” gli gridò lei, vedendosi osservata.

“No” rispose.

Chiuse gli occhi con la faccia al sole e rivide il viso di sua madre.

Aveva quattro/cinque anni, stava col gonnellino lungo e sporco delle gustose pappine di nonna Michela – pane bollito nel sugo di pomodoro -, dal comodino saltava sul gran letto matrimoniale. Sua madre vi campeggiava enorme e lo racchiudeva tutto.

Poi, gli venne in mente un’altra età, anch’essa lontana. Seduto sui gradini di una casa, scrutava sotto le vesti di una bambina. Stava senza un briciolo di coraggio e senza dire granché, mentre intravedeva come un solco su una pagnottella. Eppure, poco dopo illustrava a una compagnia di adulti burloni la cosa che hanno le donne, facendone persino un disegnino barocco.

Ah, se tanta fantasia fosse durata!

Invece, a sedici anni se la passò bene, tutto sommato. C’erano le feste mattutine con le quali dalle sue parti si celebrò il Sessantotto. Cinque giorni su dieci, si marinava in massa la scuola e si andava a ballare.

Allora Franca era larga e matronale. Portava i capelli corti, a caschetto. Sembravano fili di seta nera. Ed anche gli occhi erano neri, secondo i canoni di una immaginazione araba, col taglio stretto ed obliquo. Aveva immolato la sua verginità in una precedente, tempestosa relazione – con chi? Non riusciva a ricordarne il nome -.

Prima, fra loro ci fu platonica amicizia e poi libero amore. Libero pure di bere. Datava da quei tempi la sua nausea per il Martini, per via di una solenne sbronza.

Quando si lasciò cadere come un sacco sul letto, la stanza ronzava forte e irregolare. Prese un volo faticoso, la stanza, e le pareti vibravano. Vomitare fu un grande, ma momentaneo, sollievo.

Due anni prima l’aveva rivista, la dolce Franca. A Torino, stampata sul cartellone di un cinema a luci rosse. Il suo nome campeggiava a lettere cubitali. Volgare come gli anelli dei malavitosi. Un’accusa, gli era parsa.

Anche la signora coi capelli ricci, il seno rotondo ed il cantilenante accento catanese aveva una risata volgare. Al ricordo ne provò quasi eccitazione. Rideva e gli tastava il pene di undicenne, che non riusciva a diventare duro.

“Torna in bagno, vah!” gli disse. “E concentrati di più. Non ci fai niente a una donna, con un cosino tanto piccolo!”

La vita ha molte sconfitte, ma sono le prime quelle che ti restano impresse.

Poi, ecco la ragazza di Scordia, con i capelli rossi e le labbra tanto prominenti che ne scorgeva la punta, da dietro, ad un quarto di profilo. Il suo orecchio, infuocato da un boccolo d’oro, era diafano vicino alla guancia. Aveva tredici anni.

Stavano in piedi su un autobus stracarico nell’estate del ’68 – con i russi che avevano appena appena invaso la Cecoslovacchia -. Sentiva le vampate del suo corpo, mentre lo sguardo restava inchiavardato alle linee confuse del paesaggio che scorreva nel finestrino…

Vaneggiamenti, preistoria…

Da cui si riscosse per lo scoppiare del pianto di un bambino. Una signora con una mongolfiera nella pancia, i capelli ossigenati e due pendenti che a tratti si adagiavano sulle spalle grasse prese il pupo e se lo tirò accanto.

Sua moglie era uscita dall’acqua e si era stesa davanti a lui. Stava immobile.

“Eh, mia cara, se sapesse!” ciacolava la bionda Giunone. Non si era accorto che tra quelle due era scoppiata l’amicizia. “Sono vedova da tre anni e non sto qui a dirle i sacrifici dei primi tempi… E quanto mangia, questa mia creatura!”

Sua moglie ebbe un impercettibile movimento. Annuiva così.

“Lo saprete presto, quanto mangiano i figli!” continuò la Giunone, guardandolo – egli sorrise per dichiararsi d’accordo -. “Siete sposati da molto?”

“Dieci mesi” disse sua moglie.

“State bene insieme!”

Egli sorrise di nuovo. Le donne ricominciarono a tantaferare e a confidarsi, per cui ebbe davanti il quadro che gli aveva predetto l’amica Vanny del Piemonte.

L’amica era al volante, ubriaca. Le stava accanto, con gli occhi persi nell’indistinto grigio dell’asfalto e della nebbia, tra Racconigi e Carmagnola.

“Non è la donna per te…” ripeté lei, per la dodicesima volta, riferendosi a sua moglie.

La sua voce arrivava flebile, le parole si capivano a fatica. Probabilmente si sforzava di apparire calma, raziocinante.

“Per te ci vuol ben altro!”

“Guida piano” disse lui. “O basterà il becchino.”

Allora, l’amica frenò bruscamente. Con la strada insaponata di nevischio la macchina divenne incontrollabile. Si mise di traverso, andò a sbattere contro il paracarri e sconfinò nei campi. Un faro ne restò accecato. Pochi secondi in tutto, ma lui li visse al rallentatore, pensando che sarebbe morto e stupendosi della sua indifferenza a quel pensiero.

“Salvo!” la sentì gridare.

Si affrettò a spegnere il quadro-comandi e lo guardò.

“Ti sei fatto male?” chiese, accarezzandogli la nuca.

Ecco, ci sono momenti in cui le carezze hanno grandiosi significati. E’ sempre un peccato inflazionarle.

“No” disse lui. “E tu?”

Erano finiti su un terreno coltivato a mais. Oltre i finestrini, la neve scendeva sfarfalleggiando. Aveva una sua allegria. Si sentiva lo sciacquare di un fiume. Ce ne sono tanti, in Piemonte.

“Baciami” disse l’amica.

Aveva i capelli castani, inanellati dalla permanente. Gli occhi marrone erano dilatati dall’alcol e dalla disperazione.

“Baciami!” ripeté, urlando.

Prese a percorrergli il collo con le labbra. Lentamente. Poi gli aprì la lampo del giubbotto, gli alzò il maglione, gli sbottonò la camicia e gli prese un capezzolo fra i denti, dolcemente.

Egli non avrebbe voluto farci all’amore. Anzi, quella sera le aveva detto che tornava da sua moglie.

“Perché?” chiese l’amica, senza pudore nel mostrarsi sconfitta.

“Perché?” ripeté.

“La verità è che non è questa la vita, la vera vita” rispose, con le mani vicino alla faccia, scuotendo la testa, quasi balbettando.

“Con te è come starne fuori, neppure ai margini… Io voglio sentirmi dentro, invece.”

Avrebbe dovuto aggiungere che aveva bisogno di Dio. Dio è la comunità, Dio è la normalità. Esisti soltanto se gli altri si accorgono che esisti. E gli altri, per la sua condizione di emigrante, avevano concretezza soltanto se ci si riferiva al suo paese, Militello. Sua moglie era Militello. Sua moglie era Dio.

In quel momento, però, in risposta ai baci, poté soltanto prenderle la testa con le mani e dirigerla verso la patta dei pantaloni.

La neve era birichina, candida sulla notte nera. Vide lo squarcio di un tuono, ma non seguì alcun rumore.

Soltanto dopo si accorse che, al posto della neve, era venuta una quieta pioggia che merlettava i vetri della macchina e addolciva il paesaggio.

Strano cambiamento di scena! Quanto tempo era passato?

E quanto ne era passato da allora?

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Pubblicato da IL GIORNALE DI ROCAMBOLE

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).

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