Garufi / Bandello / Machiavelli – “Quando la donna ne sapeva una più del diavolo – Tre novelle

Garufi / Bandello / Machiavelli – “Quando la donna ne sapeva una più del diavolo – Tre novelle

La Casa del Sogno Antico”

Via Alcide De Gasperi, 26 – 95043 Militello in Val di Catania

Firenze degli Iblei

Salvatore Paolo Garufi

Matteo Bandello

Nicolò Machiavelli

QUANDO LA DONNA NE SAPEVA UNA PIU’ DEL DIAVOLO!

Tre novelle

Salvatore Paolo Garufi

La parrocchiana

(da I momenti della vita)

Il venti ottobre di qualche anno fa, quando finì di celebrare la messa domenicale, padre Vittorio Leonardi guardò i fedeli a lungo, afferrò il microfono con la mano destra e scrollò il polso sinistro, perché l’orologio (che portava lento) gli si era appiccicato alla pelle sudata. Tutti capirono che stava per comunicare novità non facili, ma nessuno intuì la portata storica del momento.

– Carissime anime – esordì padre Leonardi, con la voce soprattono di un’ottava, – il Vescovo mi chiama ad un’alta missione…

Si fermò, mentre il suo sguardo correva per l’intero tempio, da sinistra a destra e da destra a sinistra, come il fascio accecante di un faro della polizia.

– Se ne va! – sussurrò Salvo Mazza, mentre dava di gomito a Salvo Viganò.

La signorina Lina Longo, invece, ebbe un soprassalto e sentì il cuore farsi piccolo piccolo. Per don Vittorio provava un’inconfessabile attrazione, anche se il suo sentimento aveva a che fare più col martirio cristiano che col vero e proprio amore, mancandovi i piaceri della carne. Dell’amore c’erano soltanto gli strazi (sempre della carne) e le botte velenose dei pettegoli. Si aggrappò, quindi, alla coroncina del rosario che portava al collo ed aspettò il seguito, col fiato sospeso.

– L’altra chiesa di questa nostra amata comunità… – riprese a dire padre Leonardi e s’interruppe subito.

Non aveva avuto il coraggio di pronunciare il nome della chiesa rivale. Ma, ugualmente un silenzio attento squarciò la noia generale, un silenzio che parve un lampo livido nella notte cupa. Moltissime persone presero un’espressione atterrita, molte altre truce e cinque o sei quella di chi è pronto a fare a pugni. Gli sguardi su di lui sembrarono linee prospettiche sul punto di fuga e la sua pianeta bianca si dilatò dentro le pupille dei fedeli… Si dilatò fino ad occupare l’intero campo visivo.

Finché il prete si portò due diti al colletto, inghiottì e riprese:

– Dicevo… L’altra chiesa, che…

Guardò gli astanti, chiuse gli occhi… e concluse, quasi urlando (ma molto in fretta, con le sillabe in volata):

– …Che, dopotutto, vi piaccia o no, è la Chiesa Madre!

Davvero, su questa frase potevano crollare le colonne del tempio. Si tenne, quindi, pronto per il martirio. Fortunatamente, gli ritornò soltanto l’eco del silenzio infinito di prima. A tutti fu chiaro che il prete intendeva tagliarsi i ponti alle spalle e tutti pensarono che, senza grosse coperture dietro, non avrebbe osato parlare in quel modo. Aspettarono di vederci più chiaro.

– C’è bisogno di un parroco giovane nella parrocchia di San Nicolò – riprese padre Leonardi, rinfrancato, tanto da nominarla per nome e cognome, l’altra chiesa. – Uno d’iniziativa… che sappia e voglia prodigarsi col massimo dell’energia…

– Nello scomunicarli tutti, i nicolini! – disse una voce irata e anonima dal fondo, dove era solito posizionarsi il gruppo degli irriducibili.

– Nella missione di rievangelizzazione auspicata dal Papa! – corresse il sacerdote.

Fece un’altra pausa ed i parrocchiani si protesero in avanti, come risucchiati a cercare nella sua gola le parole che ancora non aveva dette.

– Quindi… – ricominciò.

– Quindi? – domandò Salvo Mazza a Salvo Viganò.

– Quindi? – sussurrò, a sua volta, Salvo Viganò a Salvo Mazza.

La signorina Lina Longo, invece, non domandò nulla. Ma evitò persino di respirare, per non distrarsi. Degli altri, quelli seduti avevano il busto che faceva angolo acuto con le gambe, mentre quelli in piedi pendevano in avanti, come torri di Pisa. Il buon geometra don Felice Motta, sessantaseienne pensionato, da tempo asmatico, ispirò con forza, mandando un fischio di gola, che risuonò triste nella vastità del tempio.

– E quindi? – ridomandò impazientemente Salvo Mazza.

– Già! E quindi? – risussurrò Salvo Viganò.

– E quindi… – disse padre Leonardi, – ha deciso di mandare lì, quale nuovo parroco…

Ancora un’ultima breve pausa, prima di confermare il più nero presentimento:

– Il sottoscritto!

Poi, una volta che l’aveva detta, la disse completa:

– Anche se io, beninteso, resterò pure il vostro parroco!

– No! – gridò Salvo Mazza.

– No! – ruggì Salvo Viganò.

– No! – gemettero tutti gli altri.

La dolce Lina Longo, però, riprese a respirare. Egoisticamente, considerò soltanto che l’amor suo non andava via.

Per capire ciò che ho raccontato (e ciò che ancora racconterò), bisognerebbe esserci nati, a Militello. O, almeno, conoscerla. Da secoli, lì si combatte una feroce guerra di campanili tra la parrocchia di Santa Maria della Stella e quella di San Nicolò, con tutto il corollario di eroi, di martiri (anche morti ammazzati) e persino di traditori. Le poche rivoluzioni di cui conserviamo memoria non furono determinate dalla fame, o dal rifiuto di una prepotenza. Esse nacquero sempre, piuttosto, da priorità nella celebrazione delle feste (per esempio: a quale chiesa spettava suonare per prima le campane nel giorno di Pasqua?); oppure, da pignolerie nella gerarchia dei preti (e dal Settecento in poi anche in quella dei Santi in paradiso, visto che allora fu data al ben più prestigioso Santissimo Salvatore la co-titolarità del tempio nicolino). Si può dire che soltanto negli ultimi anni (dato che nella storia un equilibrio si deve pur trovare) siamo arrivati ad un precario accordo: Santa Maria della Stella è stata elevata a Santuario e San Nicolò-SS. Salvatore ha ottenuto il titolo di Chiesa Madre.

Le reciproche diffidenze, comunque, non sono state ancora superate. Così, quel giorno padre Leonardi aveva davanti gente per nulla ligia agli equilibri. Gli equilibri sono come la politica: cambiano col cambiare dei rapporti di forza. Perciò, il pensiero unanime fu che voler mettere nelle mani di un solo prete tutt’e due le chiese (come dire: il diavolo e l’acqua santa!) era fatto troppo nuovo e (proprio perché nuovo) pericoloso. Tanto non bastava a sospettarci una manovra sotto?

Padre Vittorio Leonardi, però, era coraggioso e testardo. Si alzò in punta di piedi, per guardare in faccia tutti, anche gli irriducibili del fondo. Vide troppi occhi che promettevano scintille e si tenne di nuovo pronto per il martirio.

– Tutti in canonica! – a quel punto gridò Salvo Mazza, con la voce del suo avo, Giluormu Miegghiucutieddu, famoso brigante dell’Italia post-unitaria.

E si avviò, seguito da una quindicina di duri, tra i quali, tanto per non far parlare la gente, c’era la signorina Lina Longo.

Non fece molta strada. Padre Leonardi, forte del suo microfono, gli sparò secco:

– E’ chiusa a doppia mandata!… Se vuoi parlare, figliolo, parla qui, al cospetto del Signore!

Salvo Mazza sbiancò in viso, s’imporporò nelle orecchie, incassò la testa fra le spalle, si piantò a gambe larghe, occhi negli occhi col prete, e disse con voce sonante:

– Io qui, fino a prova contraria, parlo soltanto al cospetto della Madonna!

In quell’istante si percepì simultaneamente: a) Salvo Mazza esprimeva il sentimento generale; b) padre Leonardi era in difficoltà; c) s’annunciava un gran tempesta.

Dopo un po’ di secondi che passarono nella generale tensione (e che, perciò, parvero un tempo lunghissimo), Salvo Mazza chiuse gli occhi e continuò:

– Che le piaccia o no, la Madonna è la Patrona della città…

– E senza minchia cacata! – aggiunse la solita voce anonima e sacrilega, dal fondo.

– E la Patrona non vuole parroci in condominio! – proclamò Salvo Mazza, col tono stentoreo di chi è pronto all’azione.

– Non lo permettono trecento anni di storia!… – confermò con la sua vocetta acuta il professor Rosario Russo, noto e stimato scrittore di storia locale, dalla terza fila (quella dei benestanti). – O si è Annibale, o si è Scipione!

– Ma, quelli di San Nicolò – volle ribattere addolorato il prete, – che sono?… Maomettani?… Non sono cristiani anche loro?

– Non lo so – disse Salvo Mazza. – So che non sono della mia parrocchia!… Parliamoci chiaro, padre Vittorio!… Vossignoria, anche se non l’abbiamo scelto noi, è il nostro parroco!… E’ come se dicessimo che… religiosamente parlando, s’intende… lei è lo sposo della nostra chiesa… Se si sposa anche con San Nicolò… mi scusi, ma, sempre religiosamente parlando… lei che è? Praticamente un bigamo!

Scoppiò un applauso fragoroso. Si fosse votato quel giorno, Salvo Mazza diventava sindaco.

Padre Leonardi si fece di brace per la rabbia (Lina Longo, invece, si fece di brace sentendo parlar di lui come sposo). Subito dopo, il prete strinse più forte il microfono, tanto che le nocche delle dita gli diventarono bianche e trasparenti come la cera, e sbraitò:

– Ma basta! Basta con le corbellerie!… Ve lo volete mettere in testa che in questo sciagurato paese la guerra dei santi deve finire?

Ciò detto, voltò le spalle e se ne andò in sacrestia, a gran passi sdegnati.

– Gente!… Se la canonica è occupata, venite a casa mia – urlò Salvo Mazza.

– E a lei – continuò, rivolto allo spazio vuoto dove prima c’era il prete, – a lei che s’è venduto l’anima ai nemici nicolini…

Si erse, quindi, nell’antica posa di Santuzza abbandonata da compare Turiddu:

– A lei la mala messa!

Da quel momento, nel quartiere di Santa Maria della Stella ci si preparò alla lotta dura. Come sempre accade in queste occasioni, cominciarono a correre le voci più incontrollate. Alcuni riferirono che c’era chi aveva sentito il Vescovo in persona compiacersi della manovra, perché così, piano piano, senza colpo ferire, sarebbero state messe da parte… non le lotte di campanile, non le polemiche roventi che spaccavano in due il paradiso e le famiglie!… ma le storiche prerogative di Santa Maria… Uno arrivò a sostenere che nella faccenda non era estraneo neppure il Vaticano e subito un altro buttò là, con tono misterioso, la morte troppo improvvisa di Papa Luciani.

Comunque, se l’alto clero s’era fatto i suoi conti, ora bisognava sentir l’oste, cioè i mariani. Prima che arrivasse la domenica dell’insediamento di padre Leonardi a San Nicolò (per l’esattezza, alle diciassette del diciassette novembre… e poi dicono che non bisogna essere superstiziosi!), si voleva organizzare la protesta. Ci furono riunioni a casa di Salvo Mazza, ormai incontrastato capo. Quella decisiva si svolse nella mattina del giorno fatale, dalle dieci alle tredici in punto (in tempo per potersi mettere a tavola, abitudine sacra ed irrimandabile nella famiglia siciliana).

– Quei signori, qualche sorpresina nostra, se l’aspettano – disse Salvo Mazza, ad un certo punto.

– Sanno di che pasta siamo fatti! – esclamò con orgoglio Salvo Viganò.

– Cercano di pararsi la botta! – ridacchiò mastro Antonino Bellerafonte, che tutti conoscevano col soprannome di Spuogghiavientu.

– Ma, noi sapremo andare oltre la loro immaginazione… – si provò a riprendere con tono pacato ed argomentativo Salvo Mazza, cercando fra l’altro di non mostrare il fastidio per le interruzioni dei seguaci.

E, immediatamente Salvo Viganò esclamò, interrompendolo appunto:

– Noi, il prete traditore, non lo vogliamo più!

– E’ carne di carogna e la lasciamo ai cani! – esclamò pure Spuogghiavientu.

– Bene! – dopo esclamarono quasi tutti. Cioè, tutti tranne Lina Longo.

– Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca – disse, infatti, la signorina. – Padre Vittorio è un santo ed i nicolini se lo acchiapperebbero subito!

– E che dici? – le chiese Salvo Mazza. – Gli diamo pure un premio, per averci tradito?

– Chiudiamolo nella nostra chiesa! – suggerì lei. – Non facciamolo più uscire da qui!… Io, per me… sono pronta a fare la guardia!

– Giorno… e soprattutto notte – ventilò perfidamente Salvo Viganò.

– Pensa che perdita, se se ne va! – sorvolò, invece, Salvo Mazza, che era un gentiluomo e non amava le allusioni.

Alzò le mani ad imporre il silenzio e finalmente poté dire il suo piano:

– Invece, lo chiudiamo dentro San Nicolò… insieme ai suoi nuovi parrocchiani!

Tutti lo guardarono interdetti. Nessuno riusciva a realizzare come si potesse compiere un’azione simile. Ma, con Salvo Mazza c’era da scommetterci che il modo lo trovava… lui!

– Così, gli cantano pure la ninna nanna, se ci tengono tanto, al prete! – disse, perciò, Salvo Viganò.

– Cosa?! – saltò su il ragionier Bonaccorsi, uomo schivo, un po’ lento e rispettoso delle istituzioni. – Ma non diciamo fesserie! Per un fatto del genere c’è la denuncia!

– Sequestro di persona! – aggiunse Salvo Viganò, un po’ ritornando sui suoi passi.

– Non sarebbe la prima galera nella storia gloriosa della parrocchia – disse Salvo Mazza.

Poi, guardò il ragionier Bonaccorsi con occhi fermi, che scrutarono fino in fondo all’anima dell’interlocutore.

  • Ragionier Bonaccor-

si! – disse. – Mao diceva che la rivoluzione non è un pranzo di gala!

– E noi non siamo una tigre di carta! – aggiunse subito Salvo Viganò, di nuovo allineato alle posizioni del capo..

– Appunto! – balbettò il ragioniere. – Io non sono per la rivoluzione…

– Io, invece, sì! – disse Salvo Mazza.

– Anch’io! – disse Salvo Viganò.

– Anch’io! – dissero tutti. Cioè, tutti tranne Lina Longo ed, ovviamente, il ragionier Bonaccorsi. Egli, uomo dabbene, gesuitico e tardo, davanti a tanto estremismo, non seppe far altro che starsene zitto.

– Faremo così – disse Salvo Mazza, ormai vincitore. – Ci vediamo qui alle cinque meno un quarto e prima che finisca la messa entreremo in azione…

– E come? – chiese la signorina Lina Longo, con un filo di voce.

– Alle sei meno dieci, tutti insieme, contemporaneamente, con catene e catenacci chiuderemo tutte le porte di San Nicolò…

– Oh, Dio! – si lasciò scappare il ragionier Bonaccorsi, portandosi le mani nei radi capelli.

Gli altri, invece, non dissero nulla, anche se con gli occhi espressero consenso ed obbedienza al capo. La signorina Lina Longo tacque. La sua mente era troppo impegnata a cercare il modo di neutralizzare il tentativo eversivo.

– E poi, cara Lina, se ti piace potremo star lì per tutta la notte… a far la guardia al prete! – concluse nel frattempo Salvo Mazza.

Sentite queste intenzioni, la poveretta non ce la fece più a contenersi. Si alzò di scatto e se ne andò verso l’uscita.

– Eh, no! – la fermò Salvo Mazza. – Il prete non dev’essere avvertito!

Ella spalancò la bocca per la meraviglia e guardò in giro, cercando solidarietà. Trovò soltanto occhi gelidi… e si sentì morire.

– Non vi fidate di me? – chiese, col mento che le tremava per l’imminente pianto.

Salvo Mazza la guardò dritto negli occhi.

– Ci fidiamo – disse. – Ma, ti avverto che se il prete saprà qualcosa…

Fece uno sguardo eloquente, mentre le apriva galantemente la porta e concluse:

  • Di qui, adesso stai uscendo tu, quindi… Mi spiego?

Alle sedici e trenta a casa di Salvo Mazza squillò il telefono.

– Sono Lina Longo – gli disse Lina Longo.

– Bene – disse Salvo Mazza, un po’ sulle sue (si fidava fino ad un certo punto). – Parla che ti ascolto.

– Davvero non ci sono altri modi?

– Almeno…

Cincischiò col filo del telefono. Da un lato, non gli andava di dare un’idea finita delle soluzioni che era capace di inventare. Però, intelligentemente, decise di mostrare la sua intelligenza facendo il modesto.

– Almeno, io non so pensarne altri – disse perciò.

– E lo scandalo?… Hai riflettuto sullo scandalo?

– Quale scandalo?

– Diranno che siamo dei violenti.

– Se non facciamo nulla, ci diranno pecoroni…

E per un po’ egli sorrise al silenzio che arrivò dall’altro lato del filo (la battuta era stata efficace, più o meno pensò).

– Che vuoi farci? – aggiunse. – Non si può avere tutto.

– Il vescovo non ce la perdonerà – rilanciò la cocciuta Lina Longo.

– E allora? Ci dia un altro parroco piuttosto, il vescovo!

Aspettò una reazione, che non ci fu (bene!… più o meno pensò ancora) e completò:

– Ci manda un parroco nuovo di zecca, tutto nostro… e noi torniamo buoni come agnellini!

– E la Pacem in terris?… E l’unità delle chiese sotto l’unico Dio?

– Che c’entrano col nostro discorso?

– E Dio come Dio d’amore?

“Ecco, te pareva!” pensò (questa volta alla lettera) Salvo Mazza, collegando la parola amore con i pettegolezzi che correvano su Lina Longo ed il prete. Ma, ovviamente, non disse niente.

– E la fratellanza cristiana? – incalzò lei.

– Fratellanza coi nicolini? – egli saltò su, a questo punto. – Senti a me!… Solo il Salvatore e San Nicolò sanno chi sono i padri di quelle malenuove!

Per diversi secondi fu tentato di chiudere la conversazione su questa battuta. Ma, purtroppo, ormai si era troppo avanti e non era il caso di recidere i contatti con lei. Le chiese:

– Come faccio ad esserci fratello?

Ella comprese subito di aver toccato il tasto sbagliato. Le argomentazioni teologiche non erano il mezzo giusto per placare le animosità campanilistiche.

– Io non li difendo… – cercò di riprendersi.

– Brava, allora collabora! Ci vediamo alle cinque meno un quarto.

La signorina Lina Longo tirò un gran respiro, come chi si è deciso, e si aggrappò alla cornetta con tutt’e due le mani. Aveva concepito un piano, che in condizioni normali mai avrebbe osato concepire.

– Avrei un’idea… – cominciò.

– Cioè?

– Difficile spiegarla per telefono…

– E che si fa, allora?

– Perché non vieni, così ne parliamo di presenza?

Salvo Mazza sospettò l’inganno ed esitò. Ma solo un po’. Non era tipo da far la figura di chi si tirava indietro, specialmente davanti a una donna. Mentalmente, si ripromise di stare ben in guardia ed accettò la sfida:

– Va bene. Fra dieci minuti sarò da te.

Sette minuti dopo suonò alla porta della donna.

– Sono tutti pronti? – chiese lei, mentre lo faceva entrare.

– Prontissimi, credo – egli rispose.

– Il capo sei tu… – gli disse, facendolo accomodare in salotto.

Egli non rispose. Ma, non poté evitare il piacere di confermare indirettamente, dicendole, mentre si sedeva:

– Mi aspettano per passare all’azione.

– E’ vero. Se non ti muovi tu, nessuno si muoverà!

– Già!

– Ma tu… ovviamente… ti muoverai!

– Ovviamente!

– A qualsiasi costo?

– A qualsiasi costo!

“Padre Vittorio, assistimi nella prova!” invocò in cuor suo la signorina Lina Longo, stringendo la coroncina del rosario che portava al collo.

E passò all’azione: pregò a fior di labbra, si fece il segno della croce e, con un improvviso e deciso movimento delle braccia, spalancò la giacca del tailleur. Non indossava nulla, di sotto… e poté dimostrare che il suo seno, sibbene abbondante, stava ben diritto sulle sue stesse forze.

– A qualsiasi costo? – ella volle domandare di nuovo.

– Oddio! – disse lesto Salvo Mazza. – Non facciamola esagerata con queste beghe di parrocchia!

Restò con lei fino a tarda notte ed i mariani, che aspettavano lui per entrare in azione, non entrarono in azione. Così, la messa di padre Leonardi a San Nicolò si celebrò senza disturbi.

Nessuno (tranne quei centocinquanta-duecento amici di Salvo Mazza) seppe mai come andarono veramente le cose.

Matteo Bandello

NOVELLA III Beffa d’una donna ad un gentiluomo ed il cambio che egli le ne rende in doppio.

(da “Novelle”)

Non son ancora molti anni, che in una cittá di Lombardia fu una onorata gentildonna, maritata molto riccamente, la quale era d’un cervel piú gagliardetto e capriccioso che a donna di gravitá non conveniva. Ella meravigliosamente si dilettava di dar la baia a tutti e spesso beffare alcuno, e poi in compagnia de l’altre donne ridersi di questo e di quello, di modo che nessuno ardiva far a l’amor con lei, o seco troppo dimesticarsi, perciò che essendo come era baldanzosa ed avendo tagliato, anzi rotto, il silinguagnolo, diceva tutto quel che in mente le cadeva, pur che a chi si fosse desse la sua e pungessi questo e quello. E perché nel vero non sta bene a gentiluomini contender con donne e voler con esse questionar con parole, ché sempre deveno esser riverite e da noi onorate, fuggivano quasi tutti di venir troppo con lei a parole, conoscendosi da tutti quanto era sfrenata di lingua e mordace, e che a nessuno portava rispetto. Ella era poi oltre misura bella e in tutte le parti che facciano una bella donna sí ben formata, e con sí leggiadre maniere e con tanta venustá e grazia il tutto faceva, ch’ogni cosa, ogn’atto, ogni cenno e ogni movimento pareva in lei accrescesse un certo non so che, con sí bell’aria, che ella in tutta Lombardia era senza pari. Erano stati alcuni che, non conoscendo intieramente la qualitá de la donna, s’erano messi a corteggiarla e far seco a l’amore, i quali ella, poi che di dolci sguardi aveva un tempo pasciuti, or con una or con un’altra beffa in modo se gli levava d’intorno, che gli incauti amanti restavano miseramente scherniti. E ancor ch’ella fosse, com’io v’ho divisato, spiacevole, nondimeno le piaceva d’esser vagheggiata, e spesso per meglio adescar gli amanti fingeva voler il giambo ed esser di questo o di quello accesa, ma in fine, come il grillo in capo le montava, pareva che nessuno conosciuto avesse giá mai, Ora avvenne che un ricco giovine e nobilissimo di quella cittá, ancor che udito avesse narrar le beffe da la donna a molti fatte e intese le condizioni di quella, veggendola cosí bella e leggiadra, e ogni dí pensando piú che non si conveniva a lei e a le bellezze che le parevano angeliche e non mortali, sí fieramente si trovò di quella innamorato, che ad altro non poteva rivolger l’animo e i suoi pensieri, e conobbe che piú era in poter d’altrui che di se stesso. E cosí varie cose di questo suo nuovo amore per la mente rivolgendo, e a le condizioni di quella, che gli erano state dette, pensando, e or lieto e or tristo divenendo, secondo che sperava e disperava, deliberò, per ogni via che a lui fosse possibile, acquistar l’amor di lei. Onde si messe a passar spesso per la contrada ov’ella albergava, e tutto il dí veggendola su la porta se le inchinava molto affettuosamente, e alora fermandosi o a piedi od a cavallo secondo che si trovava, si metteva a ragionar con lei. E ben che non fosse ardito di scoprirsele con parole, gli occhi tuttavia e i focosi sospiri parlavano per lui. Ella che avveduta e maliziosa era, e d’esser vagheggiata non mezzanamente si dilettava, e quel che era o forse piú si stimava, con la coda de l’occhiolino alcuna volta il guardava e s’ingegnava a poco a poco di mostrargli che di lui gl’increscesse. Aveva il giovine una sua sorella, la qual abitava appresso a la casa di questa sua innamorata. E perché non mi par di dir, per buon rispetti, i lor proprii nomi, avendo anco taciuta la cittá, nominaremo la sorella del giovine Barbara, e l’altra diremo Eleonora. Era Barbara rimasta vedova, e nodriva un picciol figliuolo che del morto marito l’era solo rimaso molto ricco, essendo lasciata donna e madonna dal marito. E andando il giovine, che Pompeio sará detto, a casa de la sorella, era sforzato passar dinanzi a la stanza d’Eleonora. Il che Pompeio si riputava a grandissimo favore, e tanto piú che sua sorella era molto domestica d’essa Eleonora, e sovente praticavano insieme. Ora ebbe egli un giorno tanto ardire, che a la sua innamorata manifestò tutto il suo amore, supplicandola che di lui volesse aver pietá ed accettarlo per servidore, molte altre cose dicendo, come costumano questi innamorati. La donna, che d’uomo del mondo non si curava, e non le pareva di beffar Pompeio per esser de’ primi de la cittá, lo risolse che d’altra 23 donna si provedesse e che piú di simil materia non le favellasse. Il giovine, non sbigottito per questo, attendeva pur a seguitarla, e sempre che aveva comoditá entrava su ‘l fatto suo. Ma ella sempre piú dura e piú ritrosa se gli mostrava. Di che egli si ritrovava mezzo disperato. Stando in questo modo la bisogna, avvenne ch’un giorno Pompeio a caso intese come il marito d’Eleonora se ne era ito in villa, essendo circa il fin di giugno. Il perché cadutogli in animo d’andar a parlar con la donna e a veder di renderla pieghevole a’ suoi amorosi disii, senza pensarvi su troppo, fatto d’amor audace e securo, montato su la mula, con i suoi servidori a casa di lei se n’andò, e mandati tutti i suoi con la mula a casa di sua sorella, commettendo loro che quivi l’aspettassero, entrò tutto solo dentro, essendo l’ora de la nona. Egli ebbe in questo la fortuna assai favorevole, perciò che la donna, che da merigge non dormiva, era in una camera terrena per scontro ad un uscio che in sala usciva, e quivi certi suoi lavori di seta faceva. Egli, entrato in casa e nessuno ritrovando, andò diritto a la sala, e posto il capo dentro vide la donna prima che da lei veduto fosse, ed entrato verso quella s’inviò. Ella alzata la testa vide il giovine e tutta sbigottí, perciò ch’ella era sola e ciascuno di casa dormiva. Onde, prima che egli parlasse, gli disse: – Oimè, Pompeio, chi v’ha ora qui cosí solo condotto? – Egli, fattole debita riverenza, le rispose: che avendo inteso che il marito suo era ito in villa, aveva voluto venir a visitarla e a starsi un pezzo a ragionar seco, e che senza esser visto, avendo prima mandato i suoi a casa de la sorella, era entrato dentro. Voleva egli entrar su l’istoria del suo amore, quando ella interrompendolo gli disse: – Oimè, a che pericolo voi mettete la vita vostra e la mia? e in qual bilancia ponete voi a questo punto l’onor mio? Perciò che il mio marito non è ito fuori de la cittá, e non può molto tardar che a casa non ritorni, ché essendo dopo il desinare andato per un certo servigio, deve esser in via di ritorno. Deh, Pompeio, se di me vi cale, se punto amate l’onor mio, partitevi. Che altrimenti il cor nel petto mi trema e parmi di veder a mano mano il mio marito. – Né aveva a pena queste parole dette, che il marito ne la strada parlava tanto alto, che ella a la voce lo conobbe, ed altresí riconobbelo Pompeio. Tremava di paura la donna, e Pompeio tutto tremante non sapeva che farsi. Stette il consorte de la donna alquanto dinanzi a la porta a ragionar con uno, prima che smontasse da cavallo. In questo ella da subito conseglio aiutata, in quella medesima camera ove Pompeio trovata l’aveva, il fece suso una gran cassa corcare, e con alcune vestimenta che quivi erano lo ricoprí sí bene, che nessuno di lui accorger si poteva, e comandògli che in modo alcuno punto non si scotesse. Svegliò poi una de le sue donne che in un camerino dormiva. Smontato il marito entrò in sala. Eleonora, fatto buon viso, con una ferma voce disse: – Chi è lá? chi viene? – Il marito le rispose, e rispondendo entrò dentro in camera e sovra il letto si messe a sedere. Indi disse a la moglie: – Consorte mia, io ho comperata una spada di lama vecchia da un pover compagno, la megliore e la piú fina che sia in questa cittá, e forse che un’altra simile non se ne trovarebbe di qui a molte miglia. Io ho pensato di farla un poco meglio imbrunire e di farle un bel fodro di velluto e poi donarla al nostro amico il capitan Brusco, ché certamente a cosí fatto uomo, come egli è, non sta bene altr’arme che questa. – E dicendo queste parole se la fece recare, e a la moglie mostrandola disse: – Ecco; mirate se ne vedeste mai una tale. – La donna alora scherzevolmente ridendo gli rispose: – Io non ho posto troppo mente a queste armi, ché non è mestieri da donne né me ne intendo, e non saprei che dir de la lor bontá, se non quando le veggio ben guarnite ed innorate, ché a quel modo mi paion belle. Ma io non so che vogliate di tante arme ed armature fare, quante ne avete dentro il vostro camerino, e poi non tagliareste una ricotta in tre colpi con queste vostre spade e scimitarre. Fareste meglio a comperar altre cose e a spender i vostri danari in cose di piú profitto. – Mai sí, – rispose egli, – io comprerò de le cuffie e di quelle bagattelle che voi tutto ‘l dí comperate, e ogni giorno, se non avete nuove foggie di conciature di capo, nuovi colletti, e coperte fregiate d’oro a la carretta, con quattro corsieri del reame di Napoli o quattro gran frisoni, par che non possiate comparire. – Sí sí, – soggiunse la donna, – dite pur sempre mal de le donne, e date lor contra. Queste cosette stan ben a noi e sono nostre proprie; ché se noi ci abbigliamo cosí a la carlona, senza aiutar con l’arte le nostre natural bellezze, voi altri ci beffate e dite che noi siamo mal nette, vestite a la contadinesca e da star in cucina. Poi, come vedete alcuna altra ben abbigliata, ancor che non sia bella, pur che sia col viso ben impastato e con la pezzuola di Levante fatto rosso, le correte dietro come la capra al sale. 24 Sapete ben ch’io vi conosco. Ma in cose d’arme che faceste mai voi? che pare a tante arme, come avete, che siate capitan de l’imperadore, e giá v’ho detto che voi non tagliareste una ricotta. – Bene sta, – disse il marito, – che io debbo aver le braccia di cera od essere assiderato. In fé di Dio che io con questa lama tagliarei un cavallo in due parti in un colpo solo, tanto è tagliente, buona e fina. – Sorrise in questo la moglie, e levatasi in piedi se n’andò appresso ove era celato Pompeio, e messa la mano sovra una de le sue vesti ch’era di velluto carmesino, sotto a cui l’amante era nascosto, disse al marito: – Mi vien voglia di giocar con voi qualche bella cosa che in dui colpi voi non la tagliate questa veste, qui ove io ho la mano, – e la mano aveva suso le gambe di Pompeio. Era in quel punto montata la fantasia a la donna di far una solenne paura a l’amante, e per questo invitava il marito a voler tagliar la veste, non perciò avendo animo che l’effetto seguisse. Pensate or voi che animo deveva aver Pompeio, il quale sentendo ciò che la donna diceva rimase piú morto che vivo, fu vicino a palesarsi e a saltar fuori. Ma trovandosi solo e non avendo arme da diffendersi, e sentendo che il marito era con i servidori in camera e aveva tuttavia la spada in mano, il faceva star tanto mal contento, che gli pareva essere con il capo su ‘l ceppo e d’aver il manigoldo con la mannara di sopra, che dovesse ferirlo. Cosí varie cose tra sé rivolgendo, e pensando pur ch’egli aveva tante vestimenta a dosso, che non gli pareva esser possibile che in un tratto fossero tagliate, restò col cor tremante, aspettando che fine questi ghiribizzi d’Eleonora devessero riuscire, e sudava d’un sudor freddo come un freddissimo ghiaccio. Ora, teneva pur detto la donna al marito che cosa egli volesse giocare, che quella veste non tagliarebbe. Il marito le disse: – Moglie, io non so che profitto né a voi né a me ci rechi il guastare le vostre vestimenta, perché mi par che a tutti dui sarebbe di danno. Ma facciamo la prova in qualche altra cosa, e vederete che dolce taglio sará quello di questa spada, che non ci è rasoio che tanto tagli. – Giochiamo, giochiamo, – rispose la donna, – su questa vesta, che se voi la tagliate, io vi farò far un saio di broccato d’oro, riccio sovra riccio, e se non potrete tagliarla voi mi farete aver una veste di raso bianco. – Aveva ella alcune entrate da per sé, per una ereditá che le era da una sua zia stata lasciata, da la quale non picciolo profitto cavava; per questo parevale poter liberamente col marito giocare. Egli veggendo pur la donna sua deliberata di veder la prova de la tanto lodata spada, dopo alcuni contrasti vi s’accordò, e levatosi da sedere e alzato il braccio, disse: – Donna, ditemi: ove volete che io percuoti e taglie? – Aveva ella, come s’è detto, la mano su la veste dritto a le gambe, e levatola via la pose per iscontro a le coscie di Pompeio e disse: – Tagliate qui, se vi dá l’animo di riuscirne con onore. – Dite voi da senno o mi burlate? – disse il marito, – ché per l’anima mia io ve ne caverò ad un tratto la voglia. – Da dovero dico e da meglior senno che io mi abbia, – soggiunse ella. – Ma forse vi potrebbe venir fatto che qui di leggiero tagliareste, ma non perciò qui, – e pose alor la mano quasi sovra il petto del nascosto amante, e dal petto la pose per mezzo il collo, e disse: – Orsú, tagliate qui, dov’è questo nastro giallo, – e tuttavia vi teneva su la mano. Il marito alora essendosi concio in atto di ferire, disse a la moglie: – Fatevi in costá, se volete ch’io vi faccia veder ciò che questa spada sa fare, e vederete un colpo per una volta. – Erano de l’altre robe sotto a Pompeio e a dosso. Onde ridendo al marito disse: – In buona fé, io credo che voi sète cosí buono che mi guastareste queste vesti. Andate andate, ché quando le aveste guaste, io non so quando poi n’avessi de l’altre. La forza del vostro braccio io non vo’ per ora che si dimostri sovra i miei panni. – E con queste ed altre parole condusse il marito fuor di camera, il quale montato a cavallo andò per la cittá a diporto. Ella, mandate le sue donne per casa a far faccende, entrò in camera e scoperse il povero amante che era piú morto che vivo, e mille volte la donna, se stesso e il suo amore aveva biasimato. Scoperto che la donna l’ebbe, sorridendo gli disse: – Or via, andate per i fatti vostri, e piú non mi molestate di cose d’amore, perciò che ogni volta che voi ardirete venirmi in casa a questo modo, io di tal moneta vi pagherò, e forse di peggiore. – Pompeio preso alquanto d’animo: – Signora mia, – le rispose, – non incolpate altro se non il troppo amore, che a far questo m’ha sospinto. – E non volendo ella che moltiplicasse in parole, si partí tutto combattuto d’amore e da sdegno. E pensando in che modo poteva goder del suo amore e de la donna vendicarsi, gli cadde ne l’animo uno strano pensiero, ed altro non aspettava se non l’occasione, e come prima corteggiava e seguiva la donna, la quale quando lo vedeva era astretta a ridere, ricordandosi come trattato l’aveva. Avvenne, non molto dopo, che il marito d’Eleonora partí di 25 Lombardia e andò a Roma, ove sapendo Pompeio che qualche mese egli starebbe, l’istesso dí che quello se n’andò, egli finse d’esser infermo, e fece per la cittá divolgar che la sua infermitá era gravissima. Onde alcuni giorni chiuso in camera dimorò, avendo un solenne medico a la cura sua, che tanto faceva quanto voleva Pompeio. Aveva anche de l’animo suo instrutta madonna Barbara sua sorella. Questa un dí invitò madonna Eleonora a desinar seco, la qual di grado accettò l’invito, perché tra loro era gran domestichezza. Mentre desinavano e del mal di Pompeio ragionavano, venne un servidore e a madonna Barbara disse: – Signora, egli è in quest’ora venuto a vostro fratello un strano accidente, e ha perduta la favella. – Oimè, – rispose ella, – fa metterin ordine la carretta. – E confortandola madonna Eleonora e offerendosi andar seco, lasciate le donzelle in casa a desinare, elle montarono amendue in carretta, e calate l’antiporte de la carretta, se n’andarono di lungo a casa di Pompeio. Egli era nel letto in una camera molto oscura. Arrivarono in camera le due donne e accostatesi al letto gli disse la sorella: – Fratello, fa buon animo; ecco qui madonna Eleonora, ch’è venuta a visitarti. – Egli con debolissima voce dicendo alcune parolucce che non s’intendevano, mostrava star malissimo. I servidori, che ammaestrati erano, lasciarono le due donne col padrone; madonna Barbara, mostrando di far non so che, se n’uscí scaltritamente di camera e serrò l’uscio. Come lo scaltrito giovine s’accorse di aver in preda la sua crudel innamorata, saltò del letto e gettatole le braccia al collo, le disse: – Voi sète mia prigioniera. – Voleva ella uscirgli di mano, ma indarno si scuoteva. Egli, tenendola ferma, aperse una finestra. Piangeva la donna conoscendo che il gridare non le valeva, e fieramente di madonna Barbara si lamentava, nomandola disleale e traditora. Il giovine con amorevol parole la confortava a la meglio che poteva, dicendole che mettesse l’animo in pace perciò che egli era disposto giacersi seco amorosamente, e che mai da le mani sue non uscirebbe fin ch’egli non avesse avuto il suo intento, e vendicato non si fosse de la fiera e spaventevol beffa che ella fatta contra ogni convenevolezza gli aveva. Ma che in questo sarebbero assai differenti, con ciò sia cosa che egli non adoprarebbe ferro. Ella a modo alcuno non si voleva dar pace, ed essendo, com’era, superba, ritrosa e forte, piena di sdegno arrabbiava di còlera e di stizza, e non v’era ordine che in modo alcuno si volesse acquetare. E cosí dirottamente piangendo e senza aita e soccorso in poter del suo amante veggendosi, voleva disperarsi. Pompeio, poi che buona pezza l’ebbe lasciata piangere e fieramente lamentarsi, avendosela recata in braccio e a mal grado di lei piú volte basciatole la bocca e il petto, cominciò di nuovo a rammentarle le cose vecchie, e sí le disse: – Signora mia, voi sapete quanto tempo è ch’io vi son stato servidore, e che cosa non era al mondo per difficil che si fosse, che io per amor vostro non avessi fatta. Voi molte fiate mi faceste buon viso e mostraste che v’era caro ch’io vi servissi. E perché mi pareva non aver né luogo né tempo comodo a manifestarvi il mio ferventissimo amore, e come per voi era privo d’ogni pace e riposo, avendone perduto il cibo e ancora il sonno, mi deliberai pigliar quella comoditá che a me pareva d’aver trovata, quando mi fu detto che il consorte vostro era andato in villa. Cosí tremando e ardendo venni a trovarvi. Voi devete ricordarvi de la maniera che mi trattaste, e ciò che contra ogni convenevolezza faceste. E se per sorte l’alterezza e superbia vostra v’avessero levato di mente l’estrema paura che mi faceste in quel punto, devete creder ch’io non me l’ho smenticata, anzi ognora l’ho nel core, e sovviemmi tuttavia che voi, non l’avendo io meritato, mi poneste a rischio di morire. Non devevate usar quei termini meco, ma conoscendomi, come mi conoscevate, ch’io v’amava, se l’amor mio non vi piaceva, potevate darmi onesta licenza, che io averei messo l’animo altrove. Ora io intendo prender di voi quella vendetta che mi parrá. E sapendo che a casa mia di vostra voglia non sareste venuta, mi son ingegnato con inganno ivi condurvi, ov’ora essendo, farete gran bene a darmi quel che tormi non potete. – A la fine, dopo molti contrasti, ella fu astretta a spogliarsi ed entrar con l’amante nel letto, ove giocarono piú fiate a la lotta, e sempre a lei toccò a trovarsi di sotto. Onde Pompeio prese quel amoroso piacer di lei, che tanto aveva bramato. Dopo la fine del giocar de le braccia, aperse Pompeio uno degli usci de la camera e fece la donna entrar in un’altra camera ricchissimamente apparata, dentro a cui era un letto che sarebbe stato onorevole per ogni gran signore. V’erano quattro materazzi di bambagio, con le lenzuola sottilissime tutte trapunte di seta e d’oro. La coperta era di raso carmesino tutta ricamata di fili d’oro, con le frange d’ognintorno di seta carmesina, meschiata riccamente con fila d’oro. V’erano 26 quattro origlieri lavorati meravigliosamente. Le cortine di tocca d’oro carmesine di preciose liste vergate, circondavano il ricco letto. La camera, in luogo di razzi, era di velluto carmesino maestrevolmente ricamato tutta vestita, nel mezzo de la quale v’era una condecente tavola coperta d’un tapeto di seta, ed era alessandrino. Vi si vedevano poi otto forsieri fatti d’intaglio molto belli, posti intorno a la camera. V’erano anco quattro catedre di velluto carmesino, e alcuni quadri di man di mastro Lionardo Vinci il luogo mirabilmente adornavano. In questo mezzo aveva madonna Barbara fatto venire circa venticinque gentiluomini giovini de’ primi de la cittá. Avvisato di questo Pompeio, che giá aveva fatto corcar in quel letto la donna, e copertole il viso d’un velo ricchissimo e profumata la camera di legno aloè, d’augelletti cipriani, di temperati muschi e di altri odori, fece ritrar le cortine, comandando a la donna che non facesse movimento alcuno per cosa che ella udisse. Dopo queste cose egli riccamente vestito, in viso tutto allegro, entrò in sala e con grate accoglienze quei gentiluomini raccolse. Quivi da tutti con grandissima meraviglia fu veduto, con ciò sia cosa che ciascuno il tenesse per gravissimamente infermo. Il perché egli che l’ammirazion di quelli poteva di leggero indovinare, in questa maniera disse loro: – Signori ed amici miei, io credo che tutti voi forte di me devete meravigliarvi, veggendomi qui sano che dianzi credevate che io gravemente infermassi. Egli è vero che io sono stato molto male ed in periglio de la vita; ma oggi presi una salutifera medicina, che m’ha, come vedete, guarito. E perché so che tutti del mio male prendevate dispiacere, hovvi voluto con la presenza mia rallegrare. Voglio altresí farvi veder quella salutifera medicina che m’ha sanato, con questo che io vo’ che tutti m’impegnate la fede vostra di non movervi per cosa che si faccia. – Con questo gli introdusse in camera. Parve a chi v’entrò d’entrar in un paradiso, tanto era bello il luogo, e tanto soave odor spargeva. La donna, che queste genti sentí, e forse a la voce alcun parente o suo domestico conobbe, tutta tremante stava, non sapendo ciò che Pompeio far volesse. Or poi ch’assai fu l’apparato da tutti a piena voce lodato, e ciascuno desiderava vedere chi in letto giacesse, disse Pompeio: – Dentro questo letto, signori miei, è la preciosa e salutifera medicina che oggi m’ha sanato, la quale io intendo farvi vedere, ma a parte a parte. – Cosí detto, avvertendo che il volto non si scoprisse, egli con l’aita d’un suo servidore levò soavemente via la coperta dal letto, di modo che la donna restò solamente coperta da un sottilissimo lenzuolo, che nessuna parte del delicato e morbido corpo pienamente nascondeva. Pompeio dopo, levato un poco di lenzuolo, scoperse dui piedi bianchissimi piccioli alquanto lunghetti, con le dita che parevano d’avorio schietto sottili e lunghe, e con l’unghie che di perla rassembravano. Né guari stette ch’egli scoperse quasi tutte le coscie. Essendo la donna distesa, a l’aparir de le delicate gambe e coscie, sentirono i riguardanti svegliar tal che dormiva. Domandò loro Pompeio che gli pareva di cotal medicina. Eglino sommamente la commendarono, desiderando di saporirla. In questo egli, con una parte del lenzuolo, ascoso ciò che tra le coscie dimora, tutto il petto fin a la gola scoperse, il che a’ riguardanti fu di mirabilissima gioia a vedere, perciò che essendo quel corpo bellissimamente formato, era il petto oltra ogni credenza meravigliosamente bello. Miravano tutti con diletto incredibile il ben rilevato e candidissimo petto, con due poppe ritonde e sode che parevano formate d’alabastro, se non che, tremando ella, vi si vedeva un certo ondeggiamento, che mirabil gioia rendeva. Aspettavano tutti veder l’angelico viso, quando Pompeio in un tratto le scoperte membra ricoperse, e condusse i gentiluomini in sala, ove madonna Barbara aveva fatto preparar de le frutte che la stagione apportava, con confetti ed ottimi vini. E confettando e bevendo, diverse cose dissero, andando poi ciascuno ove piú gli era a grado. Mentre le frutte si mangiavano, madonna Barbara, entrando dove madonna Eleonora ancor in letto giaceva, le disse: – Madonna, mio fratello v’ha pur reso pan per ischiacciata? – Ella piangendo la pregò che le facesse recar i panni, di lei che tradita l’aveva forte rammaricandosi. Sovravvenne Pompeio, e salutandola le disse: – Signora mia, noi siamo par pari. Tuttavia la ragion vuole che voi abbiate il torto, – e tante cose le disse che la si pacificò. E giá gustato avendo gli abbracciamenti de l’amante esser piú saporosi di quelli del marito, si lasciò in tutto passar la còlera, e fece di modo che lungo tempo goderono del loro amore, e lasciando di beffar piú nessuno divenne piacevole e gentilissima. E perciò, donne mie care, imparate a non beffar altrui, se non volete esser beffate con forse doppia vendetta.

NOVELLA PIACEVOLISSIMA

di

NICCOLÒ MACHIAVELLI

Belfagor Arcidiavolo è mandato da Plutone in questo mondo con obbligo di dover prender moglie. Ci viene, la prende; e non potendo soffrire la superbia di lei, ama meglio ritornarsi in Inferno, che ricongiungersi seco.


Leggesi nelle antiche memorie delle Fiorentine cose come già s’intese per relazione d’alcuno santissimo uomo, la cui vita appresso qualunque in quelli tempi viveva era celebrata, che, standosi astratto nelle sue orazioni vide, mediante quelle, come andando infinite anime di quelli miseri mortali, che nella disgrazia di Dio morivano, allo Inferno, tutte o la maggior parte si dolevono, non per altro che per aver tolta moglie, essersi a tanta infelicità condotte. Donde che Minos, e Radamanto, insieme con gli altri Infernali Giudici n’avevano maraviglia grandissima; e non potendo credere queste calunnie, che costoro al sesso femmineo davano, esser vere, e crescendo ogni giorno le querele, ed avendo di tutto fatto a Plutone conveniente rapporto, fu deliberato d’aver sopra questo caso con tutti gli Infernali Principi maturo esamine, e pigliarne dipoi quel partito, che fusse giudicato migliore per iscuoprire questa fallacia, e [p. 132 modifica]conoscerne in tutto la verità. Chiamatigli adunque a concilio, parlò Plutone in questa sentenza: Ancor che io, dilettissimi miei, per celeste disposizione e fatale sorte al tutto irrevocabile possegga questo regno, e che per questo io non possa essere obbligato ad alcuno giudizio o celeste o mondano, nondimeno, perch’egli è maggiore prudenza di quelli che possono più, sottomettersi più alle leggi e più stimare l’altrui giudizio, ho deliberato esser da voi consigliato, come in uno caso, il quale potrebbe seguire con qualche infamia del nostro imperio, io mi debba governare. Perchè, dicendo tutte l’anime degli uomini, che vengono nel nostro regno, esserne stato cagione la moglie, e parendoci questo impossibile, dubitiamo che, dando giudizio sopra questa relazione, ne possiamo essere calunniati come troppo creduli, et, non ne dando, come manco severi e poco amatori della giustizia. E perchè l’uno peccato è da uomini leggieri, e l’altro da ingiusti, e volendo fuggire quegli carichi, che da l’uno e l’altro potrebbono dipendere, e non trovandone il modo, vi abbiamo chiamati, acciocchè, consigliandone, ci aiutiate e siate cagione che questo regno, come per lo passato è vivuto senza infamia, così per l’avvenire viva. Parve a ciascheduno di quegli Principi il caso importantissimo, e di molta considerazione; e, concludendo tutti come egli era necessario scoprirne la verità, erano discrepanti del modo. Perchè, a chi pareva che si mandassi uno, a chi più nel mondo, che sotto forma di uomo conoscessi personalmente questo vero; a molti altri occorreva potersi fare senza tanto disagio, costringendo varie anime con varii tormenti a scoprirlo. Pure, la maggior parte consigliando che si mandassi, s’indirizzarono a questa opinione. E non si trovando alcuno, che volontariamente prendesse questa impresa, deliberarono che la sorte fisse quella che lo dichiarasse. La quale cadde sopra Belfagor arcidiavolo, ma per l’addietro, avanti che cadesse dal cielo, Arcangelo. Il quale, ancora che male volentieri pigliasse questo carico, [p. 133 modifica]nondimeno, costretto dallo imperio di Plutone, si dispose a seguire quanto nel concilio s’era determinato, e si obbligossi a quelle convenzioni che fra loro solennemente erano state deliberate; le quali erano, che subito a colui che fosse a questa commissione deputato, fossero consegnati centomila ducati, co’ quali doveva venire nel mondo, e sotto forma di uomo prender moglie e con quella vivere dieci anni; e dopo, fingendo di morire, tornarsene, e per esperienza fare fede a i suoi superiori quali sieno i carichi e le commodità del matrimonio. Dichiarossi ancora, che durante detto tempo ei fosse sottoposto a tutti quegli disagi e mali, che sono sottoposti gli uomini e che si tira drietro la povertà, le carcere, la malattia e ogni altro infortunio nel quale gli uomini incorrono, excepto se con inganno o astuzia se ne liberassi. Presa adunque Belfagor la conditione e i danari, ne venne nel mondo; e ordinato di sua masnade cavagli e compagni, entrò honoratissimamente in Firenze; la quale città innanzi a tutte l’altre elesse per suo domicilio, come quella che gli pareva più atta a sopportare chi con arte usurarie exercitassi i suoi danari, e fattosi chiamare Roderigo di Castiglia, prese una casa a ficto nel Borgo d’Ognisanti. E perchè non si potessino rinvenire le sue conditioni, dixe essersi da piccolo partito di Spagna e itone in Soria e havere in Aleppe guadagnato tutte le sue facultà; donde s’era poi partito per venire in Italia a prehender donna in luoghi più humani e alla vita civile e allo animo suo più conformi. Era Roderigo bellissimo uomo e monstrava una età di trenta anni; e havendo in pochi giorni dimostro di quante richeze abundassi e dando exempli di sè di essere humano e liberale, molti nobili cittadini, che havevano assai figliole e pochi danari, se gli offerivano. Intra le quali tutte Roderigo scelse una bellissima fanciulla chiamata Onesta, figliuola di Amerigo Donati, il quale n’aveva tre altre insieme con tre figliuoli maschi tutti uomini, e quelle [p. 134 modifica]erano quasi che da marito. E benchè fusse d’una nobilissima famiglia, e di lui fosse in Firenze tenuto buono conto, nondimanco era, rispetto alla brigata havea et alla nobilità, poverissimo. Fecie Roderigo magnifiche et splendidissime noze, nè lasciò indietro alcuna di quelle cose, che in simili feste si desiderano. Et essendo, per la legge che gli era stata data nello uscire d’inferno, sottoposto a tucte le passioni humane, subito cominciò a piglare piacere degli honori et delle pompe del mondo et havere caro di essere laudato intra gli huomini, il che gli arrecava spesa non piccola. Oltr’a di questo non fu dimorato molto con la sua mona Onesta, che se ne innamorò fuori di misura, nè poteva vivere qualunque volta la vedeva stare trista et havere alcuno dispiacere. Haveva mona Onesta portato in casa di Roderigo, insieme con la nobilità et con la belleza, tanta superbia che non ne hebbe mai tanta Lucifero; et Roderigo, che aveva provata l’una et l’altra, giudicava quella della mogle superiore; ma diventò di lunga maggiore, come prima quella si accorse dello amore che il marito le portava; et parendole poterlo da ogni parte signoreggiare, sanza alcuna piatà o rispetto lo comandava, nè dubitava, quando da lui alcuna cosa gli era negata, con parole villane et iniuriose morderlo: il che era a Roderigo cagione di inestimabile noia. Pur nondimeno il suocero, i frategli, il parentado, l’obligo del matrimonio et, sopratutto, il grande amore le portava gli faceva havere patienza. Io voglo lasciare ire le grande spese, che, per contentarla, faceva in vestirla di nuove usanze et contentarla di nuove fogge, che continuamente la nostra città per sua naturale consuetudine varia; chè fu necessitato, volendo stare in pace con lei, aiutare al suocero maritare l’altre sue figliuole: dove spese grossa somma di danari. Dopo questo, volendo havere bene con quella, gli convenne mandare uno de’ frategli in Levante con panni, un altro in Ponemte con drappi, all’altro aprire uno battiloro in Firenze: nelle quali cose [p. 135 modifica]dispensò la maggior parte delle sue fortune. Oltre a di questo, nei tempi di carnasciali e di San Giovanni, quando tutta la città per antica consuetudine festeggia, e che molti cittadini nobili e ricchi con splendidissimi conviti si honorono, per non essere mona Onesta all’altre donne inferiore, voleva che il suo Roderigo con simili feste tucti gli altri superassi. Le quali cose tucte erano da lui per le sopradette cagioni sopportate; nè gli sarebbono, anchora che gravissime, parute gravi a farle, se da questo ne fussi nata la quiete della casa sua et s’egli havessi potuto pacificamente aspettare i tempi della sua rovina. Ma gl’interveniva l’opposito, perchè con le insopportabili spese, la insolente natura di lei infinite incommodità gli arrecava; et non erano in casa sua nè servi nè serventi che, nonchè molto tempo, ma brevissimi giorni la potessino sopportare; donde ne nascevano a Roderigo disagi gravissimi per non potere tenere servo fidato che havessi amore alle cose sua; et, nonchè altri, quegli diavoli, i quali in persona di famigli haveva condotti seco, più tosto elessono di tornarsene in inferno a stare nel fuoco, che vivere nel mondo sotto lo imperio di quella. Standosi adunque Roderigo in questa tumultuosa et inquieta vita, et havendo per le disordinate spese già consumato quanto mobile si haveva riserbato, cominciò a vivere sopra la speranza dei ritratti, che di Ponente e di Levante aspettava; et havendo anchora buono credito, per non mancare di suo grado, prese a cambio. Et girandogli già molti marchi adosso, fu presto notato da quegli, che in simile exercizio in Mercato si travaglano. Et essendo di già il caso suo tenero, vennero in un sùbito di Levante et di Ponente nuove come l’uno de’ frategli di mona Onesta s’haveva giucato tutto il mobile di Roderigo, et che l’altro, tornando sopra una nave carica di sue mercatantie sanza essersi altrimenti assicurato, era insieme con quelle annegato. Nè fu prima publicata questa cosa che i creditori di Roderigo si ristrinsono insieme; et giudicando che fosse spacciato, nè possendo [p. 136 modifica]ancora scoprirsi per non esser venuto il tempo dei pagamenti loro, conclusero che fosse bene osservarlo così destramente, acciochè dal detto al fatto di nascoso non se ne fuggisse. Roderigo dall’altra parte non veggendo al caso suo rimedio e sapendo quanto la legge infernale lo costringeva, pensò di fuggirsi in ogni modo; e montato una mattina a cavallo, abitando propinquo alla porta al Prato, per quella se ne uscì. Nè prima fu veduta la partita sua, che il romore si levò fra i creditori, i quali ricorsi ai magistrati, non solamente con i cursori, ma popularmente si missono a seguirlo. Non era Roderigo, quando se gli lievò drieo il romore, dilungato da la città uno miglo; in modo che, vedendosi a male partito, deliberò, per fuggire più segreo, uscire di strada e a traverso per gli campi cercare sua fortuna. Ma sendo, a fare questo, impedito da le assai fosse, che attraversano il paese, nè potendo per questo ire a cavallo, si mise a fuggire a piè e, lasciata la cavalcatura in su la strada, atraversando di campo in campo, coperto da le vigne e da’ cannei, di che quel paese abonda, arrivò sopra Pereola a casa Gianmatteo del Bricha, lavoratore di Giovanni del Bene, e a sorte trovò Gianmatteo che arrecava a casa da rodere a i buoi, e se gli raccomandò prometendogli, che se lo salvava dalle mani de’ suoi nimici, i quali, per farlo morire in prigione, lo seguitavano, che lo farebbe ricco e gliene darebbe innanzi alla sua partita tale saggio che gli crederrebbe; e quando questo non facessi, era contento che esso proprio lo ponessi in mano a i suoi aversarii. Era Gio. Matteo, ancorchè contadino, uomo animoso, e giudicando non potere perdere a piglare partito di salvarlo, gliene promisse; e cacciatolo in uno monte di leame, quale haveva davanti a la sua casa, lo ricoperse con cannucce e altre mondigle che per ardere haveva ragunate. Non era Roderigo apena fornito di nascondersi, che i suoi perseguitatori sopradgiunsono e, per ispaventi che facessero a Gio. Matteo, non [p. 137 modifica]trassero mai da lui, che l’avesse visto. Talchè passati più innanzi, avendolo invano quel dì e quell’altro cerco, stracchi se ne tornarono a Firenze. Gio. Matteo adunque cessato il rumore, e trattolo del luogo, dov’era, lo richiese della fede data. Al quale, Roderigo disse: Fratel mio, io ho con teco un grande obbligo e lo voglio in ogni modo soddisfare; et perchè tu creda che io possa farlo, ti dirò chi io sono. E quivi gli narrò di suo essere e delle leggi avute all’uscire d’Inferno, e della moglie tolta; e di più gli disse il modo, col quale lo voleva arrichire, che insomma sarebbe questo, che come si sentiva che alcuna donna fusse spiritata, credesse, lui essere quello che gli fosse addosso; nè mai se n’uscirebbe, s’egli non venisse a trarnelo; donde arebbe occasione di farsi a suo modo pagare da’ parenti di quella: e rimasi in questa conclusione sparì via. Nè passarono molti giorni, che si sparse per tutta Firenze, come una figliuola di messer Ambrogio Amidei, la quale aveva maritata a Bonajuto Tebalducci, era indemoniata. Nè mancarono i parenti di farvi di quelli rimedj, che in simili accidenti si fanno, ponendole in capo la testa di S. Zanobi, e il mantello di S. Gio. Gualberto, le quali cose tutte da Roderigo erano uccellate. E per chiarir ciascuno, come il male della fanciulla era uno spirito et non altra fantastica immaginazione, parlava Latino, e disputava delle cose di Filosophia, e scopriva i peccati di molti; tra i quali scoperse quelli d’uno frate che si haveva tenuta una femmina vestita ad uso di Fraticino più di quattro anni nella sua cella; le quali cose facevano maravigliare ciascuno. Viveva pertanto Mess. Ambrogio mal contento, et aveva perduta ogni speranza di guarirla; quando Gio. Matteo venne a trovarlo, e gli promise la salute de la sua figliuola, quando gli voglia donare cinquecento fiorini per comperare un podere a Peretola. Accettò Mess. Ambrogio il partito, dove Gio. Matteo, fatte prima dire [p. 138 modifica]certe Messe, e fatte sue ceremonie per abbellire la cosa, s’accostò agli orecchi della fanciulla, e disse: Roderigo, io sono venuto a trovarti perchè tu m’osservi la promessa. Al quale Roderigo rispose: Io sono contento. Ma questo non basta a farti ricco. E però, partito che io sarò di qui, enterrò nella figliuola di Carlo, Re di Napoli, nè mai n’uscirò senza te. Faraiti allora fare una mancia a tuo modo, nè poi mi darai più briga. Detto questo s’uscì d’addosso a colei con piacere ed ammirazione di tutta Firenze. Non passò dipoi molto tempo, che per tutta Italia si sparse l’accidente venuto a la figliuola del Re Carlo. Nè trovandosi rimedio dei Frati valevole, avuta il Re notitia di Gio. Matteo, mandò a Firenze per lui, il qual arrivato a Napoli dopo qualche finta cerimonia la guarì. Ma Roderigo prima che partisse, disse: Tu vedi, Gio. Matteo, io t’ho osservate le promesse di averti arricchito; e però, sendo disobbligo, io non ti sono più tenuto di cosa alcuna. Pertanto sarai contento non mi capitare più innanzi; perchè, dove io t’ho fatto bene, ti farei per l’avvenire male. Tornato adunque a Firenze Gio. Matteo ricchissimo, perchè aveva avuto dal Re meglio che cinquanta mila ducati, pensava di godersi quelle ricchezze pacificamente; non credendo però che Roderigo pensasse di offenderlo. Ma questo suo pensiero fu subito turbato da una novella che venne, come una figliuola di Lodovico VII. Re di Francia era spiritata; La quale nuova alterò tutta la mente di Gio. Matteo, pensando all’autorità di quel Re, e alle parole che gli aveva Roderigo dette. Non trovando adunque il Re a la sua figliuola rimedio, e intendendo la virtù di Gio. Matteo, mandò prima a richiederlo semplicemente per uno suo cursore; ma allegando quello certe indisposizioni, fu forzato quel Re a richiederne la Signoria, la quale forzò Gio. Matteo a ubbidire. Andato pertanto costui tutto sconsolato a Parigi, mostrò prima al Re, come egli [p. 139 modifica]era certa cosa, che per lo addietro aveva guarita qualche indemoniata, ma che non era per questo, ch’egli sapesse, o potesse guarire tutti; perchè se ne trovavano di sì perfida natura, che non temono nè minacci, nè incanti, nè alcuna Religione; ma con tutto questo era per fare suo debito e, non gli riuscendo, ne domandava scusa e perdono. Al quale il Re turbato disse, che se non la guariva, che lo appenderebbe. Sentì per questo Gio. Matteo dolor grande; pure, fatto buon cuore fece venire l’indemoniata, e accostatosi all’orecchio di quella umilmente si raccomandò a Roderigo, ricordandogli il benificio fattogli, e di quanta ingratitudine sarebbe esempio, se lo abbandonasse in tanta necessità. Al quale Roderigo disse: Deh! villan traditore, sì che tu hai ardire di venirmi innanzi? Credi tu poterti vantare d’essere arricchito per le mia mani? Io voglio mostrar a te ed a ciascuno, come io so dare e torre ogni cosa a mia posta; e innanzi che tu ti parta di quì, io ti farò impiccare in ogni modo. Donde che Gio. Matteo non veggendo per allora rimedio, pensò di tentare la sua fortuna per un’altra via, e fatto andar via la spiritata, disse al Re: Sire, come io v’ho detto, e’ ci sono di molti spiriti che sono sì maligni che con loro non si ha alcuno buono partito, e questo è un di quegli. Pertanto io voglio fare un’ultima sperienza; la quale se gioverà, la V. M. ed io aremo la intenzione nostra; quando non giovi, io sarò nelle tua forze e avrai di me quella compassione che merita la innocentia mia. Farai pertanto fare in su la piaza di Nostra Dama un palco grande e capace di tutti i tuoi baroni e di tutto il crero di questa città; farai parare il palco di drappi di seta e d’oro; fabbricherai nel mezzo di quello uno altare; e voglio che Domenica mattina prossima tu col clero, insieme con tutti i tuoi Principi e Baroni, con la real pompa, con splendidi e ricchi abbigliamenti, convegnate sopra [p. 140 modifica]quello, dove celebrata prima una solenne Messa, farai venire l’indemoniata. Voglio, oltre a questo, che dall’un canto della piazza sieno insieme venti persone almeno, che abbiano trombe, corni, tamburi, cornamuse, cembanelle, cemboli, e d’ogni altra qualità romori, i quali, quando io alzerò uno cappello, dieno in quegli strumenti, e, sonando, ne venghino verso il palco: le quali cose, insieme con certi altri segreti rimedj, credo che faranno partire questo spirito. Fu subito dal Re ordinato tutto; e, venuta la domenica mattina e ripieno il palco di personaggi e la piazza di popolo, celebrata la messa, venne la spiritata condotta in sul palco per le mani di dua vescovi e molti Signori. Quando Roderigo vide tanto popolo insieme e tanto apparato, rimase quasi che stupido, e fra se disse: Che cosa ha pensato di fare questo poltrone di questo villano? Cred’egli sbigottirmi con questa pompa? non sa egli che io sono uso a veder le pompe del cielo, e le furie dello Inferno? Io lo gastigherò in ogni modo. E accostandosegli Gio. Matteo e pregandolo che dovessi uscire, gli disse: Oh! tu hai fatto il bel pensiero! Che credi tu fare con questi tuoi apparati? Credi tu fuggir per questo la potenza mia, e l’ira del Re? Villano, ribaldo, io ti farò impiccare in ogni modo. E così ripregandolo quello, e quell’altro dicendogli villania, non parve a Gio. Matteo di perder più tempo; e fatto il cenno col cappello, tutti quelli, ch’erano a romoreggiar deputati, diedero in quelli suoni, e con romori che andavano al cielo ne vennero verso il palco. Al quale rumore alzò Roderigo gli orecchi, e non sapendo che cosa fosse e stando forte maravigliato, tutto stupido domandò Gio. Matteo: che cosa quella fosse? Al quale Gio. Matteo tutto turbato disse: Oimè! Roderigo mio, quella è la moglie tua, che ti viene a ritrovare. Fu cosa maravigliosa, a pensare quanta alterazione di mente Recassi a Roderigo sentir [p. 141 modifica]ricordare il nome della moglie; la qual fu tanta, che non pensando s’egli era possibile o ragionevole, che la fosse dessa, senza replicare altro, tutto spaventato, se ne fuggì, lasciando la fanciulla libera; e volle più tosto tornarsene in Inferno a render ragione delle sua azioni, che di nuovo con tanti fastidj, dispetti e pericoli sottoporsi al giogo matrimoniale. E così Belfagor tornato in Inferno fece fede de’ mali, che conduceva in una casa la moglie; Gio. Matteo, che ne seppe più che ’l diavolo, si ritornò tosto lieto a casa.

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Pubblicato da IL GIORNALE DI ROCAMBOLE

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).