Vitaliano Brancati, il Ciclo dei Siciliani Mai Cresciuti:
Don Giovanni in Sicilia
di Salvatore Paolo Garufi Tanteri
L’anno 1941 vide la pubblicazione di una opera che restò capitale nella evoluzione artistica di Brancati; mi riferisco al Don Giovanni in Sicilia.
Con essa nacque il grande Brancati, il mirabile analizzatore di quel sentimento tipicamente siciliano che va sotto il nome di “gallismo”.
La conquista della donna si pone come ultimo riscatto sulla nullità dell’esistenza. Il velleitarismo di Brancati lascerà “l’Azione” per il “Sesso”.
Don Giovanni Percolla, allevato nella bambagia e coccolato dalle sorelle, è il tipico uomo mai cresciuto completamente. Da questa “immaturità” nasce la sua particolare “timidezza” (che è anche impotenza a agire).
Nelle pieghe rassicuranti della timidezza, però, egli nasconde il desiderio frustrato della donna e le sue avventure sessuali hanno un primo teatro in certe stradine malfamate di Catania (via delle Finanze ne è stata una perfetta icona).
Egli è un “non-vivente”, che ama crogiolarsi nella pigrizia fino all’ottundimento completo.
Il suo exploit lo cercherà a Milano, in quelle donne del Continente che lo faranno sentire finalmente qualcuno. Anche questa volta, però, arriverà lo scacco finale e la sua ricerca sarà stata una pura e semplice velleità, come sempre accade nell’esistenza.
Il ritmo della narrazione è festoso e fastoso, quasi lo scrittore, con estrema e raffinata ironia, si voglia prendere una piccola rivincita sulla vita e su se stesso.
Il vecchio con gli stivali
Il nostro autore ha trovato la vena giusta; seguiranno Il vecchio con gli stivali, Il Bell’Antonio e diverse opere teatrali (che verranno analizzate nella seconda parte del libro).
Il vecchio con gli stivali è il più impegnativo lavoro a sfondo politico di Brancati.
Aldo Piscitello, il protagonista, è un povero impiegato di municipio che, senza ambizioni e senza neanche coscienza della sua mediocrità, tira la vita così come gli si para innanzi.
Un bel giorno, tra capo e collo, da parte del Podestà gli arriva l’ordine di iscriversi al P.N.F., se vuol conservare il posto; e a lui non resta, in conformità con la sua indole, che obbedire.
Ben presto però arriva la crisi: Piscitello, senza averne chiari i motivi, incomincia ad odiare il fascismo, ma non ha il coraggio di ribellarsi, e quando avrà da fare le sue contestazioni le farà in gran segreto. Disprezzerà i gerarchi del Regime, è vero, ma continuerà a strisciare davanti a loro; anzi, sembra quasi che egli prenda gusto nell’umiliarsi davanti a gente che disprezza.
Brancati sintetizzerà in questo modo i sentimenti del protagonista:
“Per lui era di un gusto inaudito potere strisciare accanto a un vice segretario federale dicendogli mentalmente: ‘Gran coglione!’, e mentre quello si piantava in posa statuaria, e sollevava col respiro, come un’empia mammella, il mucchio dei nastrini, medaglie, medagliette, teschi, pugnali, Aldo Piscitello, con la faccia umile e magra, gli diceva mentalmente: ‘Ladro! … Ladrone di passo! … Si, ladro!’”[41].
D’altro canto Piscitello non sa nemmeno perché è antifascista, e quando, in un bisticcio con la moglie, questa gli chiederà: “Che ti ha fatto di male, il fascismo?”, lui non saprà rispondere altro che questo:
“Tutte le cose antipatiche, le fa lui; i cantanti nei teatri non possono concedere il bis: ci ha tolto il piacere di prendere una tazza di caffè; dobbiamo darci tutti quanti del voi, e un superiore sbarbatello a me anzi può dire tu… tu… tu!”[42].
Il suo antifascismo, così, continuerà silenzioso fino alla fine.
Ma anche per lui, come per gli altri personaggi di Brancati, non esiste il lieto fine, e quando gli americani entreranno in Catania, Piscitello verrà buttato fuori dal suo impiego proprio in quanto ex fascista. Come Antonio, amatissimo dalle donne ma impotente; come Paolo, che ama la moglie ricevendone in cambio frigidità; come il prof. Buscaino, che costruisce una torre panoramica, Piscitello subisce il suo bravo scacco finale: anche con lui l’esistenza si diverte, trattandolo come una marionetta senza anima.
Ben a ragione Giuliano Manacorda scrive:
“Aldo Piscitello […] non era fascista eppure fu incastrato dalle circostanze politiche a comparire in quei panni, il Bell’Antonio Magnano è costretto dalla sua stessa bellezza e dalle circostanze ambientali e familiari ad apparire un “galletto” benchè schifi le donne e sia impotente. Si ha dunque il rovescio della medaglia del gallismo, quello più patetico e assurdo, “comico e drammatico”, ma quello appunto che ne rivela la sua reale natura di sempre, di copertura al vuoto di altri interessi e di altre dignità, di sporco gioco sulla carta più vistosa barata a danno di colui stesso a cui è stata messa in mano. Non è un caso che lo scacco del Bell’Antonio sia analogo, sul piano dei sensi e della opinione che l’ambiente si è ormai fatta di lui, a quello del Vecchio con gli stivali. Con toni diversi, di umana comprensione per Aldo Piscitello, di più colorita e beffarda ironia nel caso del Bell’Antonio, i due racconti in fondo ci dicono la stessa cosa su questa società che si costruisce da se stessa l’obbligo delle proprie menzogne”[43].