Da
Salvatore Paolo Garufi Tanteri
Il Volo del Gallo
Vitaliano Brancati (1907-1954) e il Mondo di Efesto e Afrodite
…Bellissime e sentite battaglie polemiche ingaggerà con i vecchi e i nuovi fascisti (la censura, i preti, il potere democristiano, l’opportunismo dei comunisti), senza mai negare un solo attimo il suo passato fascista, ma ricordandolo anzi, forse più a se stesso che agli altri, quasi in ogni scritto.
A questa enorme crisi interiore si deve la nascita dei suoi capolavori, che vorranno esprimere il sonoro tonfo causato dalla caduta delle “velleità”, la quale, man mano allargandosi oltre la sfera politica, coinvolse, l’intera esistenza.
Da questo Aldo Piscitello[1] è il personaggio designato a simboleggiare la storia di un fallimento “totale” (mi riferisco al racconto Il vecchio con gli stivali): l’uomo, prima fascista per non perdere il suo “tozzo di pane”, e poi antifascista senza il coraggio di esserlo apertamente, e poi ancora disoccupato privo di prospettive (perderà il posto, con l’entrata degli americani, paradossalmente, a causa del suo passato di “fascista”), diventò il simbolo di uno scacco ancora più totale, di quello scacco finale a cui immancabilmente è destinata l’intera umanità.
Brancati, quindi, resta un piccolo-medio-borghese anche in questa sua seconda fase: alla disgregazione totale non ha sistemi di idee da opporre, tranne un’assoluta fede in una ragione che, oltre alla deificazione dell’uomo, medio, lo porta ad una specie di filosofia del giorno per giorno.
In lui non vi è prospettiva storica, da pretesa di soluzioni; si potrebbe dire che agli avvenimenti lui preferisce rispondere colpo su colpo, mai però andando più in là del singolo momento. Per chiarire meglio il concetto, basta prendere l’esempio di ciò che ebbe a scrivere nel famoso primo maggio di sangue, quando la banda di Salvatore Giuliano (o il servizio segreto americano, con la complicità di Jiunio Balerio Borghese?) versò abbondantemente il sangue dei proletari a Portella della Ginestra:
“È una vergogna!”, commentò in quell’occasione. “Il signorotto che passa il suo tempo a giocare a carte, mentre altri cento uomini lavorano per lui… in verità è insopportabile, e sarei disposto a sacrificare la mia libertà pur di far sparire, nel giro di pochi anni un simile disonore. Ma io non posso disporre della mia libertà, essa non è un mio diritto è un mio dovere”[2].
Belle parole, senza dubbio! Ma si riduceva veramente e solamente, la strage di Giuliano, a un “disonore”? Non c’è una sia pur minima individuazione delle cause profonde che hanno portato al massacro. Brancati, è vero, denuncia il mandante “nel signorotto che passa il suo tempo a giocare a carte”, e nelle sue parole si avverte anche il disprezzo, ma immediatamente dopo ci rifila il discorso della “libertà”, caricandola di un significato metastorico, come se anche la libertà non vivesse all’interno di precise strutture economiche.
La Stacchini in questo atteggiamento vede il segno “di una sincera sofferenza”[3], e non sarò certo io a negarlo; ma penso soprattutto che questo conflitto non poteva risolversi altrimenti, date le premesse della filosofia brancatiana, di quel – tutto siciliano- subire passivamente la storia, senza un “sistema” coerente da controbatterle e a cui informare l’azione. Piuttosto in lui vi era la “risposta” disordinata e isolata. Infatti, nel ’48, di fronte all’avanzata del clericalismo democristiano, lui risponde al problema del momento votando comunista.
Brancati fu innanzitutto questo: un intellettuale perennemente in crisi nelle sue vecchie credenze ed enormemente condizionato da un passato che non riuscì a annullare, esattamente come non lo annullarono Vittorini e Pavese.
atteggiamento iniziale derivano tutte le altre concezioni brancatiane: il suo odio verso la dittatura, proprio perché essa rappresentava la sistematizzazione, anche se naturalmente a un livello mostruoso, di una visione di vita (è naturale, quindi, il suo mettere sullo stesso piano fascisti e comunisti; il suo conseguente anticlericalismo, con l’avversione per le tonache dei preti, in cui vedrà il nero del passato regime, che gli farà trovare accenti appassionati in Ritorno alla censura e una graffiante ironia nella satira Il bel sogno.
In conclusione, si può dire che non vi è affatto un sistema organico di idee a cui Brancati crede, ma tutta una serie di cose a cui non crede. Solamente nella Ragione, del tutto libera da preconcetti, trova il riferimento più valido.
Dalla Dea Ragione partiranno il suo amore per la libertà e la sua ironia amara che, su una problematica simile a quella impostata dal suo grande conterraneo Pirandello, metteranno in luce l’”umorismo” (in senso pirandelliano) della scissione tra “forma” e “contenuto”, tra la velleità di essere qualcuno e la realtà di non esser nessuno.
Se la sua arte è essenzialmente questa, la sua ideologia non può essere diversa, ed è assurdo cercare l’organicità. Alla luce della sua filosofia, a non essere organica è proprio la vita.
- [1] La sua storia è ripresa da un fatto realmente accaduto a Licodia Eubea, come si può evincere in Nello Musumeci.
- [2] Cit. ivi, pag.39.
- [3] Ivi, pag. 39