I
Il 20 dicembre 1996, quando sorella notte calò la mannaia, etiam fratel vento scese dalle stelle, mentre dalle stalle saliva zia polvere (che, si sa, come Dio è in tutti i luoghi). Probabilmente, comincia così ogni rivoluzione degna di questo nome.
Di colpo, da una lontana ed invisibile breccia di Porta Pia, irruppe e s’udì l’urlo delle falangi in battaglia, il sonare delle tube, l’incalzare dei cavalli (scalpitanti sugli elmi a’ moribondi), i pianti e gli inni e delle parche il canto.
Purtuttavia, nell’ampia oscurità, che pareva contenere tutto l’enorme mistero dell’universo, venne per gli occhi un forte incantamento (e, se vogliamo, una dolcezza al core), poiché lessi la cabala di grandiose significazioni nel vento che tarantolava le imposte di case che s’aggrappavano su nell’aria, deformate da antiche atrosi; oppur, nel vento che infremitava le lampade e le ombre lunghe sulle vie; o, ancora, nel vento che prese a far batter le ali (come fossero galline agonizzanti) ai manifesti scollati sui muri.
Ovviamente, mi piacque fermarmi a meditare proprio sui manifesti. In semplicità, fumando la mia merit blu. Vi fabbricai una metafora dei dicembri di Militello: quelle carte erano vive ed erano morte. Strepitavano, ma più nulla avevano da far leggere. Erano già corpi morti, quei manifesti. Sentivo i gemiti e gli strazi di voci già morte e fatte cadaveri. Domani, se non c’è sciopero, lo spazzino se li porta via e chi ci pensa più?
I dicembre sono proprio così, a Militello. Crolli, se vuoi, col fracasso di un tetto di lamiera; ma, la tua, non è per nulla una morte eroica, che meriti il ricordo e l’ardua sentenza dei posteri. Ti fai fregare da una morte cosumata secondo consolidate abitudini. A dicembre, i vecchi vanno via a grappoli e subito la loro assenza diventa smenticanza, la loro assenza non si nota più.
Ma, i vecchi non furono sempre vecchi e perciò con loro vanno via pure le donne, i cavalieri, le armi, gli amori, le cortesie, le audaci imprese ed i tanti drammi che fecero inorridire e commuovere il cielo e la terra.
A malapena resta (qualche volta, non sempre) una traccia sbiadita ed estranea, un po’ di bava di lumaca, che si può vedere nella desolata piazza Matrice, magari a mezzanotte, l’ora canonica dei fantasmi, quando (dicunt, in partibus fidelium) un cane, certo l’anima inquieta di un morto, la attraversa mestamente da un capo all’altro.
Fra tutto questo po’ po’ di roba, io non sapevo che pensieri, e che speranze, e che cori, e quali torme di cure fossero nella mente di don Camillo, quella notte. Non so neppure quale allora gli appariva la vita umana ed il fato. Sospetto semplicemente che dopo un chilometro di strada (tanta era la distanza dalla stazione alla piazza), fatta a piedi, suo dì tardo traendo e con in mano il peso di un valigione, riflettesse più che altro sui piaceri del cibo e del riposo.
Arrivò, il nostro prete, quando il cane, dopo aver dimorato una gran pezza in mezzo alla strada, a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, imboccava la salita che porta in piazza Sant’Agata, caracollando e tossendo e sputacchiando.
Sentendo i passi tardi e lenti di un chierico con nel corpo decenni di tortellini, ravioli e cotechini, la bestia tornò sulle sue zampate ed aveva occhi di bragia. Anche don Camillo si fermò a fissarla… perciò i due ristettero come un gruppo scultoreo collocato ai bordi di un presepio napoletano.
La scena naturalmente non apparteneva all’ordine delle cose immutabili. Quella bestia possedeva tempi brevi di cattiveria, come le bestie, appunto. Il suo primo intento, quello di attaccare, durò un niente, il frullo d’ali d’un passero pieno di tic, il tempo di sincerità nel discorso di un politico.
Essa, perciò, si fermò, come a sedere e mirare. Si fermò lì, immota, a sembianza di un dolce demone sognante in perplessità.
– Gesù – disse don Camillo, scrutando ansiosamente il cane, – non sarai mica tu che mi appari sotto le sembianze di un cane?
– E chi me lo farebbe fare, don Camillo, se sto qui dentro al caldo? – rispose l’ironica voce di un Crocifisso, da dentro la valigia.
– Ah, già! Che sciocco! – ammise don Camillo.