Nel paesaggio che si stende oltre la finestra aperta si intravede la chiesa di Santa Maria La Vetere di Militello in Val di Catania, dove Filippo Paladini soggiornò dal 1612 al 1614, operando con “divin pennello” (come scrisse il coevo poeta Mario Tortelli).
UNA PEDINA SORRENTINA ALLA CORTE DEI VICERÉ:
DIANA FALANGOLA «DAMA DELLE PIÙ NOBILI E DISTINTE
DI NAPOLI E DELLE PIÙ BELLE D’ITALIA»
di Ida Mauro*
Appena entrati nella chiesa sorrentina della Vergine del Carmine ci si imbatte,
sulla destra, in una bella lapide dedicata alla memoria di Nicola Falangola, cavaliere di Malta morto non ancora ventenne nel 1698 (fig. 1). La cornice della lapide,
coronata con lo stemma dei Falangola (un leone rampante su campo rosso e verde)
e decorata con insegne militari, rievoca il fasto di questa famiglia del seggio di
Porta, che attraverso l’esercizio delle armi conquistò titoli ed onori nel Regno di
Napoli.1 Una seconda lapide, del 1706 e perciò quasi coeva a quella del Carmine,
si trovava anticamente nel pavimento della cappella Falangola nella chiesa di S.
Francesco di Sorrento;2 essa presenta la successione delle vittorie militari che portarono, nella seconda metà del Cinquecento, i membri di questa casata nei palazzi
dei viceré spagnoli. Tuttavia, in questo elenco di uomini illustri è assente la figura
che fu protagonista di uno dei momenti di maggior notorietà della famiglia sorrentina presso la corte vicereale: Diana Falangola, amante di Giovanni d’Austria
tra il 1572 e il 1573.
Nelle prossime pagine proverò a raccontare la vicenda di questa donna, allontanandomi come possibile dagli stereotipi e dalla civetteria dei romanzi, in una
prima approssimazione al personaggio storico e al suo contesto, che vuole mettere
in evidenza alcuni punti critici della storia di Diana Falangola ed introdurre nuovi
elementi di analisi.
9
- La citazione del titolo è tratta da L.-P. GACHARD, Don Juan d’Autriche. Études historiques:
Quatrième étude. Donna Giovanna d’Austria, «Bulletins de l’Académie Royale de Belgique» XXVII
(1869), pp. 537-592, sp. p. 573 (la trad. è dell’autrice). Ida Mauro è membro del progetto di ricerca
“Poder y Representaciones Culturales en la Edad Moderna”: La Monarquía de España como campo
cultural (siglos XVI-XVIII). Finanziato dal Ministerio de economía y competitividad (rif.:
HAR2016-78304-C2-1-P). Il presente studio è dedicato a Ida Reale (1919-2017), una bella sorrentina del Novecento venuta a mancare nei giorni in cui lavoravo a una prima stesura del testo.
1 La famiglia era di antiche origini amalfitane, ma si stabilì a Sorrento già nel XIV secolo. U.
FASULO, Cavalieri sorrentini dell’Ordine di Malta. I Falangola, Sorrento 1961.
2 Attualmente è depositata nei pressi della sacrestia della medesima chiesa.
Il lungo testo della lapide di S. Francesco, dettato dal canonico della cattedrale
Torquato Falangola, voleva ricordare – al momento di ampliare il sacello familiare
nel 1706 – gli uomini illustri della casata, alcuni dei quali erano stati sepolti nella
stessa chiesa francescana.3 Per farlo, non inizia da Roberto o dall’arcivescovo Domizio, protetti da Giovanna I o da Alfonso il Magnanimo,4 bensì dai membri della
famiglia che lottarono al servizio della casa d’Asburgo, che in quel 1706 ancora
governava sul Regno di Napoli. La lapide prende dunque le mosse da Nicolantonio
Falangola, che seguì re Federico d’Aragona nel suo esilio in Francia nel 1501,
con «summa fide … tam in fortuna quam in infortunio» (come si legge nella lapide), ma che in seguito si riabilitò presso i nuovi signori di Napoli, lottando per
Carlo V d’Asburgo nella compagnia guidata da Pietro Antonio Sanseverino, principe di Bisignano.
10 IDA MAurO
3 La lapide si trova in uno stato di conservazione precario, che ne rende difficile una corretta
trascrizione. La vide e trascrisse Bartolommeo Capasso (B. CAPASSO, Memorie storiche della chiesa
sorrentina, Napoli 1854, p. 145) anche se con qualche errore, segnalato poi da Annunziata Berrino
che ha ritrascritto il testo (Il complesso conventuale di San Francesco a Sorrento: presenza mendicante e architettura francescana, a c. di A. BERRINO, Castellammare di Stabia 1991, p. 103).
4
In quella che era stata l’antica cappella Falangola nella cattedrale di Sorrento (ora coincidente
con l’altare di S. Antonino, al lato sinistro dell’altare maggiore) si conserva ancora una bella lastra
tombale dell’arcivescovo Domizio (1443-1470).
Fig. 1. Lapide di Nicola Falangola (1698). Sorrento, chiesa di S. Maria del Carmine.
I Falangola si mossero nel corso di tutto il Cinquecento nell’orbita dell’importante casata dei Sanseverino, da cui ricevettero nel 1527 le terre di Fagnano e Joggi
(attualmente in provincia di Cosenza) che erano parte degli enormi possedimenti
dei principi i quali interessavano buona parte della provincia di Calabria Citra,
come si può apprezzare dalla carta feudale pubblicata da Giuseppe Galasso nel
1965.5 Al servizio dei Sanseverino Nicolantonio partecipò alla difesa di Napoli
dall’assedio di Lautrech, nel 1527, e probabilmente anche all’impresa di Tunisi,
nel 1535, in presenza dello stesso imperatore Carlo V.6
Pietro Antonio Sanseverino era in effetti un personaggio di fiducia dell’imperatore (che lo visitò nel suo viaggio nel Regno, successivo alla campagna di Tunisi)
e fu il primo nobile napoletano a ricevere il tosón de Oro, la più alta onorificenza
della casa d’Asburgo. Vicino al viceré Pedro de Toledo (che governò il Regno dal
1532 al 1553), Pietro Antonio non fu investito dalle accuse di ribellione che colpirono invece il cugino Ferrante, principe di Salerno, presso la cui corte operava
il segretario Bernardo Tasso, padre di Torquato.7
Alla stregua dei principi di Salerno, però, anche quelli di Bisignano sono ricordati per l’amore che nutrivano per le lettere, le arti, la musica e il gioco degli
scacchi, che avevano un ruolo importante nel loro palazzo signorile, sito nei pressi
del monastero di S. Chiara (poi passato ai Filomarino e attualmente sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici).8
In questa elegante dimora i Falangola dovevano
trascorrere buona parte del loro tempo quando stavano nella capitale del Regno,
dove li troviamo documentati con sempre maggiore frequenza, stando ai censimenti dei fuochi di Sorrento del 1535 e del 1561. A Napoli si formavano e prendevano moglie i rampolli di casa Falangola e i diversi rami della famiglia si
legarono nel giro di pochi anni con la nobiltà di seggio partenopea.9
unA pEDInA SOrrEntInA AllA COrtE DEI vICErÉ 11
5 G. GALASSO, Economia e società nella Calabria del ’500, Napoli 1965. La carta feudale della
provincia di Calabria Citra è inserita tra le pagine 16 e 17.
6 Pirro Antonio Sanseverino partecipò con un cospicuo numero di vascelli a questa missione,
celebrata come uno dei trionfi (effimeri) di Carlo V.
7 Sulla vicenda vd. R. COLAPIETRA, I Sanseverino di Salerno. Mito e realtà del barone ribelle,
Salerno 1985.
8 Sull’amore per le arti e la letteratura dei Sanseverino di Bisignano vd. Fra virtuosi e musici:
il tardo rinascimento nell’Italia meridionale e la tradizione musicale e teatrale alla corte dei principi Sanseverino di Bisignano, a c. di L. FALCONE, Cosenza 2012.
9 Francesco Falangola (fratello di Nicolantonio) sposò a Napoli nel 1516 Sveva della Porta,
anche lei presente alla corte dei Sanseverino. Suo figlio Scipione sposò Camilla De Gennaro nel
1551 e suo figlio Bernardino (fratello di Diana) Luisa Carafa, figlia di Giovan Girolamo Carafa, da
cui ebbe due figlie, Vittoria e Camilla. La prima avrebbe sposato in prime nozze un figlio della
nobile famiglia napoletana dei De Liguoro e, in seconde, un esponente di casa Carafa (F. NICOLINI,
un’amante sorrentina di don Giovanni d’Austria, Napoli 1934, pp. 55-56. Il saggio fu pubblicato
nella «Rassegna storica napoletana», ho consultato l’estratto stampato da Gino Doria, con una numerazione autonoma delle pagine e indice proprio). Sono poi documentati legami matrimoniali con
Con il successore di Nicolantonio, Filippo Antonio Falangola (anche lui ricordato nella lapide di S. Francesco), la famiglia si mostra perfettamente inserita nel
‘sistema spagnolo’ che dominava buona parte degli stati italiani. Filippo Antonio
lottò per il viceré duca d’Alba nella Guerra Paolina (che oppose il re Filippo II al
papa, Paolo IV Carafa) e difese le coste della Calabria dagli attacchi dei Turchi
negli anni successivi al sacco di Sorrento (1558) ricevendo gli elogi del monarca.10
Dopo Filippo Antonio la lapide di S. Francesco inserisce il figlio di un suo cugino, Bernardino Falangola, anche lui militare, che riportò laudem maximam nella
battaglia di Lepanto (1571) e compì diverse operazioni per ingrandire i suoi feudi
(ad esempio, nel 1587 acquistò le terre di Forlì del Sannio dai Carafa di Traetto).11
Era figlio di Scipione Falangola, che visse prevalentemente a Napoli, dove sposò
la nobildonna Camilla De Gennaro (di una famiglia del seggio di Porto). La coppia, oltre a Bernardino, ebbe una seconda figlia, Diana, nata intorno al 1554-1555,
visto che la numerazione dei fuochi del 1561 dichiara che la piccola aveva allora
sei anni e dimorava a Sorrento.12
Il nome di Diana appare negli atti del parlamento del 1 novembre 1572, in cui
la città ed il Regno di Napoli supplicavano il viceré, cardinal Granvelle, affinché
smentisse le accuse di adulterio che pesavano sul conto della giovane, all’epoca
appena diciassettenne.13 Questo dato, apparso di recente nel corso delle ricerche
di chi scrive, avvalora le affermazioni dei personaggi dell’epoca, come il cardinal
Mario Carafa (arcivescovo di Napoli dal 1565 al 1576) che in una lettera del 1573
dice che Diana era imprigionata in castello perché «imputata di molte cose disoneste».14 Sulle circostanze di questa imputazione non è possibile sapere altro (gli
atti dei processi penali del tribunale di Napoli furono bruciati alla fine dell’epoca
borbonica), ma Enea Vaini, agente napoletano del granduca di Toscana Cosimo I,
scrisse in una missiva del 29 novembre 1573 che la giovane, «reputata la più bella
donna di Napoli», era stata «prigiona et torturata per imputatione di adulterio et
duoi homicidii».15 L’accusa di omicidio sarebbe probabilmente da escludere, siccome negli atti del Parlamento si fa solo riferimento al reato di adulterio. Inoltre,
se contro tale imputazione si era scomodato il Parlamento, le accuse potevano essere poco fondate o trattarsi di un’autentica calunnia contro una giovane donna
dotata di singolare bellezza, appartenente a una famiglia che sembrava farsi strada
12 IDA MAurO
i Pignatelli, B. CANDIDA GONZAGA, Memorie delle famiglie nobili delle province meridionali d’Italia,
6 voll., Napoli 1875, IV, p. 178.
10 NICOLINI, un’amante sorrentina cit., p. 18. La lapide accenna all’apprezzamento che Filippo
Antonio ricevette dal monarca Filippo II.
11 Ivi, pp. 19-20.
12 Ibid.
13 Biblioteca Nazionale di Napoli, Ms. Branc. V B 5, f. 75r.
14 L’affermazione del cardinale è citata in NICOLINI, un’amante sorrentina cit., p. 24.
15 Lettera trascritta e discussa in NICOLINI, un’amante sorrentina cit., p. 12.
tra le grandi casate del Regno anche grazie alla sua politica matrimoniale.
D’altro canto, l’accusa di adulterio sembrava riguardare lo stesso viceré, il cardinale Antoine Perrenot de Granvelle, persona di massima confidenza sia di Carlo
V che di Filippo II.16 In una sua missiva diretta al re Filippo II, il cardinale giurò
di non aver avuto mai nessuna relazione con Diana Falangola,17 ma allo stesso
tempo le fonti dell’epoca riportano con frequenza le dicerie sulle debolezze del
cardinale, molto evidenti nel periodo del suo soggiorno napoletano, quando – in
seguito al suo ritardo nella difesa de La Goletta dall’attacco ottomano – circolò il
distico satirico «Del Cardenal la bragueta / Ha hecho perder la Goleta».18
Come si vedrà nelle prossime pagine, il cardinale viceré si preoccupò costantemente della sorte di Diana e questo aumentò le chiacchiere su una loro possibile
relazione. Altri protettori di Diana furono senza dubbio i Sanseverino di Bisignano,
nella persona del principe Niccolò Bernardino, erede di Pietro Antonio. Nel suo
palazzo napoletano è documentato Scipione Falangola nella primavera 1573, citato
in due lettere dello scacchista Giovan Leonardo di Bona da Cutro inviate al duca
d’Urbino.19
I Sanseverino di Bisignano si erano infatti legati alla famiglia dei duchi di Urbino nel 1565, con il matrimonio del principe Niccolò Bernardino con Isabella
Della Rovere, figlia del duca Guidobaldo II.20 Tuttavia la coppia non aveva figli,
circostanza che doveva favorire la protezione del principe di Bisignano per i figli
unA pEDInA SOrrEntInA AllA COrtE DEI vICErÉ 13
16 Così il notaio Antonino Castaldo: «il Cardinal Granvela Antonio Perenotto […] Signore veramente grande, giudizioso, prudente, dotto, e benigno. E comechè avea governato, si può dire, il
Mondo a’ tempi del Divo Imperadore Carlo Quinto, e le sue gran qualità, per lunga esperienza delle
cose, erano notissime; diede la venuta sua grande allegrezza e soddisfazione al Regno, sperando
sotto il suo Governo tranquillità e giustizia» (A. CASTALDO, Dell’istoria di notar Antonino Castaldo
libri quattro: ne’ quali si descrivono gli avvenimenti più memorabili succeduti nel regno di napoli
sotto il governo del vicerè D. pietro di toledo e de’ vicerè suoi successori fino al cardinal Granvela,
Napoli 1769, p. 142).
17 Informazione riferitami da Almudena Pérez de Tudela (che ringrazio), che ha svolto ricerche
presso l’archivio privato del Granvelle a Besançon.
18 GACHARD, Don Juan d’Autriche cit., p. 549; B. PORREÑO, Historia del sereníssimo Señor D.
Juan de Austria, hijo del invictíssimo emperador Cárlos v, rey de España, Madrid 1899, p. 361.
19 le lettere di Gio. leonardo de Bona, a c. di A. PESAVENTO. Accessibili on-line alla pagina
www.archiviostoricocrotone.it/documenti/le-lettere-di-gio-leonardo-de-bona/ (ultima consultazione
11 set. 2016). Seppure mai in maniera esplicita, di Bona sembra criticare l’azione subdola del «magnifico Scipione Falangola», che prometteva favori al duca di Urbino secondo termini poco chiari:
«mi ricordo haver inlato a V. E. [il duca di Urbino] chel Mag.co scipione falangola s’haveva offerto
di far’ alcuno utile se V. E. lene faceva un pocho di segno in alcuna lettera in questa materia non so
dir altro perche credo che sono in modo confusi che solvat apollo».
20 Sulla presenza di Isabella Della Rovere a Napoli cf. A.E. DENUNZIO, Isabella Della rovere e
Isabella Gonzaga a napoli: originali apporti collezionistici per via di matrimonio, in Dimore signorili a napoli. palazzo Zevallos Stigliano e il mecenatismo aristocratico dal XvI al XX secolo,
Napoli 2013, pp. 366-383.
di Scipione Falangola (da qui probabilmente l’imposizione del nome di Bernardino
al fratello di Diana).
Fu dunque anche grazie al principe Sanseverino se Diana Falangola a inizio
novembre 1572 fu liberata dalla prigionia e riuscì ad assistere all’entrata trionfale
di Giovanni d’Austria (figlio illegittimo del re Carlo V) che il 18 novembre tornava
a Napoli, a un anno di distanza dalla vittoria di Lepanto (7 ottobre 1571). Con lui
sfilarono per la città i cavalieri napoletani che avevano partecipato all’impresa,
tra cui il fratello di Diana, Bernardino e – pare – altri membri di casa Falangola.21
‘Don’ Giovanni d’Austria era nato nel 1547 da una relazione dell’imperatore
Carlo V con una giovane di Ratisbona, Barbara Blomberg. Era cresciuto all’ombra
della corte (e del fratellastro regnante, Filippo II) studiando all’Universidad de
Alcalà insieme al nipote e coetaneo, don Carlos, e ad Alessandro Farnese, figlio
di una sua sorellastra, Margherita di Parma. Nel 1571 riportò il primo successo
militare, debellando la rivolta morisca delle Alpujarras, in Andalusia, e subito
dopo il fratellastro lo mise a capo della spedizione contro l’impero ottomano che
gli avrebbe conferito una straordinaria reputazione.
Le aspettative che destava questo giovane «capitan general de la mar», alla vigilia della battaglia di Lepanto, si possono leggere nel programma decorativo della
galera Argo, l’ammiraglia della flotta spagnola. Il programma, composto dall’umanista sivigliano Juan de Mal Lara e tradotto in pittura e scultura lignea sotto la
guida di un artista italiano, Benvenuto Tortelli, rappresentava una sorta di enciclopedia visuale del principe virtuoso, attraverso la reinterpretazione dei miti classici.22 L’insieme costituiva un gran manifesto galleggiante della Monarchia
Cattolica, ammirato dagli abitanti delle diverse città portuali (alleate o suddite
della corona) in cui sostò il vascello nel suo viaggio verso Levante.23
Dopo la roboante vittoria di Lepanto, don Giovanni portò avanti fino al 1575
una serie di campagne nel Mediterraneo contro l’impero ottomano, utilizzando
come base sia Messina che Napoli. Non tutte queste operazioni furono baciate dalla
fortuna, ad esempio quella del 1572 fu particolarmente sfortunata, ma quando l’eroe
di Lepanto sbarcò a Napoli nel novembre 1572 – sconfitto e ammalato – fu comunque accolto con un’entrata trionfale, che celebrava il successo degli sforzi dei napoletani, i quali avevano contribuito alla battaglia con risorse, galere e uomini.
Bartolommeo Capasso, in una pagina de Il tasso e la sua famiglia a Sorrento
14 IDA MAurO
21 B. CAPASSO, Il tasso e la sua famiglia a Sorrento ricerche e narrazioni storiche di Bartolommeo Capasso, Napoli 1866, p. 58.
22 Si veda la descrizione della galera in J. DE MAL LARA, Descripcion de la Galera real del
Sermo. Sr. D. Juan de Austria, Sevilla 1876.
23 La galera, costruita a Barcellona, fu decorata a Siviglia, da dove passò di nuovo a Barcellona,
per poi proseguire per Genova, Napoli (nell’agosto 1571) e Messina. Per gli antefatti e lo svolgimento
della battaglia di Lepanto rimando ad A. BARBERO, lepanto. la battaglia dei tre imperi, Bari 2010.
(1866), seguendo una fonte non specificata (molto probabilmente una descrizione
dell’apparato festivo allestito per l’entrata), racconta l’accoglienza ricevuta da don
Giovanni e introduce l’aneddoto della nascita dell’amore a prima vista con Diana
Falangola, «una delle più graziose figure uscite dal pennello del Correggio, che
da un balcone fissavalo con una tale ingenua ammirazione da vincere qualunque
più entusiastico applauso».24 Non è stato ancora identificato un ritratto di Diana,
ma anche all’epoca vi era la tradizione di far circolare le immagini delle belle
donne; è quindi probabile che in qualche ritratto di dama realizzato da artisti come
Scipione Pulzone (pittore attivo a Napoli in quegli anni) si possa celare un’effigie
della bella sorrentina.25
Tra i molti ritratti di don Giovanni, invece, si conserva presso il Museo del
Prado un quadro realizzato forse proprio a Napoli nel 1573-1575, che ci offre
un’idea di come doveva presentarsi il giovane figlio di Carlo V in quegli anni.26
L’immagine (fig. 2) accompagna bene la testimonianza di un cronista napoletano
coevo, Antonino Castaldo: «oltre la bellezza, di che la natura l’avea dotato, egli
mostrava nel volto e nelle sue azioni quella Signorile altezza, che portano dalle
fascie i Principi grandi, che da stirpe Reale discendono».27
Per chi aveva conosciuto ed ospitato il padre di don Giovanni nel suo soggiorno
nel Regno, come i Sanseverino di Bisignano, l’opportunità di avvicinarsi a un
componente della casa reale, che ricordava la magnanimità dell’imperatore, doveva suscitare non poche aspettative. Inoltre, don Giovanni condivideva con il
principe Niccolò Bernardino la passione per la musica e gli scacchi, è dunque ipotizzabile che l’incontro con Diana fosse propiziato dal clan Sanseverino in qualche
ricevimento in onore di Sua Altezza nelle dimore napoletane della famiglia.28
Fu forse in questo contesto che nacque il romanzo di Diana, tramandato dagli
autori che con la firma «Silvio e Ascanio Corona» compilarono a fine Seicento
unA pEDInA SOrrEntInA AllA COrtE DEI vICErÉ 15
24 CAPASSO, Il tasso e la sua famiglia a Sorrento cit., pp. 58-60. Il racconto è ripreso quasi letteralmente in M. FASULO, la penisola Sorrentina. Istoria – usi e costumi – antichità, Napoli 1906,
pp. 105-108.
25 Vd. il catalogo della recente mostra Scipione pulzone da Gaeta a roma alle Corti europee
(Gaeta, Museo Diocesano, 27 giu. – 27 ott. 2013), Roma 2013.
26 Su questo dipinto e il suo probabile autore italiano vd. A. VANNUGLI, Scipione pulzone ritrattista, in Scipione pulzone da Gaeta a roma cit., pp. 25-63.
27 CASTALDO, Dell’istoria di notar Antonino Castaldo cit., pp. 142-143.
28 Sull’utilizzo delle case e la generosità dei nobili napoletani per le cerimonie dei viceré mi sia
permesso di rinviare a I. MAURO, Cerimonie vicereali nei palazzi della nobiltà napoletana, in Dimore
signorili a napoli. palazzo Zevallos Stigliano e il mecenatismo aristocratico dal XvI al XX secolo,
Napoli 2013, pp. 257-274. Nella sua biografia di Diana Falangola, Fiamma Satta suppone che la dama
sorrentina avrebbe potuto conoscere don Giovanni a Castelnuovo, in veste di damigella della castellana
Anna de Toledo (anche quest’ultima fu a sua volta un’amante di don Giovanni). F. SATTA, Falangola,
Diana, in Dizionario biografico degli italiani, XLIV, 1994. Voce recuperata on-line all’indirizzo
www.treccani.it/enciclopedia/diana-falangola_(Dizionario-Biografico)/ (consultazione 4 ago. 2016).
una miscellanea di notizie sugli
scandali amorosi o sugli amori
più chiacchierati della nobiltà del
Regno di Napoli e dell’intorno
vicereale.29
Di queste raccolte di aneddoti,
spesso con titoli intriganti come
la verità svelata, si conservano
numerose versioni manoscritte
nelle biblioteche napoletane ed
europee, a testimonianza del successo che riscossero all’epoca.30
Il numero e l’estensione delle
storie raccontate può variare
molto tra un manoscritto e l’altro,
ma in genere il racconto della relazione tra Diana Falangola e don
Giovanni è sempre presente. Vale
la pena riproporre questo brano
per intero: «Mentre don Giovanni
stiede in Napoli, si innamorò
d’una bellissima e nobile donzella chiamata Diana, figlia di
Antonio Falangola e di Lucrezia
Brancia della città di Sorrento,
quali vivevano in Napoli con loro
famiglia, e tanto li piacquero le
maniere e la bellezza di quella
che, per mezzo di ricchi e preziosi doni fatti alla fanciulla et
alla di lei madre, l’ottenne in sua
balìa, dando il governo di Pozzuoli a suo padre, dove si ritirò per fingere di non
16 IDA MAurO
29 Si veda, tra le altre, la storia della relazione dell’arcivescovo di Sorrento, cardinal Remolines,
con Pippa Arcamone (A. BORZELLI, Successi tragici et amorosi di Silvio et Ascanio Corona, Napoli
1908, p. 60).
30 Oltre che nella Biblioteca Nazionale di Napoli (fondo manoscritti brancacciani) troviamo un
esemplare del manoscritto presso la Biblioteca Nacional de España (Madrid): la verità svelata da
Silvio ed Ascanio Corona in vari successi occorsi in napoli (Mss MSS/6411); la Biblioteca Nacional
de Catalunya (Barcellona), Memoria istorica di diversi successi tragici ed amorosi occorsi in napoli
o altrove a’ napolitani (Ms. 419); la Bibliothèque Nationale de France (Parigi), Successi tragici ed
amorosi occorsi in napoli ed altrove a’ signori napoletani (ms. italien 296-297).
Fig. 2. Ritratto di Giovanni d’Austria (1573-1575), Madrid, Museo del Prado.
saper nulla della vergogna di sua casa. Questa Diana fu la seconda che don Giovanni costantemente amasse con la qual procreò una figliuola, alla quale pose
nome Giovanna. Diana, riavutasi dal parto, fu maritata da don Giovanni con ricca
dote ad Antonio Strambone, gentiluomo del seggio di Porto, ma povero di beni di
fortuna, che volentieri la prese per moglie, e con questo visse Diana molto tempo,
col quale procreò molti figliuoli».31
L’obiettivo di questo testo era di far circolare la notizia degli amori di don Giovanni a Napoli (oltre a Diana, furono sue amanti Zenobia Zaratosio e Anna de Toledo). E infatti gran parte delle informazioni sulla dama sorrentina sono errate: né
Diana era figlia di Lucrezia Brancia e di Antonio Falangola (ma questa ipotetica
madre della famiglia sorrentina dei Brancia aumentava la sua “sorrentinità”), né fu
data in sposa per iniziativa di don Giovanni d’Austria ad un Antonio Strambone e
nemmeno è certo che i genitori avrebbero accettato la relazione solo dopo aver ricevuto doni e incarichi. Anzi, viene da chiedersi se ci fu mai bisogno di ulteriori
lusinghe, davanti all’opportunità di unire la propria famiglia con il fratellastro del
re, ancora scapolo e al culmine della sua carriera. Non è documentato nemmeno
l’incarico di governatore di Pozzuoli per Scipione Falangola, anche se va detto che
il governo di questa cittadina alle porte della capitale era una prerogativa che, dai
tempi di Pedro de Toledo, era stata destinata di solito alle persone dello stretto entourage del viceré. Se ci furono compensazioni per Scipione Falangola e Camilla
De Gennaro, vennero semmai al momento della fine della relazione, quando il disonore investì la giovane amante e tutta la sua famiglia.
Nonostante le inesattezze, il racconto degli pseudo-Corona, unito ai pettegolezzi storici che circolarono da sempre sulle relazioni amorose di Giovanni d’Austria, ha goduto una notevole fortuna fino ai nostri giorni. E ciò nonostante nel
1934 un saggio di Fausto Nicolini abbia provato a fare luce sulla famiglia di Diana
e sulle circostanze della relazione con don Giovanni, mettendo in evidenza i numerosi errori contenuti nella fonte tardoseicentesca.32 Tutti gli storici che hanno
parlato del passaggio di Giovanni d’Austria per Napoli non mancano di far riferimento al suo incontro con Diana, utilizzando il brano degli pseudo-Corona. Si è
visto come anche Bartolommeo Capasso non resista alla tentazione dell’aneddoto
sentimentale, mentre generazioni di romanzieri hanno usato spesso la fantasia per
amplificare i dati offerti da questa raccolta di storielle d’amore. Luís de Coloma,
nel suo Jeromín (una biografia di Don Juan molto popolare in Spagna, apparsa
nel 1902), costruisce la figura di un immaginario Antonio Falangola, povero in
canna e pieno di ambizioni, che gettò sua figlia tra le braccia di don Giovanni.
33
unA pEDInA SOrrEntInA AllA COrtE DEI vICErÉ 17
31 Cito dalla versione a stampa a c. di Borzelli (BORZELLI, Successi tragici et amorosi cit., p. 48).
32 NICOLINI, un’amante sorrentina cit. Il saggio è seguito da Fiamma Satta nella sua già citata
scheda biografica sulla Falangola.
33 Ancora più meschina appare la madre di Diana, in una pagina di questo romanzo nazionalista
È un’immagine a dir poco “coloniale” della Napoli spagnola, ma un secolo dopo
continua sulla stessa linea, calcando la mano sull’aspetto sentimentale ed erotico,
il romanzo biografico di Angel Martínez Pons (Juan de Austria. novela de una
ambición, 2003). In questo caso Diana diventa una donna appassionata con una
madre isterica, che dopo l’abbandono della figlia sarà placata solo con generose
quantità di oro.34 Nei romanzi storici spagnoli Diana è una figura nota e mitizzata,
che dà corpo a un immaginario iberico delle donne (e famiglie) napoletane, vitali
ed accoglienti ma moralmente inferiori all’indole castigliana.
Un altro elemento ripreso nei racconti romanzati della relazione tra Diana Falangola e Giovanni d’Austria è l’aneddoto del torneo celebrato in onore di don
Giovanni nel carnevale 1573, in cui Sua Altezza scelse come colori delle sue insegne il rosso e verde dello scudo dei Falangola come omaggio alla sua amante.35
Anche questo dettaglio sembra rispondere piuttosto a un topos dell’amore cavalleresco e non è avallato da fonti più attendibili. È comunque interessante constatare
la presenza dominante dei colori rosso e verde nel ritratto di don Giovanni del
Museo del Prado, in cui il vincitore di Lepanto sfoggia alla mano sinistra – forse
proprio all’anulare – un anello con due grosse gemme, una rossa ed una verde, separate da una più piccola bianca.
In mezzo a numerose circostanze vere o verosimili, è lo stesso don Giovanni
ad offrirci un ritratto di Diana, in una lettera scritta da Napoli il 18 luglio 1573 e
indirizzata alla già citata Margherita, duchessa di Parma e Piacenza (all’epoca risiedente a L’Aquila come governatrice della città): «Es mujer de las nobles y señaladas de aquí y de las más hermosas que hay en toda Italia; que alfín, con todas
estas partes y principalmente de la nobleza, parece que podrá mejor sufrirse esta
deshorden, si deshorden puede llamarse cosa tan natural y usada en el mundo».36
18 IDA MAurO
e nostalgico delle glorie della monarchia asburgica, che fu particolarmente letto nel periodo franchista: «Era Antonio Falangola pobre para su clase, fanfarrón y nada escrupuloso; Lucrecia, taimada
e hipócrita, y pretendían ambos esposos lucrarse con la belleza de su hija, que era a su vez muy
grande coquetuela. Exhibíanse, pues, por todas partes con grande lujo y ostentación, dejando ocultas
en casa la miseria y escasez de su pobreza. Llegaron aquel domingo a los toros en carroza, bizarramente adornadas las damas en su tocado, con acompañamiento de dueñas y pajes, y colocáronse en
el tendido, cubierto de damascos y tapices, frente al sitio reservado para Don Juan de Austria»; L.
COLOMA, Jeromín, Madrid 1902, libro IV, sezione II. Il volume è accessibile on-line nel portale Biblioteca virtual Miguel de Cervantes, che raccoglie i grandi classici della letteratura spagnola:
www.cervantesvirtual.com/obra-visor/jeromin-1/html/ff0772d0-82b1-11df-acc7-
002185ce6064_12.html (consultato il 15 lug. 2017).
34 A. MARTÍNEZ PONS, Juan de Austria. novela de una ambición, Barcelona 2003, pp. 278-287.
Martínez Pons si dilunga sulle descrizioni di improbabili incontri amorosi tra don Giovanni e Diana.
35 Sul torneo si sofferma anche D.A. PARRINO, teatro eroico e politico dei signori viceré, 3 voll.,
Napoli 1692-1694, I, p. 312.
36 «È una delle donne nobili e distinte di qui e tra le più belle che ci sono in tutta l’Italia; proprio
questi aspetti, e in particolare quello della nobiltà, pare che renderanno più facile da affrontare questo
Davanti agli occhi della sorellastra, la bellezza di Diana doveva giustificare la
relazione amorosa e la sua nobiltà rendeva più “gestibile” l’affaire (o il desorden,
come lo chiama don Giovanni), soprattutto nel momento della separazione. Margherita era più grande di don Giovanni di ben 25 anni e nutriva per il fratellastro
(compagno di studi di suo figlio, Alessandro Farnese) un forte affetto materno.
Don Giovanni la visitò a L’Aquila pochi giorni dopo il torneo di Carnevale, nel
febbraio 1573, e in quella occasione lei si era offerta di crescere eventuali figli
nati dai suoi ‘naturali disordini’. Qualche mese dopo – venuto a sapere della gravidanza di Diana – Giovanni le scrisse per confessare la nascita della creatura e
chiederle di divenire in qualche modo «madre sua e di suo figlio», mantenendo il
più completo segreto sulle origini del bambino, che il viceré Granvelle le avrebbe
fatto arrivare a L’Aquila. Non nominava Diana, ma ne parlava con le parole sopra
citate e lasciava intendere che la relazione con lei era ormai conclusa. Del resto
non poteva essere altrimenti, per un generale occupato a condurre una campagna
navale nel Mediterraneo sempre più dispendiosa e difficile, e che sapeva che presto
sarebbe stato spostato da Filippo II su un altro fronte. Inoltre, secondo le consuetudini osservate nelle case reali, a un figlio illegittimo come don Giovanni – destinato in un primo momento alla carriera ecclesiastica – difficilmente sarebbe
stata concessa la possibilità di avere famiglia e discendenza, soprattutto in un momento in cui Filippo II non aveva ancora assicurato la sua successione su un erede
di sesso maschile.
Un mese dopo questa prima lettera, in risposta alle richieste di Margherita di
ulteriori delucidazioni sulla futura madre, don Giovanni le scriveva che non avrebbe
rivelato il nome della donna finché il bambino non sarebbe arrivato a L’Aquila e
che, in ogni caso, poco importava saperlo, visto che Margherita non l’avrebbe mai
conosciuta. Ribadiva però quanto detto nella missiva precedente: era una delle più
belle donne d’Italia e soprattutto era «de linaje conocido y muy noble» (di schiatta
a tutti nota e molto nobile)37 che era quello che più gli interessava. Sono considerazioni che sottolineano il riconoscimento ottenuto dai Falangola in quegli anni e
riflettono anche gli stretti legami con i più noti principi Sanseverino, ma erano
anche una semplice rassicurazione formale tra due figli ‘naturali’, nati da relazioni
di Carlo V con donne che non avevano nemmeno una goccia di sangue blu (già si
è accennato alla madre di don Giovanni, quella di Margherita, Giovanna Van der
Gheynst, era figlia di un produttore di arazzi fiammingo). Questa seconda lettera
era inviata da Messina il 19 agosto 1573 e si concludeva con l’informazione che il
parto era ormai imminente e che il figlio si sarebbe chiamato Jerónimo, se fosse
unA pEDInA SOrrEntInA AllA COrtE DEI vICErÉ 19
disguido, se può chiamarsi disguido una cosa così naturale e comune nel mondo» (trad. dell’autrice).
GACHARD, Don Juan d’Autriche cit., p. 573.
37 Ivi, p. 574.
stato maschio, o Juana, se fosse nata una femmina.38
Nel frattempo Diana Falangola era stata allontanata dalla sua famiglia fin dal
febbraio 1573, per proteggerla dalle minacce di morte che aveva ricevuto da suo
fratello Bernardino. Il cardinale Granvelle aveva imposto la sua custodia presso
il monastero di S. Patrizia, ma l’entrata di Diana in un monastero in cui professavano le esponenti delle principali casate del Regno suscitò l’indignazione delle
monache.39 Il viceré dovette avvalersi della collaborazione del nunzio apostolico
per imporre la presenza di Diana, osteggiata dallo stesso cardinale arcivescovo di
Napoli, Mario Carafa. Il cardinal Carafa aveva due parenti in S. Patrizia e reagì
contro la decisione del Granvelle, facendo appello ai dettami del Concilio di
Trento, in cui si richiedeva di vigilare sulla clausura e di limitare le ingerenze
esterne sulle comunità monastiche.40 Tuttavia proprio il monastero di S. Patrizia,
insieme a quello di S. Gregorio Armeno, si era opposto all’imposizione delle inferriate e all’interdizione delle visite esterne, che dovevano essere applicate fin
dal 1567. Come ha dimostrato Nicolini, il diverbio giunse a scomodare la curia
papale e la Congregazione apostolica per l’applicazione del Concilio, che diffidò
il Carafa dando ragione al viceré e permettendo che i precetti tridentini non si applicassero fino a un nuovo avviso (e non certo prima del parto di Diana).41
Tale litigio andava ben oltre lo scandalo della gravidanza della Falangola e
delle possibili gelosie che l’accaduto poteva suscitare nella nobiltà napoletana,
rappresentava piuttosto una delle molte vertenze tra viceré e arcivescovi di Napoli
(la cui autorità non era sottoposta a quella del monarca) che caratterizzarono l’intero periodo vicereale.42
Diana diede alla luce una bambina, l’11 settembre 1573; otto giorni dopo Granvelle scriveva a madama Margherita per comunicarle che l’avrebbe inviata a
L’Aquila con la nutrice, accompagnata a sua volta da uno scudiero milanese del
viceré, Francesco Castano, che conosceva il seguito di Margherita. Né la nutrice
né la sua guida avrebbero conosciuto l’identità della bambina e il viceré raccomandava di mantenere il segreto anche con Sua Maestà, «que je crains que si Sa
Majesté le venoit à sçavoir, elle n’en seroit contente».43
20 IDA MAurO
38 Ibid. Jerónimo era il primo nome di battesimo di don Giovanni, come lui stesso indica nella
missiva.
39 NICOLINI, un’amante sorrentina cit., pp. 40-43.
40 C. RUSSO, Carafa, Mario, in Dizionario biografico degli italiani, XIX, 1976. Recuperato alla
pagina web www.treccani.it/enciclopedia/mario-carafa_(Dizionario-Biografico)/, consultata il
20.8.2016.
41 NICOLINI, un’amante sorrentina cit., pp. 37-47 (dove si riportano diverse lettere sulla questione); RUSSO, Carafa, Mario cit.
42 Si pensi, ad esempio, ai numerosi contrasti con la corte vicereale che si verificarono nel lungo
episcopato di Ascanio Filomarino, a metà Seicento (1643-1666).
43 In questa lettera il Granvelle torna ad insistere sulla bellezza della madre (e della neonata)
Le premure vicereali fecero aumentare i rumori sulla paternità della piccola
Giovanna, a cui si riferisce lo stesso don Giovanni in una lettera inviata a Margherita il 28 novembre; in essa egli riconosce che, al momento della nascita della
bambina, c’erano stati un po’ di “errori”, che avevano dato luogo a tali chiacchiere,
a cui il principe non voleva dare importanza siccome «al fin, lo que fue pasó, para
holvidarse» («infine, quello che è stato è ormai passato, meglio dimenticarsene»).44
Il disinteresse con cui liquidava Diana si estendeva anche alla figlia, di cui – in
un’epoca di altissima mortalità infantile – scriveva che se Dio decidesse di chiamarla al cielo sarebbe forse meglio, soprattutto per lui che non si sentiva degno
di essere padre.45 Tale attitudine non cambiò nei mesi successivi, stando alle risposte di don Giovanni alle lettere con cui Margherita lo informava della figlia.46
Giovanna crebbe in salute grazie alle cure di madama Margherita, che a
L’Aquila si occupava anche di altri due nipotini (figli di Alessandro Farnese e
Maria di Portogallo): Margherita Farnese (futura duchessa di Mantova) e Duarte
/ Odoardo Farnese, coetaneo di Giovanna e futuro cardinale.47 Margherita, seguendo una prassi tipicamente asburgica, aveva piacere di svolgere un ruolo di
zia/nonna tutrice, lei stessa fra l’altro era stata educata nei primi anni dalla prozia
Margherita d’Asburgo, governatrice dei Paesi Bassi (che era stata tutrice di Carlo
V e dei suoi fratelli), e dalla zia – e governatrice – Maria d’Ungheria.
Madama Margherita, che visse lontano dal marito Ottavio Farnese e si dedicò
a tempo pieno al governo dei territori della corona spagnola e dei propri feudi in
Abruzzo, si inseriva in questo profilo di donne-perno della casa d’Austria e doveva
avviare verso questo destino anche Giovanna, prestando molta attenzione alla sua
educazione.48 Scriveva il capitano de Marchi nel luglio 1575: «Sua Altezza [madama Margherita] si piglia piacere con la sig.ra Donna Giovanna figliuola de l’Altezza di Don Giovanni suo fratello: l’è gentilissima».49
Don Giovanni avrebbe conosciuto la figlia nel Natale del 1575, quando soggiornò a L’Aquila nel corso di un pellegrinaggio verso Loreto, prima di lasciare
unA pEDInA SOrrEntInA AllA COrtE DEI vICErÉ 21
«est la mère noble et de bon lieu, que s’accoucha il ya huyt jours, d’une bien belle fille; aussi est la
dicte mère, à ce que l’on me dit, fort belle» GACHARD, Don Juan d’Autriche cit., p. 576.
44 GACHARD, Don Juan d’Autriche cit., p. 577.
45 Lettera del 28 novembre 1573: «Ora, si Dios se la llevase, á todos pienso que nos seria merced,
y mayor á mí, que no son hijos para hombre como yo. Mire, V. Alt.a, y ríase de mi opinion y mi
deseo. Con todo beso otra vez á V. Alt.a las manos por el travajo que ha tomado por librarme deste
cuydado, que fuera agora grandísimo para mi», GACHARD, Don Juan d’Autriche cit., p. 599.
46 GACHARD, Don Juan d’Autriche cit., pp. 555-557.
47 A. VALENTE, Donna Giovanna d’Austria, in Studi in memoria di Michelangelo Schipa, Napoli
1926, pp. 459-471, sp. p. 463.
48 Su questi aspetti, che esulano dagli obiettivi del presente studio, si rimanda a VALENTE, Donna
Giovanna d’Austria cit., pp. 464-466.
49 F. MARCHI, Cento lettere del capitano Francesco Marchi bolognese conservate nell’Archivio
definitivamente il Regno di Napoli e dirigersi al governo dei Paesi Bassi. A partire
da questo momento sembra aumentare l’interesse del padre per la bambina; pochi
mesi dopo egli giunse a chiedere con impazienza l’invio di un suo ritratto e a desiderare che madama Margherita la portasse con sé nei Paesi Bassi, quando fu designata al governo delle Fiandre, nel 1578.50 Eppure, quando don Giovanni morì
di tifo il primo ottobre 1578, non si ricordò della piccola Giovanna nelle sue volontà
dettate in punto di morte.51 Margherita di Parma e il cardinale Granvelle continuarono invece a vegliare su di lei da lontano, anche quando la bambina – per volere
di Filippo II – fu mandata da L’Aquila al monastero reale di S. Chiara di Napoli.52
Giovanna giunse a Napoli nel 1580, ma non è noto se, in quel frangente, Diana
Falangola o i suoi familiari riuscirono a conoscerla. È certo, però, che Diana Falangola, già vedova nel dicembre 1577 del matrimonio con Pompeo Piccolomini
(e non con il – presumibilmente sorrentino – Antonio Strambone, indicato dai Corona), scrisse a Granvelle per spiegargli le difficoltà economiche in cui si trovava
e chiedergli di farle da intermediario presso madama Margherita, affinché l’accogliesse nel suo seguito nel viaggio che si accingeva a compiere verso i Paesi Bassi.53
Se non fosse stato possibile assecondare questa richiesta, Diana chiedeva di essere
accettata in un monastero napoletano, insieme al figlio avuto dal matrimonio con
Pompeo Piccolomini. Il monastero doveva assicurarle sostentamento e protezione
dalle ire di suo fratello Bernardino, che voleva vederla – stando al Granvelle – «hors
du monde», sia per vendicare l’onore della famiglia che per mere questioni economiche (Diana non gli aveva pagato un’importante somma di denaro).54
Contro le sue richieste, la Falangola (di cui non si conosce ancora la data di
morte) finì probabilmente per essere di nuovo sposata, ma le informazioni sui suoi
ultimi anni andrebbero probabilmente rintracciate nelle carte dei Piccolomini, in
relazione alle vicende biografiche e all’eredità del figlio, che potrebbe essere
morto in tenera età.55 Troveremmo ben poco, invece, nei documenti della famiglia
Falangola, che provò a rimuovere in ogni modo la memoria dello scandalo pur
seguendo le vicissitudini di Giovanna.
In un’epoca di re distanti, in cui i sovrani di casa d’Asburgo non tornarono più
22 IDA MAurO
governativo di parma, Parma 1864, p. 176.
50 GACHARD, Don Juan d’Autriche cit., pp. 560-561.
51 Ivi, p. 563.
52 Cf. VALENTE, Donna Giovanna d’Austria cit., pp. 464 e ss., dove si parla dell’educazione di
donna Giovanna utilizzando le lettere del fondo farnesiano dell’Archivio di Stato di Napoli (documenti in buona parte distrutti nei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale).
53 Queste informazioni sono contenute in una lettera del Granvelle a Margherita di Parma, datata
5 dicembre 1577, in GACHARD, Don Juan d’Autriche cit., p. 554, ripresa e commentata da Nicolini
nel suo saggio.
54 Ibid.
55 O almeno questa è l’ipotesi di Fausto Nicolini (NICOLINI, un’amante sorrentina cit., pp. 57-58).
a visitare Napoli dopo il soggiorno di Carlo V del 1535, Giovanna d’Austria rappresentò l’unico legame di sangue tra una famiglia del Regno e la casa d’Austria,
un autentico “caso di Stato”, a cui gli storici finora non hanno prestato la dovuta
attenzione.
All’interno del monastero di S. Chiara, sotto la protezione dei viceré, Giovanna
godette dal 1580 di un trattamento che esulava le norme tridentine della clausura
e le permetteva di ricevere visite da parte dell’aristocrazia partenopea. In quegli
anni si delineò il futuro della giovane, che secondo la consuetudine degli Asburgo
sarebbe dovuta rimanere in convento (come un’altra figlia naturale di don Giovanni, badessa del monastero de Las Huelgas di Burgos), ma che invece – proprio
come la zia Margherita – riuscì ad avere una vita da nobile, ottenendo dopo molte
insistenze di essere sposata – grazie a una dote offerta dal re Filippo III – con un
nobile palermitano cresciuto alla corte di Madrid: Francesco Branciforte, erede
del principe di Butera.56
L’arrivo di Giovanna sposa a Palermo nel 1603 è ricordato da un bel ritratto
attribuito a Sofonisba Anguissola, una pittrice legata alla corte di Madrid, anche
lei sposata in età “matura” con un nobile siciliano, Fabrizio Moncada (fig. 3).57
Nei precedenti anni napoletani Giovanna dovette anche entrare in contatto con
la famiglia Sanseverino, nella persona della principessa Isabella della Rovere, probabile responsabile di un tentativo di accordo matrimoniale non andato a buon
fine tra Giovanna e suo fratello, il duca di Urbino, Francesco Maria II della Rovere, rimasto vedovo nel 1599 di Lucrezia d’Este.58 Il della Rovere non fu l’unico
con il quale Giovanna pensò di sposarsi, nel tentativo di sfuggire alla vita monastica, per la quale non sentiva alcuna vocazione. Nelle lettere sul suo conto del
carteggio di Margherita d’Austria (riportate da Angela Valente) si legge in una
missiva del 1585: «si dice voglia S.[ua] M.[aestà] farla monaca, e che essa ha
detto di sì, piccola, che voleva monacarsi, ma che ora non lo farebbe ne andasse
della vita. Non le parla di nozze, perché non desidera tanto per essere ancora giovinetta, ma di questo la prega: di scrivere a S.[ua] M.[aestà] di farla subito uscir
da S. Chiara, perché qui le fanno, è vero, cortesie; ma non è trattata come una sua
pari, come lo sarebbe fuori».59
Negli ultimi anni trascorsi da nubile a Napoli, quando godette del privilegio di
unA pEDInA SOrrEntInA AllA COrtE DEI vICErÉ 23
56 Le sue nozze sono descritte in V. AURIA, Historia cronologica delli signori viceré di Sicilia,
Palermo 1697, pp. 73-75, vd. anche G. MAJORANA, Francesco Branciforte Barresi e le due principesse d’Austria, «Archivio storico per la Sicilia orientale» 13 (1916), pp. 81-128.
57 M. KUSCHE, Comentarios sobre las atribuciones a Sofonisba Anguissola por el Doctor Alfio
nicotra, «Archivo español de arte» 82 (2009), pp. 285-295.
58 Il progetto matrimoniale è documentato dalle missive di Giovanna in VALENTE, Donna Giovanna d’Austria cit., pp. 469-470.
59 Lettera del 9 ottobre del 1585, rintracciata da Angela Valente fra le antiche carte del fondo
farnesiano; cf. VALENTE, Donna Giovanna d’Austria cit., p. 467.
24 IDA MAurO
Fig. 3. Sofonisba Anguissola (?), Ritratto di Giovanna d’Austria, Palermo, collez. privata. La dicitura
«Margarita d’Austria et Branciforti…» è un’identificazione erronea, aggiunta nel XIX secolo.
lasciare il monastero per risiedere nella villa di Garcia de Toledo a Chiaia, vanno
datati i primi legami di Giovanna con i teatini, ed in particolare con il sorrentino
Onofrio Anfora, futuro preposito generale dei Teatini, tassello finale del presente
studio, destinato a continuare con diverse ricerche tanto in Italia come in Spagna.
Onofrio Anfora seguì costantemente donna Giovanna (accompagnandola, o almeno visitandola, anche in Sicilia) in veste di confessore e a lei dedicò un volume
di esercizi spirituali.60 Inoltre Giuseppe Silos, nella sua storia dell’ordine teatino
(1650), informa che padre Anfora svolse per lei una missione in Spagna, alla corte
di Filippo IV, per difendere i suoi interessi come componente della casa reale, ma
anche come erede dei beni del marito, principe di Butera.61
Da una dicitura more hispanico di un testo dedicato al teatino, in cui viene nominato «Onofrio Anfora e Falangola», apprendiamo poi che il religioso discendeva
direttamente per via materna dalla famiglia Falangola di Sorrento.62 In qualche
modo, dunque, anche se attraverso un ordine religioso che in quegli anni si era
insediato a Sorrento presso la chiesa di S. Antonino, i Falangola si erano avvicinati
alla nipote e ne avevano seguito le vicende, fino agli ultimi giorni della sua vita,
quando – dopo la morte del marito, nel 1621 – tornò a Napoli in compagnia della
figlia Margherita Branciforte. Gli importanti lasciti di Giovanna alla chiesa di S.
Maria della Vittoria a Chiaia, ricevuti e gestiti dal parente Onofrio Anfora, testimoniavano il mantenimento di un legame familiare, basato sull’esaltazione delle
memorie napoletane di Giovanni d’Austria, a decenni di distanza dalla battaglia
di Lepanto. Come ricordava a fine Seicento la guida di Carlo Celano (1692):
«[Giovanna d’Austria] essendo dama molto divota, s’elesse per suo padre spirituale il padre don Honofrio Anfora teatino; e per questo molto a’ detti padri essendo affettionata, gli compartiva gran limosine; né contenta di queste, volle
edificarle una casa in quest’aria così perfetta per li convalescenti, e per quei padri
che di buon’aria havean di bisogno; et in effetto l’eseguì: e colla casa l’edificò la
chiesa che volle fusse intitolata S. Maria della Vittoria, in memoria della vittoria
unA pEDInA SOrrEntInA AllA COrtE DEI vICErÉ 25
60 «Onofrio Anfora, nobile di Sorrento, Preposito Generale de Cherici Regolari diede alla luce,
suppresso il suo nome, un libro degli Esercitij Spirituali dedicándolo alla Principessa di Butera, Giovanna Austriaca, in Napoli», in N. TOPPI, Biblioteca napoletana, et apparato a gli huomini illustri
in lettere di napoli, e del regno, Napoli 1678, p. 227.
61 G. SILOS, Historiarum Clericorum regularium a congregatione condita, 3 voll., Napoli 1650,
III, p. 24. Sulla complessa eredità di Francesco Branciforte, principe di Butera, vd. L. SCALISI, l’eredità dei Branciforti. Conflitti politici e strategie di successione in una casata aristocratica siciliana
agli inizi del Seicento, «Clio» 3 (1997), pp. 371-400.
62 F. SALERNO, Oratione funerale del m.r.p. maestro Filippo Salerno D’Alcara Minor Conuentuale da lui recitata nell’essequie celebrate a 8 di ottobre 1640 nella chiesa de’ padri teatini in
Messina sotto la prepositura del molto reu. padre d. Francesco Maria lambardi per la morte del
reuerendissimo loro padre generale il padre don Onofrio Anfora e Falangola morto in roma a 7 di
settembre del detto anno, Messina 1640.
ottenuta da don Giovanni suo padre contro del turco».63
Tale impegno per la memoria di don Giovanni d’Austria, che la principessa di
Butera esercitò costantemente anche nel periodo siciliano, era parte della difesa della
propria identità. Giovanna non permetteva di essere discreditata in quanto figlia illegittima di un figlio illegittimo di Carlo V (si potrebbe parlare di una “doppia bastarda”), ma anzi sfoggiava con orgoglio la discendenza asburgica dall’eroe di
Lepanto. Nel caso di S. Maria della Vittoria, e del suo contesto teatino di origine
sorrentina, l’esaltazione di don Giovanni comportava inevitabilmente anche una
sorta di implicita riabilitazione della memoria della madre, Diana Falangola. Se di
lei non v’è traccia nelle lapidi sorrentine da cui ha preso le mosse questo studio, in
quelle iscrizioni si respirava però ancora il ricordo delle gesta di una famiglia e del
suo periodo di gloria, che coincise con gli anni dell’esistenza di Diana Falangola.
26 IDA MAurO
63 C. CELANO, notitie del bello, dell’antico e del curioso della città di napoli per i signori forastieri date dal canonico Carlo Celano napoletano, divise in dieci giornate, Napoli 1692, giornata
nona, p. 24. Vd. anche l’ed. digitale a c. di S. DE MIERI e F. DE ROSA, pubblicata sul portale della
Fondazione Memofonte www.memofonte.it/home/files/pdf/9_CELANO_GIORNATA_IX_DE_
MIERI_DE_ROSA.pdf (consultato il 2 lug. 2017).
Fig. 4. Stemma dopp