S. P. Garufi Tanteri: “L’indagine di Silvia D’Agata su donna Giovanna d’Austria” e attribuzione del suo vero ritratto a Filippo Paladini

S. P. Garufi Tanteri: “L’indagine di Silvia D’Agata su donna Giovanna d’Austria” e attribuzione del suo vero ritratto a Filippo Paladini

TIEMPOS MODERNOS 39 (2019/2) ISSN:1699-7778
Gli investimenti nobiliari nel sacro Silvia D’Agata
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Gli investimenti nobiliari nel sacro.
Il caso di donna Giovanna d’Austria e del monastero benedettino di
Militello (1604-1630)
The investments of nobility in the sacred.
The case of Giovanna of Austria and the benedectine monastery of
Militello (1604-1630)
Silvia D’Agata
Università degli Studi della Repubblica di San Marino
Resumen: El presente artículo pretende ilustrar la fundación del monasterio
Benedictino de Militello por Juana de Austria, hija ilegítima de don Juan de Austria, y
su marido, Francesco Branciforte, con la intención de analizar el impacto de esta
construcción en el territorio y su población. La intención de los príncipes era convertir
San Benedetto en un centro económico y transformarlo en el núcleo de la identidad de
la comunidad de Militello. Por estas razones, Juana decidió darle al monasterio el gran
relicario de la familia y la rica biblioteca del príncipe. Esto nos permite explorar el papel
que lo sacro jugaba en el proceso de construcción de una identidad aristocrática.
Palabras clave: Aristocracia, monasterio, identidad, reliquias, sacro, identidad
aristocrática
Abstract: This article aims to illustrate the foundation of the Benedictine Monastery of
Militello made by Giovanna of Austria, illegitimate daughter of don Juan de Austria,
and her husband Francesco Branciforte, with the intention to analyze the impact of such
construction on the territory and its population. The pursuit of the princes was to make
of San Benedetto an economic centre, as well as the core of the community identity of
Militello. For this reasons Giovanna chose to give to the Monastery the great family
reliquary set and the wealthy library of the prince. This allows us to explore the role that
the sacred played in the process of building an aristocratic identity.
Key words: Aristocracy, monastery, identity, relics, holy, aristocratic identity

 Recibido el 20 de abril de 2019. Aceptado el 26 de noviembre de 2019
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Gli investimenti nobiliari nel sacro.
Il caso di donna Giovanna d’Austria e del monastero benedettino di
Militello (1604-1630)
Premessa
Il feudalesimo “è stato una componente fondamentale della storia europea,
tanto da essere a lungo condizionante il gioco politico e sociale in alcuni contesti
dell’Europa moderna perfino dopo la sua soppressione”, così Aurelio Musi ha
riconosciuto nel feudalesimo uno dei nodi centrali per la comprensione delle dinamiche
sociali di alcune aree europee in età moderna1
.
Il concetto di feudalità ha vissuto un destino complicato. È apparso e poi
scomparso nel panorama degli storici, poiché soppiantato dall’avvento, tra gli anni ’70 e
’80 del secolo scorso, della storia sociale. Pierre Toubert (P. Toubert, Feudalesimo
mediterraneo. Il caso del Lazio medievale, Milano, Jaca book, 1980)2
ci ha indicato
come la via giusta per affrontare il nodo tematico relativo alla feudalità sia quella della
pluralità, ovvero la necessità di rivolgersi al feudalesimo definendolo come modello
ampio di “feudalesimi mediterranei”. Ciò significa guardare ai diversi ambiti europei in
cui il feudalesimo ha preso forma, dal señorio spagnolo, alla signoria rurale francese,
passando per la complessità del modello italiano, fino ad abbracciare gli ambiti
extraeuropei3
.
Una ricca stagione di studi è fiorita in Italia nell’ultimo ventennio e ha
rilanciato il tema della feudalità nel panorama storiografico facendolo diventare una
delle chiavi di comprensione delle dinamiche storico/politiche di età moderna. Mi sia
concesso operare un rimando, limitato per ragioni di spazio, a quelli che rappresentano
gli studi imprescindibili sul tema, con particolare riferimento al panorama italiano,
poiché oggetto di queste note.
Giuseppe Giarrizzo (V. D’Alessandro, G. Giarrizzo, “La Sicilia dal Vespro
all’Unità d’Italia”, en Storia d’Italia, vol. 16, Torino, Utet, 1992) nella feudalità ha
rintracciato la possibilità di comprendere le pratiche di strutturazione del potere e, non
da ultime, l’insieme delle giurisdizioni che hanno accompagnato la nascita delle città.
Città e feudo sono quindi diventati i punti di osservazione privilegiati per indagare gli
ambiti in cui si mosse una nobiltà, definita come un gruppo eterogeneo e composito, che
grazie al fenomeno dell’inurbamento ottenne ruoli in parlamento e quindi grandi
capacità di determinare indirizzi politici nell’isola (F.Benigno, C. Torrisi (a cura di),
Città e feudo nella Sicilia moderna, Caltanissetta, Sciascia editore, 1995). Si è percepita
come necessaria l’esigenza di comprendere le tappe di quella che è stata definita da
Giuseppe Galasso come “la parabola del feudalesimo” (G. Galasso, “La parabola del
feudalesimo”, in Rivista Storica Italiana, vol. 120, n. 3, pp. 1130-1141), una

1 L’espressione è in Aurelio MUSI, Il feudalesimo nell’Europa moderna, Il Mulino, Bologna, 2007.
2
Per l’analisi delle tesi di Toubert si veda Bruno FIGLIUOLO, “Il feudalesimo mediterraneo: un nuovo
modello?”, in Archivio Storico per le Province Napoletane, vol. 99, 1981, pp. 169-176.
3 Rossella CANCILA e Aurelio MUSI (a cura di), Feudalesimi nel Mediterraneo moderno, Mediterranea
Ricerche Storiche, n. 27, 2015. Imprescindibile il riferimento a Renata AGO, La feudalità in età moderna,
Roma-Bari, Laterza, 1994, che ha posto l’attenzione sugli aspetti economici, istituzionali e politico
culturali della feudalità.
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sollecitazione che è stata accolta da Aurelio Musi (A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa
moderna, Bologna, Il Mulino, 2007) e portata avanti da chi, negli ultimi anni, ha
ulteriormente vivacizzato il dibattito sul tema, allargandone gli ambiti d’indagine fino
ad abbracciare lo spazio della feudalità ecclesiastica (Feudalità laica e feudalità
ecclesiastica nell’Italia meridionale, a cura di Maria Anna Noto, Aurelio Musi,
Palermo, Quaderni Mediterranea Ricerche storiche, n. 19, 2011) e i protagonisti di
questi feudalesimi (Baroni e vassalli. Storie moderne, a cura di Elisa Novi Chavarria,
Vittoria Fiorelli, Milano, Franco Angeli, 2011). Impossibile sarebbe dare conto in
questa sede in maniera esaustiva del panorama articolato degli studi sul tema, ma
profondamente sbagliato sarebbe stato iniziare un saggio sugli investimenti nobiliari nel
sacro senza fare riferimento alle ricerche, che, per chiunque si appresti a studiare la
società moderna –specie quella relativa all’Italia meridionale–, rappresentano dei certi
capisaldi.
Mi rivolgo ancora a quegli studi per tentare ulteriormente di problematizzare il
tema della feudalità. Gerard Labrot (G. Labrot, Baroni in città. Residenze e
comportamenti dell’aristocrazia napoletana (1530-1734), Napoli, Società editrice
napoletana, 1979) ha portato a galla quella tendenza, propria del Regno di Napoli, dei
baroni di preferire le città ai feudi. Diversamente, Giuseppe Giarrizzo ha evidenziato
come, nel Regno di Sicilia, si sia attestata la tendenza opposta ovvero quella di
“trasferire in periferia il lusso, le buone maniere e il viver regale” (G. Giarrizzo, “Alla
corte dei Moncada (secoli XVI-XVII)”, Annali di storia moderna e contemporanea, n.
5, 1999, pp. 429-436). Una tendenza, questa, che i successivi studi sulle dinamiche
aristocratiche e sulle corti signorili, uno tra tutti quello di Lina Scalisi (L. Scalisi, La
Sicilia dei Moncada: le corti, l’arte e la cultura nei secoli XVI-XVII, Catania, Domenico
Sanfilippo Editore, 2006), ha confermato in via definitiva. Così, in maniera diversa dal
Regno di Napoli, in Sicilia tra ‘500 e ‘600 il feudo si è affermato come luogo di
elezione dei maggiori casati dell’isola, che da esso sono partiti per affermare e radicare
la potenza del proprio lignaggio. Una considerazione che non può non tenere conto della
diversa situazione economica siciliana rispetto alla realtà, sicuramente diversa, del
Regno di Napoli. Maurice Aymard (M. Aymard, “Una famille de l’aristocracie
sicilienne aux XVIe et XVIIe siècle: les ducs de Terranova. Un bel exemple d’ascension
seigneuriale”, en Revue Historique, n. 501, 1972, pp. 29-66) ha infatti chiarito come i
feudi fossero i centri dell’attività economica di una Sicilia che era l’effettivo “granaio
d’Italia”.
L’insieme di queste considerazioni, avvalorate tra l’altro dal caso studio qui
proposto, induce a ad affermare come per la realtà siciliana sia valido il ribaltamento del
paradigma di Labrot, che è possibile definire come quello del barone in campagna. Così
come i Moncada4
, che stabilirono la propria corte a Caltanissetta, anche un ramo della
famiglia Branciforti preferì un feudo di piccole dimensioni, Militello, alla vita in
capitale. I protagonisti di questa corte furono Giovanna d’Austria (1573-1630), la figlia
illegittima di don Giovanni d’Austria, e Francesco Branciforte (1575-1622), principe di
Pietraperzia, marchese di Militello e conte di Mazzarino.

4 Lina SCALISI (a cura di), La Sicilia dei Moncada: le corti, l’arte e la cultura nei secoli XVI-XVII,
Catania, Domenico Sanfilippo Editore, 2006.
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Giovanna d’Austria da Napoli a Militello
Giovanna d’Austria nacque a Napoli dalla relazione che don Giovanni, di
stanza a Napoli dopo la trionfante sconfitta ottomana a Lepanto, intrattenne con la
nobile sorrentina Diana Falangola5
. Venne cresciuta all’Aquila dalla zia, Margherita
d’Austria, con cui trascorse gli anni dalla nascita fino al 1580, momento in cui Filippo II
scelse ancora di affidare alla zia la reggenza dei Paesi Bassi, in quel momento un teatro
bellico fondamentale per le sorti della monarchia asburgica. Da questo momento,
Giovanna venne affidata alle cure delle monache del convento di Santa Chiara di Napoli
con cui trascorse ben diciotto anni. Numerose furono le trattative matrimoniali che la
videro coinvolta dapprima con il nipote di Papa Sisto V, Michele Peretti, dappoi con il
Duca di Urbino, Francesco Maria II della Rovere, per passare al tentativo matrimoniale
con il Duca di Braganza, Teodosio II.
Fu solo nel 1603, però, che Filippo III concesse l’assenso per il matrimonio
con Francesco Branciforte, già menino di Filippo III nel periodo che trascorse alla corte
madrilena insieme alla nonna, Julia Dorotea Barresi e Juan de Zuñiga. La pratica di
dimora presso la corte madrilena rappresentava una delle forme più importanti e comuni
di sistema di accreditamento, in grado di garantire un legame forte con il centro del
potere, fulcro di dispensazione dei patronage. Fu grazie al servizio reso a corte e
all’importanza assunta dallo Zuñiga e da Julia Dorotea Barresi che si posero le
condizioni di questo matrimonio, in cui un ruolo fondamentale ebbe il duca di Feria,
Lorenzo Suarez Figueroa (viceré di Sicilia dal 1602 al 1605)6
.
Nel 1603 Giovanna d’Austria giunse al molo centrale del porto di Palermo,
come racconta –con dovizia di particolari– la relazione redatta dal cronista palermitano
Alfonso Bianchi7
. La relazione rappresenta un trattato della cerimonialità barocca e dà
conto dell’entusiasmo con cui Palermo accolse la principessa. Il suo arrivo, difatti,
assunse il chiaro significato del favore accordato all’aristocrazia siciliana dal Re, il
quale aveva concesso che una parte di questa nobiltà si legasse con il sangue alla casa
reale. In cui un ruolo determinante ebbe l’appoggio che questa parte di aristocrazia
diede alla monarchia nella stagione delle battaglie nel mediterraneo.
Alla spettacolarità delle nozze seguì il trasferimento della coppia a Militello e
da lì ebbe inizio l’opera di ingrandimento e ristrutturazione del feudo che, dopo l’arrivo
della coppia, si arricchì divenendo un vero e proprio centro culturale. L’alto livello del
viver nobile raggiunto in questo territorio, del tutto periferico, consente di parlare di

5
Ida MAURO, “Una pedina sorrentina alla corte dei viceré: Diana Falangola, “dama delle più nobili e
distinte di Napoli e delle più belle d’Italia”, in La Terra delle Sirene, vol. XXXVI, n. 36 (2017), pp. 9-26;
Ida MAURO e Valeria MANFRÉ, “En tierra ajena, lexos de mi rey” Giovanna d’Austria, entre la corte de
Felipe III y la de los virreyes de Nápoles y Sicilia”, in Bernardo J. GARCÍA GARCÍA e Ángel
RODRÍGUEZ REBOLLO (a cura di), Apariencia y Razón en el Reinado de Felipe III. Las artes y la
arcquitectura al servicio de un nuevo gusto, Madrid, Doce Calles, in corso di stampa.
6
Silvia D’AGATA, Appartenenze multiple: i casamientos nella politica degli Austrias. Susanna
Gonzaga, Aloisia Luna e Vega e Giovanna d’Austria, in Tra le mura della modernità. Le
rappresentazioni del limite dal Cinquecento ad oggi, Roma, Viella, 2019, pp. 115-128.
7 Relatione della pomposa intrata della Serenissima Signora D. GIOVANNA D’AUSTRIA nella Città di
Palermo, à 20 di Luglio MDCIII, DESCRITTA DA ALFONSO BIANCHI, Per Gio. Antonio Franceschi in
Palermo, MDCIII.
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vera e propria corte signorile8
, al pari delle corti locali che erano fiorite in altri territori
della Sicilia. Giovanna, accanto ad altre donne del suo tempo quali Agata Lanza a
Cammarata, Luisa Luna e Vega a Caltanissetta, divenne interprete di un nuovo viver
nobile e artefice della costruzione di un universo cortigiano che fece di un feudo lontano
dalla capitale il laboratorio per la sperimentazione di una grammatica articolata
dell’abitare lo spazio corte.
La sacralizzazione dello spazio cortigiano
Il rapporto tra nobiltà e sacro è un ormai una realtà storiografica attestata.
Domenico Ligresti ha affermato come “La prima preoccupazione dei signori è quella di
erigere e finanziare conventi e chiese, di renderli decorosi e ricchi di parati e di arredi,
di sostenere il clero, di istituire e dotare opere pie e confraternite. La contropartita
consiste nel ruolo egemone che la famiglia stabilisce con il luogo sacro, che diventa il
simbolo di un rapporto privilegiato con a divinità attraverso il culto speciale e
consapevolmente orientato dei santi intercessori cui tradizionalmente la famiglia stessa
ha fatto riferimento o dei nuovi santi che il movimento riformatore cattolico pone in
auge”
9
.
Il signore feudale, membro della grande aristocrazia del Regno, mediante
l’edificazione di luoghi sacri, si rivolgeva al sacro per trovare un ulteriore strumento di
legittimazione della potenza del casato. Una considerazione valida ancor più nel caso
della corte locale retta dalla nipote di Carlo V. Forti furono in lei gli elementi più propri

8 La corte rappresenta un concetto storiografico dalla forte densità semantica, che continua a
rappresentare un fecondo campo d’indagine. Impossibile sarebbe dare conto in maniera esaustiva delle
principali produzioni scientifiche sul tema. Mi limito ad indicare le tappe principali. Le pubblicazioni
della rivista Libros de la Corte, dell’Istituto IULCE, Instituto Universitario “La Corte en Europa” hanno
segnato un allargamento degli orizzonti di ricerca su questo tema. Per una sintesi bibliografica si vedano
Manuel RIVERO RODRÍGUEZ, Court Studies in the Spanish World, in La Corte in Europa, Roma,
Bulzoni editore, 2012, pp. 135-147; Pablo VÁSQUEZ GESTAL, “La corte en la historiografía
modernista española. Estado de la cuestión y bibliografía”, in Cuadernos de Historia Moderna, n. 2,
2003, pp. 269-310. Imprescindibile il riferimento ai volumi curati da Jose MARTÍNEZ MILLÁN, Manuel
RIVERO RODRÍGUEZ e Gijs VERSTEEGEN (a cura di), La Corte en Europa: Política y Religión
(Siglos XVI-XVIII), Madrid, Polifemo, 2012. Il centro studi Europa delle Corti ha inaugurato la stagione
italiana di ricerche sulla corte, per cui si vedano Cesare MOZZARELLI e Giuseppe OLMI (a cura di), La
corte nella cultura e nella storiografia. Immagini e posizioni tra Otto e Novecento, Roma, Bulzoni, 1983;
Giuseppe PAPAGNO e Amedeo QUONDAM (a cura di), La corte e lo spazio: Ferrara estense, Roma,
Bulzoni, 1982; Marcello FANTONI, La corte del Granduca. Forme e simboli del potere mediceo fra
Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1994; Marzio Achille ROMANI e Amedeo QUONDAM, Le corti
farnesiane di Parma e Piacenza. Potere e società nello stato farnesiano, Roma, Bulzoni, 1978; Maria
Antonietta VISCEGLIA, Roma papale e Spagna. Diplomatici, nobili e religiosi tra due corti, Roma,
Bulzoni, 2010. Per quanto riguarda l’Italia spagnola, un punto di svolta è stato raggiunto con il convegno
“Corti, Città, Capitali nell’Italia Spagnola. La vita nobile” con il coordinamento di Cesare Mozzarelli e
Domenico Ligresti. Gli atti, confluiti nel numero monografico della rivista Archivio Storico per la Sicilia
Orientale, Anno XCIV, f. I (1998), hanno posto l’attenzione sull’importanza svolta dalle corti locali, o
signorili, nel periodo spagnolo. Sottolineando, poi, la necessità di guardare a quest’insieme di corti come
parti di un sistema cortigiano articolato. Un necessario rimando va a Isabel ENCISO ALONSOMUÑUMER, “Las cortes fuera de la corte. La nobleza napolitana de los siglos XVI y XVII: ceremonial y
lucha política”, in Adolfo Carrasco Martínez (a cura di), La nobleza de los reinos: anatomía del poder en
la Monarquía de España (siglos XVI-XVII), Madrid, Iberoamericana Editorial Vervuert, 2017, pp. 315-
360.
9 Domenico LIGRESTI, “Le piccole corti aristocratiche nella Sicilia ‘spagnola’”, in Archivio Storico per
la Sicilia Orientale, anno XCIV, f. I, 1998, pp. 11-35.
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di quella pietas asburgica10 che si espressero nella fondazione di monasteri, uno tra tutti
quello della Descalzas di Madrid11 e nella circolazione delle reliquie12
.
È accertato che “las fundaciones conventuales contrybuieron a cimentar la
autoridad señoral por lo que tuvieron de despliegue de la imagen de la nobleza como
benefactora de y en sus estados. La fundación y dotación de un convento constituía una
exhibición de poder, pero también una exhibibición de generosidad y magnanimidad
que debía alimentar la aceptación y la asunción de la dominación”
13
. Per questo, i
membri dell’aristocrazia dei regni della monarchia, seguendo il progetto di sostegno a
favore degli ordini religiosi condotto dagli Austrias, trovarono nell’edificazione e nella
dotazione agli ordini monastici e conventuali uno strumento forte di
autorappresentazione; come avvenne nel caso della casa di Feria, i duchi di
Albuquerque o i duchi d’Alba14
.
La progettualità religiosa di cui Giovanna d’Austria fu artefice si espresse in un
disegno che assunse connotati diversi in relazione ai luoghi che segnarono le tappe della
sua vita. Si fece promotrice di un piano coerente di promozione devozionale che si
concretizzò nella volontà di fondare Santa Maria della Vittoria a Napoli, in memoria
della vittoria paterna contro l’armata turchesca del 1571, e nella costruzione del
monastero di San Benedetto a Militello15
. Questi due luoghi furono gli spazi della
memoria di un’Asburgo che visse lontana dagli scenari madrileni. Il periodo che
trascorse all’Aquila con Margherita consentì a Giovanna d’Austria di assorbire gli
elementi di quella cultura tardo rinascimentale che fece dialogare con gli elementi tipici
del sentire barocco, in cui convisse la morigeratezza tipica di un sentire religioso
riformato e lo sfarzo di un apparire che era il linguaggio comunicativo tipicamente
secentesco.
La valenza simbolica che questi territori, Napoli e Militello, assunsero trova
conferma nella scelta testamentaria di eleggerli come unici due possibili luoghi di
sepoltura, allorché:
“…morendo in questa terra di Militello ed in qualsivoglia parte di questo Regno di
Sicilia il mio corpo s’habbia dà seppellire nel mio monastero di San Bendetto di
Militello; Morendo nel Regno di Napoli ò Roma il mio corpo s’habbia da seppellire
nella mia chiesa di Santa Maria della Vittoria delli PP. Thiatini a Chiaia, et non

10 Alfonso RODRÍGUEZ DE CEBALLOS, “Carlos V, paradigma de la Pietas Austriaca”, in Fernando
MARÍAS e Felipe PEREDA (a cura di), Carlos V. Las armas y la letras, Madrid, Sociedad Estatal para la
Conmemoración de los Centenarios de Felipe II y Carlos V, 2000, pp. 243-260.
11 Magdalena SÁNCHEZ, “Where Palace and Convent met: The Descalzas Reales”, in The Sixteenth
Century Journal, v. 46, n. 1, 2015, pp. 53-82.
12 José ALFARO PÉREZ e Carolina NAYA FRANCO (a cura di), Supra Devotionem. Reliquias, culto y
comportamientos a lo largo de la historia, Zaragoza, Universidad de Zaragoza, 2019.
13 Ángela ATIENZA LOPEZ, “Nobleza, poder señorial y conventos en la España moderna. La dimensión
política de las fundaciones nobiliarias”, in Esteban SARASA e Eliseo SERRANO (a cura di), Estudios
sobre señorío y feudalismo: homenaje a Julio Valdeón, Zaragoza, Institución Fernando el Católico, 2010,
cit. p. 246.
14 Ivi, p. 244.
15
Marcella CAMPANELLI (a cura di), I Teatini, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1987, pp. 291-
295.
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essendo fatta ditta chiesa nella loro chiesa di San Paolo, dove starà loco depositi per
insino a tanto, che sarà fornita a detta chiesa di Santa Maria della Vittoria”
16
.
Oggetto di queste note è la fondazione della chiesa e del convento di San
Benedetto, la cui nascita si lega ad un piano di riqualificazione territoriale volto a
ridisegnare lo spazio urbano e a definire l’area intorno al palazzo quale asse attrezzato
di servizi e strutture. Una riqualificazione che determinò una profonda modifica della
morfologia del feudo, che ora si allargava alle zone più esterne, fino a quelle che le fonti
chiamano la contrada del piano detto della Nunziata17
. La costruzione benedettina, sua
eredità fisica e spirituale, fu testimonianza di pietra di quanto ella stessa ebbe scrivere
nel 1622 ai Giudici e agli avvocati fiscali di Militello, ovvero, “Stimo più della pupilla
de gl’ occhi miei la terra di Militello”
18
.
Quest’edificazione nacque anche con l’intento di espandere la scena cortigiana
in piena aderenza con i piani di ristrutturazione urbana che, sin dal secolo precedente,
continuavano ad insistere nella modifica dello spazio. Gli spazi vennero reinterpretati in
un’ottica di apertura e funzionalità, divenendo palcoscenici per le occasioni di socialità.
Numerosi sono gli studi che hanno avuto come oggetto gli istituti monastici,
ciò che qui, invece, si tenterà di fare sarà porre l’accento sul concetto di “risorse” legate
all’edificazione e dotazione di un istituto monastico nel contesto di una corte locale e
periferica. Con “risorse” ci si riferisce a quegli aspetti che consentirono al monastero di
configurarsi come organismo economico, capace di mobilitare risorse economiche e
vivacizzare le attività produttive all’interno del feudo. Non solo, la dotazione di un
considerevole apparato reliquiario lo rese meta di pellegrinaggi, un centro di culto
attrattivo anche per chi viveva fuori da Militello. In tal senso il concetto di risorse
assume il duplice significato della materialità economica e dell’immaterialità spirituale.
La fondazione: il monastero come cellula economica
Il governo dei principi d’Austria e Branciforte fu in più maniere segnato dalla
volontà di apertura verso la città e i suoi abitanti. Le pratiche di sociabilità che
caratterizzarono l’ambiente cortigiano, difatti, oltrepassarono le mura del palazzo e si
estesero al feudo, venendo offerte e condivise con l’intera popolazione, chiamata adesso
a riunirsi attorno al monastero, che apparse sin da subito il protagonista della vita
sociale e religiosa di Militello, testa di ponte tra principi e società. La relazione redatta
in occasione della posa della prima pietra del monastero ci introduce nello scenario dei
festeggiamenti barocchi. Come giornata inaugurale si scelse l’otto settembre del 1616:
una data dalla duplice valenza, poiché, parimenti, giorno della Beata Vergine e
compleanno della fondatrice.
Don Gregorio La Motta, Abbate di San Nicola di Catania, presenziò alla messa
pontificale in compagnia di venti monaci19
, un evento a cui si sommò la carica

16 Volume superstite del monastero di San Benedetto, Notaio Pietro Ciccaglia, 26 gennaio XII Ind. 1629,
ff. 52v-58r.
17 Ivi, f. 35 r. Nella Chiusa chiamata di Giovanni Tutino, a quel tempo di Geronimo Tutino. Anche
Archivio di Stato di Palermo (in avanti, ASP), Fondo Trabia, Serie I, b. 623, f. 271.
18 Archivio Comunale di Militello (in avanti, ACM), Curia Baronale, b. 2, f. 66r.
19 Volume superstite del monastero di San Bendetto, f. 30 r.
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simbolica della vestizione di due novizi assegnati al monastero, i quali
significativamente assunsero i nomi dei due fondatori, Francesco20 e Giovanni
21
.
Le celebrazioni, durate quindici giorni, si svolsero “con tanta pompa e
ricchezza e con tanta magnificenza, che apportò molto giubilo e contento all’ Ecc. mi
principi et à tutto il popolo”
22
. I “primi comedianti d’Italia a numero di 20” popolarono
Militello per recitare commedie e tragedie pastorali, mentre le composizioni musicali
“eseguite ad opera di molti musici ed organisti” vennero appositamente realizzate per
l’occasione dalla stessa fondatrice
“qual musica riuscì tanto armoniosa et dilettevole che fu di sommo gusto a tutti e di
somma dilettazione, et in particolare la messa a’ doi cori che riuscì con compita
sadifattione dell’orecchie di ciascheduno che l’intese”.
23
I tempi di questa scenografia barocca vennero scanditi dagli spari di duecento
archibugieri. Giochi e feste fecero da cornice al rito della posa delle pietre, le quali
vennero collocate gerarchicamente a partire dall’Abbate, seguito dalla promotrice e
dalla figlia Margherita d’Austria e Branciforte, la cui pietra cava contenente i vari tagli
della moneta corrente di Sicilia venne coperta per mano di Francesco Branciforte24
.
L’istituzione del monastero, lungi così dall’essere una mera aggiunta edilizia
alla già nutrita costellazione di Chiese militellesi, mostrò sin da subito la capacità di
attestarsi come luogo addensatore del patrimonio immateriale della società, che ad esso
si indirizzava come il luogo detentore dell’onore e del decoro cittadino, sintesi di una
comune appartenenza identitaria25
. Ben si scorge l’intento dei reggenti di creare una
triangolazione tra corte, società civile e vita religiosa. La corte, infatti, investendo nel
monastero, intervenne nelle trame del tessuto urbano imprimendo nel feudo la forza di
un patrimonio simbolico. Una immagine dialettica della dimensione sociale e religiosa
che induce ad un confronto diretto con il paradigma della storia urbana e motiva
ulteriori e ben più ampie riflessioni sui quei particolari processi di costruzione e
mantenimento del potere da parte dell’aristocrazia26
, coinvolta in questa fase in quella
temperie politica che vedeva Madrid come il baricentro degli equilibri politici.

20 Ivi, f. 32r. Svolse il noviziato presso il monastero di San Placido di Messina, completandolo nel 1617,
assumendo il nome di Giovan Francesco.
21 Ivi, f. 30v, “La sera á mezza hora di notte si prepararono le cose per vestirsi li doi novitii, quali furono
vestiti dal Reverendissimo priore D. Gregorio Abbate con molte cerimonie e pompe con cantarsi
bellissimi mottetti dalli musici e gli furono lavati li piedi con acquie odorifere in vasi d’argento e gli furon
baciati gli pedi da tutti gli prisenti secondo il comune costume si posse nome al primo novitio D.
Giovanni, et al secondo D. Francesco. Il primo si chiamava D. Gio: batta prete sacerdote di Militello, et il
secondo si D. Gio: batta Russo clerico di Militello quali si partirono poi con gl’altri priori et andarono in
Catania alli X del ditto mese di settembre per fare il novitiato [..]e furono vestiti a spese delli Ecc.mi
signori”. Si veda S. Bosco, “Cronaca della fondazione della chiesa di S. Benedetto”, in Francesco
BENIGNO (a cura di), Tra Memoria e storia. Ricerche su di una comunità siciliana: Militello in Val di
Catania, Catania, Maimone editore, 1995, pp. 223-225.
22 Ibidem.
23 Ivi, f. 30 v.
24 Ivi, f. 31 v.
25 Si veda Elisa NOVI CHAVARRÍA (a cura di), La Città e il monastero. Atti del Convegno di Studi
Campobasso, 11-12 novembre 2003, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005.
26 Giuseppe GALASSO, La storia socio-religiosa e i suoi problemi, in L’altra Europa. Per
un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Napoli, Guida, 2009, pp. 385-401; per una rassegna
sugli studi di storia socio-religiosa si rimanda a Elisa NOVI CHAVARRIA, “Controllo delle coscienze e
organizzazione ecclesiastica”, in Francisco CHACÓN, Maria Antonietta VISCEGLIA, Giovanni
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Nonostante lo scarto rilevato dalla storiografia, inerente la qualità e quantità
degli istituti monastici, specie femminili, esistenti in misura maggiore nelle città
demaniali rispetto ai feudi, l’indicazione è quella di non interpretare questo tipo di
fondazioni secondo la rigidità del binomio feudo-città, bensì quella di allargare le
considerazioni mediante la disamina degli attori che, di volta in volta, siano essi gruppi
di potere locale o casate feudali, agirono nell’istituzione e nella dotazione di opere pie27
.
Un’avvertenza che muove dalla necessità di considerare i monasteri non solo come
incubatori di patrimoni economici, bensì come cellule del potere che l’aristocrazia
adoperò al fine di autoconsacrarsi attraverso la legittimazione di una gerarchia
immateriale di nobiltà e di santità. Queste furono le espressioni di un rapporto
d’eccezione con il divino, dove, il punto di congiunzione tra potere secolare e temporale
era costituito dal quel funzionale aggregato di santi, ed in specie dai modelli di santità
posti in essere dalla controriforma28; punti di congiunzione e mediazione tra sacro e
terreno. Allorché, il modello monastico maschile, in maniera diversa rispetto a quello
femminile, definì un prototipo, dal momento in cui:
“si declina assai più di quello femminile sulle articolazioni della società e ne assorbe e
riflette le sollecitazioni e le tensioni, fino a maturare una più forte progettualità, non
limitata al fisiologico rafforzamento dell’istituzione ma spesso ad una capacità di
proporsi nelle dinamiche territoriali come un autonomo attore sociale e politico”
29
.
Un’ipotesi peraltro convalidata dalle recenti acquisizioni documentarie che
consentono di delineare il profilo del monastero di San Benedetto quale cellula
economica direttiva, inserita a pieno titolo nelle logiche finanziarie sul territorio30
.
I monasteri, così come le altre pratiche finanziare, possono essere considerati
gli elementi di un’economia aristocratica complessa che in essi vedeva la garanzia per la
disponibilità costante e certa di un serbatoio economico. In tal senso, le annotazioni sui
beni stabili, le rendite, i censi consegnativi e perpetui, ci indirizzano verso le aree
d’influenza economica e sulla portata della dotazione, composta da 600 onze annuali,
esclusa la vigna con terreno destinata al sostentamento dei 13 padri che lo avrebbero
abitato31
. Ampio risulta essere anche l’insieme di soggiogazioni oltreché di censi
detenuti su alcuni dei territori più importanti del feudo quali ad esempio l’Ambelia e la
contrada della Gisira.
Al di là di ciò, l’aspetto che più di altri pare degno di nota è la capacità che
questa fondazione ebbe nell’attivare delle forme economiche nuove. Questa

MURGIA e Gianfranco TORE (a cura di), Spagna e Italia in età moderna: storiografie a confronto,
Roma, Viella, 2009, pp. 305-325.
27 Il rimando va a Elisa NOVI CHAVARRIA, “Identità cittadine, identità di ceto e monasteri femminili”,
in Elisa NOVI CHAVARRÍA (a cura di), La Città e il monastero […], op. cit., pp. 13-28.
28 Rilevante in tal senso è il modello di santità assunto da Suor Maria Crocifissa, la santa dei Tomasi. Sara
CABIBBO e Marilena MODICA, La Santa dei Tomasi. Storia di suor Maria Crocifissa (1645-1699),
Torino, Einaudi, 1989.
29 Elisa NOVI CHAVARRIA (a cura di), La Città e il monastero […], op. cit., p. 327.
30 Sul ruolo dei monasteri quali cellule economiche si rimanda a Elisa NOVI CHAVARRIA, “Ordini
religiosi, spazi urbani ed economici nella Calabria spagnola”, in Alessandra Anselmi (a cura di), La
Calabria dal viceregno spagnolo. Storia arte architettura e urbanistica, Roma, Gangemi editore, 2009,
pp. 537-545.
31 ASP, Fondo Trabia, Serie I, b. 623, f. 270r-280r.
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considerazione rafforza l’ipotesi di una logica aristocratica volta a fare dei centri di
culto dei motori dell’economia del feudo. Una tesi confermata, tra l’altro, dalla volontà
del principe di istituire una fera franca annuale della durata di 15 giorni. Le carte
d’archivio ci presentano questo evento come un’occasione attrattiva per mercanti e
acquirenti, che, da varie parti della Sicilia e dai feudi limitrofi, muovevano verso
Militello attratti dal sistema delle franchezze32
.
La dotazione spirituale: le reliquie
Scaturì un progetto in cui la fusione di risorse materiali risultava funzionale a
fare di San Benedetto il cuore della vita spirituale e sociale della galassia dei feudi
circostanti che si articolavano intorno a Militello. Ragion per cui, al piano degli
investimenti monetari doveva accompagnarsi il prestigio dell’immaterialità delle risorse
sacre, delle reliquie, le quali assunsero il significato di veri e propri marcadores de
territorio33
. Le reliquie ebbero in tutti i paesi della cristianità la valenza di elementi
devozionali dal valore aggregante, specie dopo il Concilio di Trento, quando la
devozione divenne parte fondamentale di una religiosità popolare che intorno ad esse si
raggruppava per ritrovare nei santi martiri gli esempi di virtù morali34
. Gli apparati
reliquiari, inoltre, si prestano anche ad un tipo di lettura, che induce ad altri ambiti di
riflessione, ad esempio quello relativo all’analisi della rete entro cui si mossero, ovvero
il sistema di scambi sociali che animarono; nonché la loro valenza di elementi barocchi
del collezionismo. Infatti, al pari di altri oggetti, si ritrovano all’interno dei testamenti
come parte fondamentale del “capitale simbolico oggettivato” che formava parte
dell’eredità di una famiglia35
. Nondimeno, piccoli reliquiari in oro e argento
impreziositi da pietre preziose costituivano spesso una forma di dono non solo tra
donne, ma anche in ambito diplomatico tra le ambascerie36
.
Il progetto condotto da Giovanna d’Austria aderì a queste istanze e le fonti ci
restituiscono un repertorio di reliquie ricco, dove, accanto ai patroni di vecchia

32 ASP, Fondo Trabia, Serie I, b. 623, f. 6r-6v; Ivi, f. 8r-9v.
33 Cfr., Eliseo SERRANO MARTIN, “Fabricar santos en la Edad Moderna”, in José Luis BETRÁN,
Bernat HERNÁNDEZ e Doris, MORENO (a cura di), Identidades y fronteras culturales en el mundo
ibérico en la Edad Moderna, Barcelona, Universidad Autónoma de Barcelona, 2016, p. 197.
34 Si vedano Eliseo SERRANO MARTÍN, “La santidad en la Edad Moderna: límites, normativa y
modelos para la sociedad”, in Historia Social, vol. 91, 2018, pp.149-166; José Luis BETRÁN, Bernat
HERNÁNDEZ e Doris MORENO (a cura di), Identidades y fronteras […], op. cit. Sul tema si veda
Francesca SBARDELLA, “Dévotion et objets d’affection. Les dons de Francesco Barberini aix clarisses
de fara in Sabina”, in Archives de sciences sociales des religions, n. 183, 2018, pp. 119-141; Eadem,
Antropologia delle reliquie, Brescia, Morcelliana, 2007; Isabel COFIÑO FERNÁNDEZ, “La devoción a
los santos y sus reliquias en la iglesia postridentina: el traslado de la reliquia de San Julián a Burgos”, in
Studia Historica, vol. 25 (2003), pp. 351-378; José Luis BOUZA ÁLVAREZ, Religiosidad
contrarreformista y cultura simbólica del Barroco, Madrid, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones
Científicas, 1990; Antonio DOMÍNGUEZ ORTIS, “Iglesia institucional y religiosidad popular en la
España Barroca”, in La fiesta, la ceremonia, el rito. Coloquio Internacional, Granada, Palacio de la
Madraza, 24-26-IX-1987, Granada, Universidad de Granada, 1990, pp. 9-20; Willian CHRISTIAN,
Religiosidad local en la España de Felipe II, Hondarribia, Editorial Nerea, 1991.
35 Renata AGO, Il gusto delle cose: una storia degli oggetti nella Roma del Seicento, Roma, Donzelli,
2006.
36 María Paz AGUILÓ ALONSO, “Lujo y religiosidad: el regalo diplomático en el siglo XVII”, in
Miguel CABAÑAS BRAVO, Amelia LÓPEZ-YARTO ELIZALDE e Wilfredo RINCÓN GARCÍA (a
cura di), Arte, poder y sociedad en la España de los siglos XV a XX, Madrid, CSIC, 2008, pp. 49-62.
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canonizzazione, trovava posto l’aggregato dei nuovi apostoli. Nello specifico clima di
affermazione di quelle nuove forme di pìetas cristiana, la santità si affermò in maniera
decisa come il modello pedagogico di una chiesa che necessitava di un’azione pastorale
maggiormente pervasiva per dialogare con il maggior numero di fedeli, offrendo loro
l’esempio di quei campioni di virtù37
. Così, un olimpo di nuovi protagonisti della
purezza della fede si aggiunse alla già consolidata tradizione mariana e al novero dei
santi di vecchia istituzione. Un momento in cui quell’imperante “bisogno di sacro”
venne soddisfatto dalle dinamiche di acquisizione delle reliquie38
, un panorama
allargatosi peraltro in virtù delle recenti canonizzazioni39
.
Le vestigia sacre si accertarono come fulcri intorno ai quali l’identità
comunitaria si addensava. Divennero, inoltre, gli elementi di una devozione che in essi
riconosceva l’alto valore taumaturgico e il rimedio contro qualsiasi forma di avversità.
Esempio di ciò furono gli eventi tragici quali terremoti e pandemie in cui la santità
venne invocata come unica possibilità di salvezza, poiché via privilegiata di mediazione
tra uomo e Dio. Nondimeno, il possesso reliquiario permise l’attivazione di nuove tappe
nella geografia dei pellegrinaggi.
Nonostante le travagliate vicende personali della principessa e gli assidui
spostamenti, tipici di quella logica itinerante che caratterizzava il modo di vivere
aristocratico, ella non smise di dispensare donativi alla sua fondazione, neanche quando
alla morte del marito, avvenuta nel 1622, corrispose il progressivo allontanamento da
Militello. La causa di questi spostamenti fu l’inasprirsi di quella lite patrimoniale che
per vent’anni la contrappose al suocero Fabrizio Branciforte.
40
Una vicenda determinante all’interno delle logiche di evoluzione di questa
famiglia, poiché sollecitò l’intervento delle autorità regie che si alternarono
nell’accordare favori all’una o all’altra parte, seguendo il flusso di quella politica
fortemente condizionata dalla vicinanza agli esponenti dei diversi partiti che affollavano
la corte madrilena41
.
L’insieme di queste congiunture sfavorevoli determinò un progressivo
riavvicinamento all’ambiente napoletano, luogo cardine della sua identità. Alla capitale
campana non si legava solo la stagione della giovinezza trascorsa al monastero di Santa
Chiara42
, bensì l’essenza stessa di un’appartenenza che si espresse nel sostegno alle

37 Cfr. Lina SCALISI, La Controriforma […], op. cit., pp. 178-180.
38 Sulla santità meridionale resta fondamentale Giuseppe GALASSO, Santi e Santità, in L’altra Europa.
Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Napoli, Guida, 2009, 71-143; anche Giulio
SODANO, Santi e devozioni nello spazio mediterraneo, in Rosa Maria DELLI QUADRI (a cura di),
Storia e identità storica nello spazio euromediterraneo, Napoli, Guida editore, 2015, pp. 37-50.
39 Si rimanda al già citato Eliseo SERRANO MARTÍN, “La santidad en la Edad Moderna: límites,
normativa y modelos para la sociedad”, in Historia Social, vol. 91, 2018, pp.149-166.
40 Per la disputa patrimoniale Lina SCALISI, “L’eredità dei Branciforti. Conflitti politici e strategie di
successione di una casata aristocratica siciliana agli inizi del Seicento”, in Clio, vol. XXXIII, n. 3, 1997,
pp. 371- 400.
41 Francesco BENIGNO, L’ombra del re: ministri e lotta politica nella Spagna del Seicento, Venezia,
Marsilio, 1992; Idem, “Immagini del valimiento nei testi politici dell’epoca di Calderón”, in José
ALCALÁ ZAMORA e Ernst BELENGUER (a cura di), Calderón de la Barca y la España del Barroco,
Madrid, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, 2001, vol. I, pp.693-706.
42 Charles PIOT, Correspondence du Cardinal de Granvelle (1565-1583), Académie Royale des sciences,
Imprimeur del lettres et des beaux-arts de Belgique, Bruxelles, 1893. Per il periodo napoletano di
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opere pie e nella scelta di avere come padre spirituale il teatino napoletano Onofrio
Anfora43
, colui che la accompagnò nel cammino spirituale e all’occorrenza si occupò
del disbrigo di questioni pratiche, allorché suo delegato in Spagna per questioni
personali44
. Nonostante dopo la morte di Francesco Branciforte, occorsa nel 1622,
Giovanna scelse di fare ritorno a Napoli, anche da lì il suo sguardo non si distolse dal
monastero benedettino, da quel progetto voluto come segno di un’eredità di pietra volta
a testimoniare l’orma del suo passaggio.
Non a caso, ad uno dei momenti di lontananza dalla Sicilia risale una tra le più
cospicue donazioni, dove alla munificenza pecuniaria si accompagnò anche
l’elargizione di un considerevole patrimonio reliquiario. Il 1627, infatti, fu l’anno in cui
scelse di accrescere il patrimonio simbolico del monastero donando ben 27 reliquie45
,
tra cui spicca quella di Santa Rosalia e una parte della sua veste, ottenute direttamente
dal Cardinale Giannettino Doria46
, il “sobre poderoso”
47 arcivescovo artefice della
gloria della patrona palermitana, Santa Rosalia. Un dono dalla particolare valenza
simbolica, poiché solo tre anni prima proprio alla santa del Monte Pellegrino si
affidarono le angosce e le speranze dei palermitani che guardarono al sacro come unica
salvezza contro il dilagare della peste.
A meno di un mese di distanza da questa donazione, ulteriori “duo bagulecta”
vennero consegnate al cellerario e procuratore del monastero di San Benedetto: ivi
contenute il corpo di Santa Benedetta vergine e martire48
, insieme a numerose altre
reliquie49
, dove spicca per importanza una statua di legno indorata di Santa Rosalia con
un pezzo d’osso incastonato in argento50
e altre reliquie ossee della Santa panormita,
impreziosite da lavorazioni in oro e argento51
. Uno snodarsi di doni dietro cui è
possibile riconoscere il disegno di chi aveva eletto il sacro a cifra identitaria e che
adesso, accingendosi ad abbracciare ancor più fortemente questa vita scegliendo di

Giovanna d’Austria si rimanda a Sebastiano DI FAZIO, “Un epistolario inedito di donna Giovanna
d’Austria”, in Lembasi. Archivio storico del Museo di San Nicolò di Militello, vol. I, n. 2, 1995, pp. 9-27.
43 Onofrio Anfora Sorrentino, Generale dell’Ordine, entrò nella Congregazione a Napoli nel 1609,
morendo a Roma nel 1640, Gerarchia Ecclesiastica Teatina, o sia notizia delle dignità, ed impieghi
conferiti dà Sommi Pontefici ed altri gran personaggi à RR. PP. Cherici Regolari detti comunemente
Teatini. Dedicata al Nobile Signor conte Giammaria Mazzucchelli, Brescia, per Marco Vendramino,
1745, p. 89.
44 I scrittori dé chierici regolari detti Teatini d’Antonio Francesco Vezzosi della loro Congregazione, P.I.,
Stamperia della sacra congregazione di Propaganda Fide, 1780, p. 39.
45 Volume superstite di San Benedetto, f. n. n., Le reliquie comprendevano parte del corpo di San Vitale,
parte del cranio di San Severino, parte d’osso del dorso e del braccio di Santa Margherita, parte del cranio
e un altro “ossiculo articularis Sancti Viviani”, ancora, parte della tibia di San Ginesio, dente di San
Valerio, vertebra spinale di San Vittoria, osso dorsale e tibia di San Alessandro, oltre che la Reliquia di
Santa Rosalia e una parte propria della sua veste.
46 Ivi, f. n.n.; proprio al Cardinale Doria si deve il riconoscimento del culto di Santa Rosalia e l’inventio
per il riconoscimento delle sue sacre spoglie. Fabrizio D’AVENIA, “Lealtà alla prova: “Casa”,
Monarchia, Chiesa. La Carriera politica del cardinale Giannettino Doria (1573-1642)”, in Dimensioni e
problemi della ricerca storica, n. 2, 2015, pp. 45-72. Per gli studi sul culto di Santa Rosalia, si rimanda al
fondamentale Sara CABIBBO, Santa Rosalia tra terra e cielo. Storia rituali, linguaggi di un culto
barocco, Palermo, Sellerio Editore, 2004.
47 Sara CABIBBO, Santa Rosalia tra terra e cielo, op. cit., p. 18.
48 11 marzo X indizione 1627, Volume superstite di San Benedetto, f. n.n.
49 Ibidem, Tra cui quelle di San Viviano, San Pascali, Santa Rosana, San Candido, Santa Anastasia, San
Valerio, San Placido e Compagni, San Massimo, San Domenico e San Satornino.
50 Ibidem.
51 Ivi, 12 luglio X indizione 1627, f. 43r.
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accogliere l’abito di terziaria francescana, affidava al monastero benedettino la forza di
un patrimonio che costituiva il suo apparato devozionale domestico52
.
La dotazione sacra, infatti, costituiva una parte fondamentale del patrimonio
familiare. Ne furono esempio l’insieme di quelle reliquie donate da papa Gregorio XIII,
al secolo Ugo Boncompagni, alla principessa di Pietraperzia Julia Dorotea Barresi,
madre di Fabrizio Branciforte e regista delle fortune del casato, nel periodo che
trascorse alla corte di Filippo II insieme al marito Juan de Zúñiga53
, Comendador mayor
di Castiglia. A formare questo apparato era un reliquiario incorniciato d’ebano in cui
erano riposte numerose altre vestigia. Il reliquiario venne poi trasmesso al nipote e,
tramite lui, a Giovanna d’Austria, entrando così far parte del già ricco apparato
benedettino54
, allargatosi ulteriormente quando –appena un mese dopo– vi giunsero le
spoglie di San Martino, San Gregorio e Agostino, San Francesco di Paola, Santa
Caterina da Siena e San Carlo Borromeo55
.
Diversamente dagli inventari post-mortem, in cui gli elenchi non sempre
risultano accompagnati dalle notizie sulla provenienza dei beni, la relazione del
monastero sul possesso delle reliquie appare una fonte di eccezionale interesse poiché
rende nota la rete di relazioni che ruotò attorno ai membri di questa famiglia,
indicandoci, inoltre, il grado di prossimità che si stabilì con alcuni dei personaggi ai
vertici delle cariche civili ed ecclesiastiche.
La “libraria” dei principi
L’intento di accrescere il patrimonio del monastero non si limitò all’esclusivo
possesso reliquiario. La volontà di fare di San Benedetto il cuore della società
militellese si mosse su canali multipli e paralleli; uno tra tutti, la scelta di destinare ai
benedettini il possesso di quella “libraria del principe”, fiore all’occhiello di una corte
che aveva eletto l’erudizione a emblema. All’esistenza della biblioteca, infatti, si
accompagnò la creazione di una stamperia, retta dal tipografo Giovanni Rossi da Trento,
in cui vennero stampate opere quali l’opera del Carrera sugli scacchi (1617)56
, di cui si è
accertata la diffusione anche in Francia. Per la composizione dell’opera il Carrera
utilizzò come fonte anche il manuale sull’arte del gioco degli scacchi del portoghese
Pedro Damiano, pubblicato a Roma nel 1512. Oltre all’importanza che assunsero i

52 Sul tema della devozione domestica si veda Maya CORRY, Marco FAINI e Alessia MENEGHIN (a
cura di), Domestic Devotion in Early Modern Italy, Leiden-Boston, Brill, 2018.
53 Per cui si veda Thomas J. DANDELET, “Spanish Conquest and Colonozation at the Center of the Old
World: The Spanish Nation in Rome, 1555-1625”, in The Journal of Modern History, vol. 69, n. 1, 1997,
pp. 479-511; peraltro oggetto di analisi da parte di Elisa NOVI CHAVARRIA, “Forme e spazi
dell’universalismo ispanico: il processo di integrazione tra le “Nazioni” della Monarchia attraverso la rete
assistenziale (1578-1598)”, in Rivista Storica Italiana, vol. CXXIX, n. I, 2017, pp. 5-46; Maria
Antonietta VISCEGLIA, Roma papale e Spagna. Diplomatici, nobili e religiosi tra le due corti, Bulzoni,
Roma, 2010.
54 Volume superstite di San Benedetto, f. 44r.
55 Ibidem.
56 Pietro CARRERA, Il giuoco de gli scacchi, stamperia Giovanni de’ Rossi da Trento, Militello,
MDCXVII. L’opera è stata dedicata all’illustrissimo ed eccellentissimo Don Francesco Branciforte
Principe di Pietrapertia e Marchese di Militello.
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madrigali composti nel 1617 dal giurista militellese Mario Tortelli, espressione tipica
della lirica barocca curtense57
.
La trasmissione di una biblioteca assumeva il chiaro significato della volontà di
definire una continuità dinastica58
. Nel caso di Giovanna d’Austria, la scelta di destinare
al monastero la biblioteca, impedendo così agli eredi di poterla trasferire in qualsiasi
altro luogo, significava, inoltre, voler lasciare un’impronta chiara del suo passaggio. Un
messaggio forte della volontà di continuare a vivere nel ricordo dei militellesi anche
dopo la morte, trasmettendo loro un’eredità spirituale. La riflessione sulle biblioteche si
sposta così ad un altro livello di analisi, quello inerente al valore simbolico ed
emozionale della trasmissione. Oltre all’indubbio interesse che riguarda i processi di
formazione delle collezioni librarie e l’opportunità di analizzarli alla luce di
considerazioni di genere, aspetto che per motivi di spazio non mi è consentito fare qui59
.
È possibile ricostruire le sorti di questa donazione a partire dai documenti
giuridici, redatti per tentare di trovare una soluzione alla disputa nata dopo la morte di
Giovanna d’Austria (1630), quando la figlia, Margherita d’Austria, decise di trasferire la
biblioteca, smembrandola e vendendone i testi. Il monastero benedettino rivendicò agli
eredi, a Domenico Colonna nello specifico, il possesso della libreria. Ne scaturì una
vicenda complessa, che vide schierarsi il procuratore del monastero, il Rev. Padre Paolo
di Monreale, contro gli eredi di Giovanna d’Austria, accusati di aver privato San
Benedetto di un possesso di gran pregio, contravvenendo alla volontà della testatrice, la
quale con un atto di donazione aveva affidato la biblioteca al monastero60
.
Nonostante una disputa sul possesso di beni librari appaia già di per sé insolita,
specie se inquadrata nel contesto di un feudo secentesco, il dato di eccezionalità risiede
peraltro nella piena consapevolezza che una biblioteca, composta da circa 11.000

57 Vincenzo NATALE, Sulla storia de’ letterati ed altri uomini insigni di Militello nella Valle di Noto,
Tipografia di Francesco del Vecchio, Napoli, 1837, pp. 114-117.
58 Imprescindibile il riferimento agli studi di José Luis Gonzalo Sánchez-Molero, in particolare “La
biblioteca de María de Hungría en España: Corte, Humanismo e Inquisicíon”, in Estudio de Historia
Moderna, n. 22, 2002, pp. 732-765; Fernando BOUZA ÁLVAREZ, Del escribano a la biblioteca. La
civilización escrita europea en la alta Edad Moderna (siglos XV-XVII), Madrid, Síntesis, 1992. Reedición
Madrid, Akal, 2018; Idem, El libro y el cetro. La biblioteca de Felipe IV en la torre Alta del Alcázar de
Madrid, Salamanca, Instituto de Historia del Libro y de la Lectura, 2005.
59 Per gli studi sulle biblioteche e le tipografie il mio rimando va a Adolfo CARRASCO MARTÍNEZ,
“Iñigo López de Mendoza, IV duque del Infantado. Un noble lector y escritor en su círculo humanista”,
en Cuaderno de Historia Moderna, vol. 44, n. 2, 2019, pp. 387-418; Antonella BARZAZI, Collezioni
librarie in una capitale d’antico regime. Venezia secoli XVI-XVIII, Roma, Edizioni di storia e letteratura,
2017; Federica DALLASTA, Eredità di carta. Biblioteche private e circolazione libraria nella Parma
farnesiana (1545-1731), Milano, Franco Angeli, 2010; Elisa NOVI CHAVARRIA, La biblioteca di una
umanista, in Sacro pubblico e privato. Donne nei secoli XV-XVIII, Napoli, Guida, 2009, pp. 167-185;
Concetta BIANCA, “Dal privato al pubblico: donazioni di raccolte librarie tra XV e XVI secolo”, in F.
SABBA (a cura di), Le raccolte private come paradigma bibliografico, Roma, Bulzoni editore, 2008, pp.
535-574; Maurizio VESCO, “Librai-editori veneti a Palermo nella seconda metà del XVI secolo”, in
Mediterranea. Ricerche storiche, vol. IV, n. 10, 2007, pp. 271-298; Raffaella de VIVO, “La biblioteca di
Costanza d’Avalos”, in Annali dell’Istituto Universitario Orientale, n. 38, 1996, pp. 288-302; Paola
MOLINO, L’Impero di carta. Storia di una biblioteca e di un bibliotecario (Vienna, 1575-1608), Roma,
Viella, 2017; Nicola CUSUMANO, “Per una ricostruzione della biblioteca palermitana del Principe di
Torremuzza (seconda metà del XVIII secolo)”, in Quaderni Mediterranea-Ricerche storiche, vol. 16, n.
3, 2011, pp. 1087-1126.
60 ASP, Fondo Trabia, Serie I, b. 459, f. 79r.
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volumi, rappresentasse un possesso da rivendicare, un bene pubblico da reclamare
poiché riconosciuto come simbolo della comune identità militellese61
.
Numerosi cittadini di Militello scelsero di testimoniare dinanzi ai tribunali del
Regno per rendere noto quanto sentito dire a corte dai principi, ovvero, il desiderio che
la collocazione ultima della biblioteca del principe mecenate dovesse essere San
Benedetto, affinché fosse accessibile all’intera popolazione62
. Le testimonianze rese alla
Regia Gran Corte assunsero il tono di un coro che all’unisono si è alzato per dichiarare
il legame dei militellesi alla biblioteca.
Infatti, benché la sistemazione originaria fosse interna al palazzo, le fonti ci
parlano della libraria come di uno spazio accessibile a quanti, senza distinzione alcuna
(dai creati alle personalità di spicco in visita a Militello, così come i parenti dei
servitori), avessero avuto la curiosità di accostarsi a quei beni di pregio provenienti dalle
piazze più importanti del commercio librario, aspetto che le consentì di essere appellata
come “la terza più importante della christianità”
63
.
L’insieme di queste vicende interviene in direzione di netta rottura con la
tradizionale visione delle corti quali luoghi chiusi, in cui la nobiltà visse gli spazi
arroccata in una netta distinzione tra dentro e fuori, tra il palazzo e la società. Emerge
piuttosto l’immagine di una corte dall’alto valore pedagogico, capace di dialogare con la
società mediante la rottura di una frontiera divisiva e la creazione di uno spazio aperto e
funzionale alla condivisione di un comune universo simbolico. Nonostante il volere
della principessa ebbe a scontrarsi con la scelta della figlia, che optò invece per la
vendita e conseguente dispersione della biblioteca, nessun’altro luogo quanto il
monastero benedettino avrebbe potuto accogliere e custodire, secondo l’Asburgo,
l’eredità del governo di una coppia che rivoluzionò un territorio, importandovi gli
elementi culturali tipici di un mondo erudito e scevro da qualsivoglia dimensione
provinciale, che guardava a Madrid come modello culturale di riferimento.
La lettura delle dinamiche di sviluppo di questo istituto monastico, poggiandosi
dunque su una salda letteratura storiografica che ha fatto dei monasteri femminili64

61 Ivi, f. 63r-64v.
62 Gli atti del processo si trovano in ASP, Fondo Trabia, b. 459 e 623. La lista dei testimoni intervenuti
nella causa si trova in Francescbo BENIGNO (a cura di), Tra memoria e storia. Ricerche su di una
comunità siciliana: Militello in Val di Catania, Catania, Maimone, 1995, pp. 221-222.
63 ASP, Fondo Trabia, Serie I, b. 459, f. 88r.
64 Ricco il panorama degli studi sui monasteri femminili. Mi limito qui a riportare Elisa NOVI
CHAVARRIA, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei
monasteri napoletani (secoli XVI-XVIII), Milano, Franco Angeli, 2001; Eadem, “Nobiltà di Seggio,
nobiltà nuova e monasteri femminili a Napoli in età moderna”, in Dimensioni e problemi della ricerca
storica, n. 2, 1993, pp. 84-111; Vittoria FIORELLI, Una Santa della città. Suor Orsola Benincasa e la
devozione napoletana tra Cinque e Seicento, Napoli, Editoriale Scientifica, 2001; Eadem, Una esperienza
religiosa periferica. I monasteri di madre Serafina di Dio da Capri alla terraferma, Napoli, Guida, 2003;
Marina CAFFIERO, “Femminile/popolare. La femminilizzazione religiosa nel Settecento tra nuove
congregazioni e nuove devozioni”, in Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica, n. 2, 1994, pp. 235-
245; Alessia LIROSI, I monasteri femminili nella Roma del XVII secolo, Roma, Viella, 2012; Eadem, Le
cronache di Santa Cecilia. Un monastero femminile a Roma in età moderna (1527-1710), Roma, Viella,
2009; Marcella CAMPANELLI, “Una virtù soda maschia e robusta”. Il monachesimo femminile nel
Settecento napoletano”, in Giuseppe GALASSO e Adriana VALERIO (a cura di), Donne e religione a
Napoli. Secoli XVI-XVIII, Milano, Franco Angeli, 2001; Lina SCALISI, “Obbedientissime ad ogni
ordine”. Tra disciplina e trasgressione il monastero di Santa Lucia in Adrano. Secoli XVI-XVIII, Catania,
TIEMPOS MODERNOS 39 (2019/2) ISSN:1699-7778
Gli investimenti nobiliari nel sacro Silvia D’Agata
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un’altra possibile via di comprensione delle dinamiche sociali che hanno connotato le
realtà cittadine del mezzogiorno moderno, consente, seguendo altri canali, di definirlo
come una realtà complessa e capace di dialogare con il tessuto sociale.
Il monastero di San Benedetto non fu solo il motore dell’economia cittadina,
ma il luogo di formazione e conservazione dell’identità locale. Trasversalità, dinamismo
e complessità emergono quali tratti dominanti di un’istituzione che si è affermata come
centro di emanazione e di redistribuzione delle risorse, di cui si è provato a dare
un’interpretazione ampia, poiché sono emerse come fulcro di un’analisi che ha scelto di
muoversi in direzione di una congiunzione tra piano economico e patrimonio
immateriale. Sebbene infatti la solidità delle risorse economiche assicurasse la
sopravvivenza e l’autosussistenza, solo l’immaterialità di un patrimonio simbolico
avrebbe consentito il radicamento saldo di quest’istituto religioso nel territorio.
Il monastero, assumendo quindi il ruolo di intermediario “doppio”, si attestò
come punto di congiunzione tra società civile e sfera sacra, nonché tra potere secolare e
temporale. È in seno alle considerazioni sulle dinamiche aristocratiche di epoca
moderna che rese evidente come il sacro non solo partecipasse alle dinamiche di
acquisizione e rafforzamento del potere, ma ne costituisse piuttosto l’essenza. A
maggior ragione nel caso di Giovanna d’Austria la doppia illegittima che poiché
naturale di don Giovanni d’Austria –già illegittimo di Carlo V–, non smise mai di
rivendicare la propria appartenenza e di reclamare i privilegi spettanti ad una
principessa di sangue reale e il cui arrivo in Sicilia sconvolse le sorti di un casato.

Sanfilippo Editore, 1998; Eadem, “Monache e gentildonne”, in Storica, n. 19/ 7, 2001, pp. 151-160;
Eadem, “Storie di non devozione nella Palermo del ‘600: Il caso della principessa Anna Valdina”, in Elisa
NOVI CHAVARRIA (a cura di), Comunità monastiche femminili e Istituzioni cittadine, Esi,

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Pubblicato da IL GIORNALE DI ROCAMBOLE

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).

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