Attioni spectaculose ai tempi di Berlusconi – Romanzo di Rocambole Garufi

Attioni spectaculose ai tempi di Berlusconi – Romanzo di Rocambole Garufi

Attioni spectaculose ai tempi di Berlusconi – Romanzo di Rocambole Garufi

Nato come opera teatrale, il romanzo conserva il ritmo vivace dei dialoghi, quasi fosse una messa in scena dentro la fantasia del lettore.

Introduzione

Prefazione

di Santo Fortunato

Per chi ha vissuto solo dalla seconda metà del secolo scorso l’oggi è tempo di emozioni leggere. Fuori dalla mente la ragione che non fa più quadrare i conti. Nell’anima un deliquio senza sussulti, senza nostalgia. piangersi addosso o riderci su,le contraddizioni che ci sono rimaste, riempiono il perimetro del quotidiano che ha ripreso la sua ciclicità senza più l’infinito del viaggio che inizia.

La vita, una necessità da sopperire, bisogna viverla ormai senza traguardi? Se così fosse avremmo scelto l’indecoroso pianto sul passato: il più è fatto, tanto vale ciondolare melanconicamente tra il perseverare della memoria, con buona pace della dignità.

Oppure scavare nelle nostre vecchie emozioni, ribaltandone magari il senso, può essere un esercizio ancora vitale? Certo, il sorriso, anche amaro, resta un elemento dignitoso di ripartenza per chi la memoria vuole assorbirla, piuttosto che usarla come un vicolo o le pareti di una stanza senza aperture. Per camminarci dentro a passare il tempo.

Salvatore Garufi “compone” nel romanzo quest’aria. La parola tesse nell’ordito letterario la sua corposità musicale. Vola le quinte di un localismo pretestuoso per lasciar posto a scenari assonanti. Apre le piazze e le chiese del paese per respirare il suo fiato universale. Cuce le isole dell’arcipelago culturale in un quadro grazioso di una prospettiva rivoluzionaria.

Attraversa, la parola, le ideologie decomponendole in transitu e rimettendole nello spirito dell’ideale umanistico, artigianalmente, senza la sicumera della scienza a ritrovare un’epistemiologia vigorosa, levata dai letti informatici.

Che ci sia di nuovo la possibilità di un viaggio e del suo infinito?!

Aneddoti personali

Recensione

I

Il 20 dicembre 1996, quando sorella notte calò la mannaia, etiam fratel vento scese dalle stelle, mentre dalle stalle saliva zia polvere (che, si sa, come Dio è in tutti i luoghi). Probabilmente, comincia così ogni rivoluzione degna di questo nome.

Di colpo, da una lontana ed invisibile breccia di Porta Pia, irruppe e s’udì l’urlo delle falangi in battaglia, il sonare delle tube, l’incalzare dei cavalli (scalpitanti sugli elmi a’ moribondi), i pianti e gli inni e delle parche il canto.

Purtuttavia, nell’ampia oscurità, che pareva contenere tutto l’enorme mistero dell’universo, venne per gli occhi un forte incantamento (e, se vogliamo, una dolcezza al core), poiché lessi la cabala di grandiose significazioni nel vento che tarantolava le imposte di case che s’aggrappavano su nell’aria, deformate da antiche atrosi; oppur, nel vento che infremitava le lampade e le ombre lunghe sulle vie; o, ancora, nel vento che prese a far batter le ali (come fossero galline agonizzanti) ai manifesti scollati sui muri.

Ovviamente, mi piacque fermarmi a meditare proprio sui manifesti. In semplicità, fumando la mia merit blu. Vi fabbricai una metafora dei dicembri di Militello: quelle carte erano vive ed erano morte. Strepitavano, ma più nulla avevano da far leggere. Erano già corpi morti, quei manifesti. Sentivo i gemiti e gli strazi di voci già morte e fatte cadaveri. Domani, se non c’è sciopero, lo spazzino se li porta via e chi ci pensa più?

I dicembre sono proprio così, a Militello. Crolli, se vuoi, col fracasso di un tetto di lamiera; ma, la tua, non è per nulla una morte eroica, che meriti il ricordo e l’ardua sentenza dei posteri. Ti fai fregare da una morte cosumata secondo consolidate abitudini. A dicembre, i vecchi vanno via a grappoli e subito la loro assenza diventa smenticanza, la loro assenza non si nota più.

Ma, i vecchi non furono sempre vecchi e perciò con loro vanno via pure le donne, i cavalieri, le armi, gli amori, le cortesie, le audaci imprese ed i tanti drammi che fecero inorridire e commuovere il cielo e la terra.

A malapena resta (qualche volta, non sempre) una traccia sbiadita ed estranea, un po’ di bava di lumaca, che si può vedere nella desolata piazza Matrice, magari a mezzanotte, l’ora canonica dei fantasmi, quando (dicunt, in partibus fidelium) un cane, certo l’anima inquieta di un morto, la attraversa mestamente da un capo all’altro.

Fra tutto questo po’ po’ di roba, io non sapevo che pensieri, e che speranze, e che cori, e quali torme di cure fossero nella mente di don Camillo, quella notte. Non so neppure quale allora gli appariva la vita umana ed il fato. Sospetto semplicemente che dopo un chilometro di strada (tanta era la distanza dalla stazione alla piazza), fatta a piedi, suo dì tardo traendo e con in mano il peso di un valigione, riflettesse più che altro sui piaceri del cibo e del riposo.

Arrivò, il nostro prete, quando il cane, dopo aver dimorato una gran pezza in mezzo alla strada, a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, imboccava la salita che porta in piazza Sant’Agata, caracollando e tossendo e sputacchiando.

Sentendo i passi tardi e lenti di un chierico con nel corpo decenni di tortellini, ravioli e cotechini, la bestia tornò sulle sue zampate ed aveva occhi di bragia. Anche don Camillo si fermò a fissarla… perciò i due ristettero come un gruppo scultoreo collocato ai bordi di un presepio napoletano.

La scena naturalmente non apparteneva all’ordine delle cose immutabili. Quella bestia possedeva tempi brevi di cattiveria, come le bestie, appunto. Il suo primo intento, quello di attaccare, durò un niente, il frullo d’ali d’un passero pieno di tic, il tempo di sincerità nel discorso di un politico.

Essa, perciò, si fermò, come a sedere e mirare. Si fermò lì, immota, a sembianza di un dolce demone sognante in perplessità.

– Gesù – disse don Camillo, scrutando ansiosamente il cane, – non sarai mica tu che mi appari sotto le sembianze di un cane?

– E chi me lo farebbe fare, don Camillo, se sto qui dentro al caldo? – rispose l’ironica voce di un Crocifisso, da dentro la valigia.

– Ah, già! Che sciocco! – ammise don Camillo…

Conclusioni

XIV

In quel preciso istante, don Camillo e Peppone entrarono improvvisamente e restarono un po’ incantati, a riguardar Grazia, che con aria mariagorettianesca (vergine, martire e santa) si manducava la carta, per amor di Mario, unica gioiuzza sua.

– Che fai, figliuola? – chiese don Camillo.

– Non lo vedete? – disse Peppone. – Sta mangiando un foglio di carta.

– Sì – disse don Camillo. – Ma, siccome non siamo in Russia, debbo pensare che non lo fa per fame!

– Quella pazza sta distruggendo la prova – rantolò Gegè.

Don Camillo si avvicinò a Grazia e gli mise sotto il mento l’enorme palma della mano destra.

– Sputa qua – le disse.

– Volevo collaborare – disse Grazia, sputando la carta (che, d’altra parte, non le era riuscito di mandar giù).

– Eh, no, sorella cara! – esclamò Gegè. – Compagno Peppone, fratello caro! Costei è un agente del Vaticano!

– Sempre meglio degli agenti delle tasse – disse don Camillo.

– Vuole distruggere la prova che l’eredità della Guarini appartiene a me – disse Gegè.

– Cosa, cosa? – fece don Camillo.

– E’ arrivato il momento di dir tutto… – disse solennemente Gegè. – Elvira Guarini era mia madre!

– Non è vero! – urlò Grazia. – Tu sei figlio di Paolino Caca-caca!

– E di Elvira Guarini – disse Gegè.

– Quello lì è nato morto – disse Grazia.

– Figliuola, sarai pure maestra giardiniera, ma io mica ci ho capito nulla! – disse don Camillo.

– Ora basta! – sbottò Peppone ed agguantò Gegè. – Parla chiaro… e attento a non insultare la memoria della mia Elvira!

Gegè si svincolò e corse da don Camillo.

– Reverendissimo don Camillo, fratello caro! – disse. – Non permetta ad un ateo di picchiare un povero figlio!

– Sono così debole e vecchio! – disse don Camillo, spingendolo verso Peppone.

Eccoli lì! – schiumò Geggè. – Tonaca e camicia rossa di nuovo insieme! Alleati come ai vecchi tempi! Se lei, don Camillo, non legge la lettera che tiene in mano ne renderà conto a Dio!

– Non legga, la scongiuro! – urlò Grazia.

– In quella lettera c’è la vera storia di mia madre – sillabò Gegè.

In quell’istante arrivò don Vittorio, arrivò Pasquale, arrivò Amalia, arrivò Gisa, arrivò Lucia. Insomma, arrivarono tutti, tranne Mario e Lina, che arriveranno fra poco.

– Ha ragione lui! – disse don Vittorio, come chi ha pronto il colpo di scena. – In quella lettera c’è la storia della signora Elvira, perciò vi consiglio di leggerla.

– Muto, scimunito! – saltò su Gisa. – Mi dice il cuore che mi stai regalando una bella botta di veleno!

– Tutta salute per te! – commentò Amalia. – con te il veleno passa liscio!

– La lingua! – esclamò Gisa.

– Lo dici a me? E’ il bue che dà del cornuto all’asino!

– Sta’ tranquilla! Quando ti sposerai le corna restano a te!

– E le ragnatele a te!

A questo punto, entrarono pure Mario e Lina.

– Ora che c’è il permesso del prete parrino don Vittorio, posso entrare… se non disturbo? – chiese Mario.

– Entra, ma sta’ zitto – disse Peppone. – Che di gente che parla turco ce n’è già troppa!

– Grazia, parla chiaro! – troneggiò Lina. – Che ci sta scritto nella lettera?

– Cose brutte, Lina! – disse Grazia. – Cose brutte!

Nel frattempo, don Camillo non se n’era stato con le mani in mano ed aveva letto la lettera. Per cui, alla fine, disse:

– C’è scritto che Elvira Guarini nel dicembre del cinquantanove aspettava un figlio.

– Lo aspettva da mio padre! – esclamò Gegè. – Nella lettera c’è scritto pure che lei voleva nascondere la gravidanza e far credere che il figlio fosse di mio padre e della sua leggittima moglie.

– Oh, padre eterno! – esclamò Peppone.

– Capisco il fastidio – disse don Camillo. – Essere quasi padre di Gegè Bobbina è una faccenda dura da mandar giù!

– A postissimo, compagno Gegè! – disse Mario. – Giunti a questo punto, io credo con sicuranza e sicumera che li abbiamo dentro del pugno, il parrino ed il compagno Peppone traditore! L’eredità spetta a noi!

– E come? – si stupì Grazia. – Sei contento della notizia? Ed io che per nasconderla quasi quasi facevo il supremo sacrificio!

– Con Gegè m’intendo meglio – spiegò Mario.

– Sic transit gloria mundi, caro Peppone! – commentò don Camillo.

– Ma, Mario! – piagnucolò Grazia. – Gegè è un porcaccione che voleva il mio corpo!

– E tu… daglielo! – sbuffò sottovoce Mario.

E a Gegè:

– Rispetta la sua anima, però! Che la sua anima debba restare libera!

– Come le corna che ci hai in testa! – sbottò finalmente Gisa.

Per la prima volta, il vocione di Peppone sembrò quasi un sussurro:

– Non voglio più sentir parlare di quei soldi… Andiamo via, don Camillo.

Per la prima volta, la vocetta di don Vittorio si fece quasi tonante:

– Restate, invece! Vi garantisco che questa gente non prenderà una lira!

– Bravo, don Vittorio! – applaudì Lina. – Bisogna distruggere la lettera.

– Non ce n’è bisogno – disse don Vittorio. – Anch’io ho il mio pezzo di carta.

– Un’altra lettera? – chiese don Camillo.

– Non proprio – rispose don Vittorio. – E’ una dichiarazione. L’originale è depositato dal notaio.

– Che dice? – chiese don Camillo.

Don Vittorio tirò giù un sospiro.

– Mi costa un poco – disse. – Ma, andiamo avanti… Dopo il colloquio col vice sindaco, donna Elvira aveva paura che succedesse proprio ciò che è successo… Ecco, qui c’è scritto che il figlio… sono io.

– Non è vero! – urlò Gegè. – Il bambino nacque morto.

– Invece, no! – ribattè don Vittorio. – Per salvare l’onore, mia madre mi affidò ai Leonardi, che mi accolsero come un figlio.

– Perché non l’ha detto prima? – domandò Peppone.

– Perché dovevo dar il via ai pettegolezzi? – domandò don Vittorio.

Sopravvenne Patrizia e trovò una scena che la lasciò perplessa.

– Tutto bene? – chiese Patrizia.

Silenzio di tutti.

– Tutto bene, senatore? – chiese ancora Patrizia.

– A meraviglia, compagna! – rispose Peppone, prendendo a braccetto don Vittorio. – Venga, don Vittorio… o ti debbo chiamare figlio?… Bah, ci abitueremo… Andiamo dal notaio e mettiamo a posto le carte per il mio lascito…

A don Camillo non restò che rivolgersi al Crocifisso.

– Così è finita bene – gli disse. – Almeno, riguardo all’eredità… Mi resta un dubbio, però! Perché mai, poi, i comunisti non ci sono andati dal Vescovo a far la rivoluzione?

Il Crocifisso sorrise e dall’alto dei Cieli rispose:

– Perché dovevano correre a casa, don Camillo. C’è la partita alla televisione: Italia-Germania… come ai vecchi tempi, nel settanta.

Finito di stampare

nel gennaio 2014

da

Il Garufi Edizioni s.r.l.

Catania

Voto

Video

Correlati

Citazioni

Note

/ 5
Grazie per aver votato!

Pubblicato da IL GIORNALE DI ROCAMBOLE

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).