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Stampe e bozzetti nel Settecento e nell’Ottocento (appunti sulle collezioni presenti a Militello Val Catania. Prima che il tutto venga travolto dall’ignorante supponenza che impazza in Città)

Stampe e bozzetti nel Settecento e nell’Ottocento (appunti sulle collezioni presenti a Militello Val Catania. Prima che il tutto venga travolto dall’ignorante supponenza che impazza in Città)

Cesare Landi

https://www.youtube.com/watch?v=3lfH5KkKtiQ

Un articolo della Fondazione Memofonte onlus

Studio per l’elaborazione informatica delle fonti s

torico-artistiche

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www.memofonte.it

L’INCISIONE ITALIANA DELL’OTTOCENTO

(Giovanni Fattori)

Lamberto Vitali, «Domus», 28, aprile 1930, pp. 32-3

4, 70.

Il   Settecento   è   il   secolo   dei   pazzi   per   l’incisione

.   Grandi   collezionisti   tengono

corrispondenza  con  mezz’Europa  per  scovare  un  fogli

o  raro  che  manca  alla  loro  raccolta;  amatori

come  il  Conte  di  Caylus,  letterati  come  l’Argarotti

,  belle  dame  e  favorite  come  la  Pompadour

adoprano con disinvoltura la punta e la lastra e ri

escono ad imbroccare qualche stampa ben saporita.

Editori e mercanti non si contano e il commercio de

lle incisioni, dalle umili immagini di divozione

ai fogli più preziosi, è prospero come non mai.

Il Settecento è il secolo che ha con ricerche pazie

nti e accanite rinnovate le tecniche; i nuovi

processi – il pointillé – godono subito della più g

rande fortuna e le loro risorse sono sfruttate fino

 in

fondo da una legioni d’artisti. 

E, per l’Italia, il Settecento è ancora un secolo f

elice: nella stampa di riproduzione il Faldoni

e  il  Pitteri  mettono  a  servizio  del  loro  gusto  inte

rpretativo  una  sbalorditiva  perizia  di  bulinisti.

Nell’incisione  originale,  bastano  i  nomi  dei  tre  Ti

epolo  –  G.  Battista,  Domenico  e  Lorenzo  –  con

l’esuberante  fantasia  decorativa  delle  loro  composi

zioni,  del  Canaletto  con  le  vibrazioni  argentine

delle  sue  vedute  di  Venezia  e  del  Brenta,  del  Bello

tto,  del  Longhi,  del  Piranesi,  acquafortista

peritissimo  e  immaginoso,  tragico  trasfiguratore  de

i  monumenti  dell’antichità  romana.  Ed  è

d’italiani tutto un gruppo di incisori, quello del

Bartolozzi e della scuola, che in Inghilterra tradu

ce

la grazia superficiale e un po’ dolciastra dei «fan

cy subjects» e gode sul finire del secolo di onori

e

di successi non soltanto artistici.

Ma  a  questo  punto  gli  italiani  sembra  che  abbiano  r

otto  i  loro  torchi;  c’è  sì  un  gruppo  di

bulinisti,  quello  che  discende  dal  Morghen  e  dal  Lo

nghi,  che  si  delizia  a  tradurre  sulla  lastra  con

freddo  e  meccanico  mestiere  le  grandi  composizioni

pittoriche  e  continua  a  vegetare,  sempre  più

fiaccamente, ma pure fra gli osanna dei contemporan

ei, per buona parte dell’Ottocento. Ma questa è

arte  morta  prima  di  nascere  e  non  conta  se  non  come

  documento  dell’incomprensione  generale:  la

ripresa di vitalità dell’incisione italiana verrà d

a un’altra parte.

Mentre il progresso dei mezzi meccanici dava il col

po di grazia all’incisione di riproduzione

– quella che diffondeva e popolarizzava a migliaia

di fogli le opere dei pittori, degli scultori, degl

i

architetti -, l’arte italiana si rinnovava e da que

sto rinnovamento anche l’incisione originale usciva

rinata.  Essa  tornava  a  chi  forse  aveva  poca  dimesti

chezza  con  i  procedimenti  tecnici,  ma  a  chi  in

compenso aveva una sua parola da dire, una sua emoz

ione da manifestare: questo in arte è sempre

stato l’essenziale.

In chi si occupa di stampe – di farle, di commentar

le, di raccoglierle – c’è spesso la mania di

credersi  e  di  voler  farsi  credere  il  fortunato  iniz

iato  a  un  culto  segreto  e  misterioso,  al  quale  il

profano non può accostarsi se non dopo aver dato lu

nga prova d’esserne degno. Io non conosco cosa

più  ridicola  di  questa:  bisogna  dire  ben  chiaro,  a

dispetto  di  quelli  che  si  credono  i  custodi  del

tempio, che l’incisione deve naturalmente esser giu

dicata come un’altra qualsiasi opera d’arte, come

un  dipinto,  come  una  scultura.  Non  c’è  proprio  ness

un  segreto  da  scoprire,  tanto  è  vero  che

l’incisione originale così intimamente legata alla

pittura e alla scultura che la sua storia s’indenti

fica

sempre  con  quella  delle  arti  maggiori.  Così  a  propo

sito  dell’incisione  italiana  dell’Ottocento,

bisognerebbe  parlare  dei  movimenti  pittorici  contem

poranei,  dei  macchiaiuoli,  dei  romantici

lombardi  ecc.;  l’origine  è  una  sola  e  tanto  nell’un

o  come  nell’altro  campo  i  protagonisti  sono  gli

stessi  e  quello  che  essi  hanno  detto  nella  tela,  l’

hanno  poi  ripetuto  nella  lastra,  ma,  naturalmente  –

qui soltanto sta la differenza – con un modo di esp

ressione

 appropriato alla materia.

Nel  dar  conto  in  breve  della  produzione  grafica  del

  secolo  passato,  non  rifarò  la  storia  dei

movimenti  rinnovatori;  ognuno  di  noi  l’ha  ben  prese

nte  ormai,  dopo  questi  anni  di  tenace

rivalutazione  ottocentesca.  È  meglio  dunque  parlare

  delle  maggiori  figure,  per  cui  l’onore  italiano

fu salvo; con quest’ultima frase voglio dire che ne

l suo complesso l’incisione italiana dell’Ottocento

mal  regge  in  confronto,  ad  esempio,  con  la  mirabile

  fioritura  francese,  che  s’inizia  con  Ingres  e

Delacroix  per  chiudersi  con  Gauguin  e  Toulouse  Laut

rec  e  che  conta  fra  mezzo  alcuni  dei  più

completi e complessi incisori di tutto il passato.

Una  figura  si  stacca  dalle  altre  e  le  avanza  di  gra

n  lunga:  quella  di  Giovanni  Fattori.  Altri

certo  fu  più  esperto  di  lui,  se  per  perizia  s’inten

de  sfruttamento  paziente  dei  piccoli  segreti  della

vernice  e  della  morsura,  ma  nessuno  del  suo  tempo  d

isse  una  parola  più  definitiva,  con  una  forza

così  rude  e  sincera.  Delle  centottanta  lastre  ch’eg

li  lavorò,  non  ve  n’è  una  sola,  credo,  fatta  con  il

proposito  di  esporla  o  di  farne  commercio,  tant’è  v

ero  che  di  molte  egli  non  ne  curò  nemmeno  la

stampa, sì che ci giunsero inedite o quasi dopo la

sua morte. 

Come  nelle  tavolette,  qui  il  Fattori  si  abbandonò  a

  un  intimo  colloquio  e  diede  certo  il

meglio di sè stesso con assoluta sincerità; vi ripr

ese vecchi motivi, che tornano insistenti in tutta

la

sua opera, e sviluppò brevi, sintetici appunti dei

suoi taccuini. Ed egli .espresse ancora una volta i

l

mondo  che  sempre  gli  fu  caro:  quello  della  natura  l

ibera  e  selvaggia  della  maremma  o  calma  e

serena  della  campagna  toscana.  Vera  forma  di  natura

  egli  stesso,  dalla  natura  egli  estrasse,  come

ogni  artista  di  classe  superiore,  l’essenziale;  cos

ì  la  sua  opera,  pur  con  aspetti  di  inconfondibile

regionalità, assurse  all’assoluto. Nel bove bianco

aggiogato alla fatica dell’aratro  e del carro, nell

a

gabrigiana  dell’incedere  solenne  e  maestoso  come  qu

ello  d’una  divinità  agreste,  nel  cavallo  brado

pascente in maremma fra stoppie e acquitrini, nei v

iottoli solitari di campagna ombreggiati da siepi

di  verdura,  egli  trovò  i  soggetti  semplici  e  elemen

tari  ma  eterni:  e  nella  loro  rappresentazione,

spoglia d’ogni pecca anedotistica e letteraria e co

ndotta con un segno nervoso, che non ha niente di

piacevole  e  di  facile,  ma  veramente  scolpisce  e  sca

rnisce,  egli  seppe  fare  del  bove  toscano  dalle

lunghe corna,

il bove, e, della stepposa campagna maremmana,

 la campagna.

Per convincersene, s’ha da guardare, ad esempio, i

«Bovi al giogo» dove le sagome bianche

delle  bestie  s’incidono  sul  fondo  nero,  quasi  uscis

sero  da  una  teoria  d’animali  d’uno  stilizzato

bassorilievo egizio.

E  di  come  sia  risolto  il  problema  della  luce,  con  u

n  segno  spezzato  virgolato,  che  ricopre

tutta la lastra così da dare una vibrazione argenti

na e splendente – che ricorda, se pure con maggiore

intensità  e  crudezza,  quella  del  Canaletto  –  testim

onia  in  modo  efficace  l’acquaforte  dei  «Bovi  al

carro  (In  maremma)»,  dove  alla  massa  bianca  dei  buo

i  e  dei  covoni  di  grano  fa  contrasto  il  grigio

del cielo, percorso dall’accavallarsi delle nubi te

mporalesche, e il grigio della campagna squallida e

sterposa.

Molto care mi sono anche le piccole lastre, dove il

 Fattori è più tenero e dove la sua forza si

piega a gentilezze squisite; riproducono esse certi

 deserti viottolini di campagna, fiancheggiati dagl

i

ulivi o chiusi dai gran fiori neri dei pini italici

, colti in quell’ore meridiane, in cui il paesaggio

 si fa

grave  e solenne, o di mattina, quando tutte le cose

 hanno la breve levità della giovinezza. È forse,

questo aspetto idilliaco, dei meno noti e dei più i

nsospettati dell’opera grafica del Fattori.

Ed  è  giusto  aggiungere  che  tecnicamente  il  Fattori

non  fu  figlio  di  nessuno,  perché,  come

tutti  gli  artisti  originali,  il  suo  linguaggio  graf

ico  non  lo  chiese  in  prestito,  ma  se  lo  trovò  da  sè

,

logico  e  naturale  modo  d’espressione.  Nè  ricercò  ma

i  nella  lastra,  pur  traducendovi  spesso  le  sue

opere pittoriche, effetti che fossero in contrasto

con la natura del bianco e nero, che anzi comprese,

o, meglio, intuì, come ben pochi altri incisori ita

liani dell’Ottocento. E questo, anche, agli occhi d

e i

puristi, deve esser un titolo di merito.

Nota.

  Nella  serie  d’articoli,  che  s’inizia  con  questo  nu

mero  di  «Domus»,  si  parlerà

dell’incisione  italiana  dell’Ottocento  e  sopratutto

  di  quella  d’oggi.  Presuppongo  nei  lettori  una

conoscenza tecnica dei processi d’incisione, almeno

 generica. Certo non mi sarebbe qui consentito

di  spiegare  cosa  siano  l’acquaforte,  la  punta  secca

,  la  maniera  nera,  l’acquatinta,  il  bulino,  la

litografia ecc.; ma chi vorrà orientarsi in questa

materia e averne qualche elementare ma sufficiente

nozione, potrà consultare il manuale di Pier Antoni

o Gariazzo «La stampa incisa » (Ed. S. Lattes &

C., Genova, lire 30).

Storie generali italiane dell’incisione italiana pu

rtroppo non esistono finora; l’editore Treves

annunzia  di  prossima  pubblicazione  un  volume  su  que

sto  argomento  di  Augusto  Calabi.  Intanto

raccomando  due  ottime  monografie,  chiare,  precise,

bene  illustrate:  quelle  di  Paul  Kristeller

«Kupferstich und Holzschnitt in vier Jahrhunderten»

 (Ed. Bruno Cassirer, Berlino, 1921) e di A. M.

Hind  «A  history  of  engraving  and  etching»  (Ed.  Cons

table  &  C.,  Londra,  1923).  La  ricca

bibliografia contenuta specialmente nel volume dell

’Hind è di prezioso aiuto a chi vuole iniziarsi a

questi studi.

Consigli  per  la  formazione  di  una  raccolta  di  stamp

e,  come  è  facile  capirlo,  non  se  ne

possono dare: e, per quanti se ne diano, chi cominc

ia deve sempre pagare il suo noviziato. Ma ecco

cosa mi sentirei di raccomandare:

Limita il tuo campo. È finito il tempo felice per i

l collezionista: il tempo dei Mariette e dei

Crozat, del Malaspina e dei Lanna. Una sola incisio

ne primitiva italiana, per esempio, può assorbire

le tue risorse presenti e future. Occorre quindi ch

e tu rinunzi all’idea di farti una grande, completa

raccolta, se non disponi di mezzi eccezionali.

Dedicati sopratutto alle stampe dei pittori incisor

i. Sono sempre questi i fogli che danno un

più  alto  godimento.  Non  potendo  avere  una  pinacotec

a,  avrai  almeno  una  raccolta  di  incisioni  dei

tuoi artisti; il tuo piacere sarà più raffinato e s

quisito.

Sii uomo del tuo tempo. Sappi prevedere oggi quali

saranno i classici domani. Esercita il tuo

spirito critico e fa una scelta ragionata e priva d

i preconcetti. Lascia sorridere: verrà il momento c

he

tu avrai ragione.

Se raccogli stampe antiche, scegli soltanto gli ese

mplari di fresca tiratura e in stato perfetto.

Una prova  fiacca è  appena un’ombra di quella  che do

vrebb’essere; priva dei margini o mutila non

ha nessun valore commerciale.

Rispetta la stampa. Custodiscila nelle cartelle che

 la difendono dalla luce.  Il sole è un lento

ma inesorabile distruggitore della carta e dell’inc

hiostro.

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Pubblicato da terrazze.info - TERRAZZA "MARIO TORTELLI"

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).

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