
Carboneria e Rivoluzione: Bronte 1860
di SALVATORE PAOLO GARUFI TANTERI
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La composizione sociale della carboneria sfiorava il mondo emergente dei possidenti. Ma, era soprattutto fra i professionisti che venivano reclutati i quadri: ufficiali, avvocati, medici, preti, frati, letterati, professori, e così via. Da questa piccola-borghesia sono nati i movimenti rivoluzionari e i colpi di stato del XX° secolo.
Oltre a questi, c’erano pure alcune donne, dette Sorelle Giardiniere, con la funzione di diffondere gli ordini, eludendo i controlli della polizia.
Come in ogni società segreta che si rispetti, non a tutti gli adepti erano note da subito le finalità ultime della setta. Alla conoscenza si arrivava per gradi.
Nel 1° grado si era soltanto apprendisti. Il nuovo cugino (così si chiamavano fra di loro) era un novizio pagano, smarritosi nel buio della foresta. La simbologia della foresta era legata a quella della morte-rinascita, poiché la carbonizzazione del legno implica l’idea della combustione e della trasformazione attraverso il fuoco. In altre parole, si trattava di una purificazione che faceva diventare il novizio (cioè, il legno) un agente della rivoluzione (cioè, il materiale per scatenare l’incendio).
Quindi, quando aderiva alla società, l’apprendista andava a cercare la luce nel Tempio della Virtù, dove con diffidenza si viene accolti, per cui, spogliato dei metalli e accompagnato nel gabinetto di riflessione, veniva interrogato sulle ragioni della sua richiesta.
In seguito, l’adepto veniva condotto a fare i tre viaggi simbolici. Era sottoposto, cioè, a prove tendenti a provarne il coraggio, per essere pronto a prestare il giuramento, con il quale si impegnava a mantenere il segreto, a soccorrere ed aiutare i Cugini in difficoltà e ad essere sempre a disposizione dell’Ordine.
A questo punto, egli poteva assumere un nuovo nome, scelto fra quelli della tradizione greco-romana, oppure fra i simboli di lotta contro la tirannide (questo, sia per confermare la morte rituale, sia per agevolare la lotta politica clandestina).
Così, si diventava parte della famiglia carbonarica, che è una sola in tutta la terra. Ciò implicava che al suo interno erano tutti fratelli, senza alcuna divisione sociale.
Nel primo grado si propagandavano idee vagamente umanitarie e si coltivavano attività filantropiche. Le cerimonie, dunque, rivelavano una derivazione dalla simbologia cattolica. Le parole sacre erano quelle religiose (fede, speranza, carità). C’era, inoltre, il culto dei Santi (addirittura, San Teobaldo era il patrono dei carbonari). La setta, perciò, poteva essere collocata nel filone culturale del cristianesimo esoterico, come quello degli Illuminati di Baviera, o quello giovanneo (dove si credeva ad una iniziazione cristiana originaria, fondata su una rivelazione segreta di Gesù, trasmessa per via orale ai discepoli e, quindi, a una catena di iniziati).
Altrettanto evidenti erano le derivazioni massoniche, che avevano una simbologia legata ai costruttori di cattedrali, per cui all’entrare di un nuovo adepto la pietra grezza deve essere sgrossata e squadrata. Si possono, inoltre, fare puntuali paralleli tra i linguaggi carbonaro e massonico: apertura dei lavori = apertura dei travagli, cugini = fratelli, pagano = profano, pezzo di fornello = pezzo di architettura…
Il 2° grado, detto pitagorico, era quello dei maestri. Da qui si cominciava a sapere. Ma, c’era l’obbligo del più assoluto riserbo, pena la morte (e probabilmente fu questa la causa della scarsa conoscenza che si ha della storia della setta). I maestri parlavano di costituzione, di indipendenza e libertà, di lotta contro il dispotismo politico.
Il rituale prendeva spunti dal grado diciottesimo della massoneria di rito scozzese di Sovrano Principe Rosa-Croce. In particolare, partendo dal sacrificio di Cristo, alla simbologia cristiana si sovrapponeva quella del ciclo di morte e rinascita vegetale: foglie, terra, ceppo, ciocco, fascina, ascia, scala di legno. Si passava, poi, alle parole di felce e ortica, piante che mescolate alla terra separano gli strati di legna, per favorire la carbonizzazione. Infine, c’è da dire che i debiti lessicali verso la massoneria vengono confermati dall’idea carbonara del gomitolo di filo, simbolo muratorio della catena d’unione, che può essere anche una catena dei diritti naturali, oppure un modo per legare il tiranno.
Il 3° grado era quello di gran maestro. Inizialmente nato come grado amministrativo, era divenuto il grado operativo del progetto finale dell’Ordine, nel quale si proclamava l’aspirazione a creare, con la restituzione all’uomo della purezza primordiale, un regime di eguaglianza sociale, nella forma politica della Repubblica. Cosa che implicava la lotta contro la superstizione religiosa e il dispotismo del principe, la spartizione delle terre e la promulgazione della legge agraria.
Qui si vede l’influenza degli Illuminati Bavaresi e di Gracchus (nome di battaglia di Francois-Noël) Babeuf, dai quali fu pure ripreso il programma del partito comunista. Nella Francia rivoluzionaria, come s’è già visto, Babeuf e Filippo Buonarroti (i due si erano conosciuti in carcere) avevano elaborato alcune teorie estremiste ed utopistiche, allora di natura rurale e precapitalistica. A loro parere, la società doveva essere costituita da piccoli coltivatori e da artigiani, il cui prodotto doveva essere messo in comune e ridistribuito con criteri egualitari.
Tale comunanza doveva essere garantita dalla dittatura di un ristretto numero di virtuosi (da dove, poi, venne l’idea della dittatura del proletariato, gestita dal Comitato centrale del partito comunista). Le parole sacre del rituale del terzo grado, quindi, erano Libertà e Uguaglianza, per cui il cittadino che amava la Patria lottava per questi valori e per la costituzione.
In ultimo, il 4° grado era quello di Grande Eletto. Questa figura presiedeva una vendita centrale, ai cui ordini c’erano venti vendite periferiche.
L’organizzazione carbonara, infatti, era molto articolata. I nuclei locali venivano chiamati baracche; gli agglomerati più grandi vendite. I rappresentanti di più vendite centrali costituivano un’alta vendita. A loro volta, i rappresentanti delle alte vendite formavano la vendita suprema.
Il giuramento dei grandi eletti era questo:
Io giuro in presenza del Gran Maestro dell’Universo e del Grande Eletto, buon cugino, di impiegare tutti i momenti della mia esistenza a far trionfare i principi di libertà, di uguaglianza e di odio alla tirannia, che sono anima di tutte le azioni segrete e pubbliche della rispettabile Carboneria. Io prometto, se non è possibile di ristabilire il regime della libertà senza combattere, di farlo fino alla morte.
Lo Statuto della Carboneria stabiliva:
Art. 1 – Tutti i Carbonari si chiamano Buoni Cugini; di qualunque paese essi siano, e dovunque trovinsi, sono sempre membri dell’ordine cui appartengono, e fanno parte integrale della società, poiché la Carboneria forma una sola famiglia, essendo unico l’oggetto a cui tende.
Art. 2. – La Carboneria è un ordine che ha per oggetto la perfezione della società civile.
Art. 3. – In qualunque paese dove esistono dieci Buoni Cugini Carbonari alla meno, potrà installarsi una vendita regolare.
Art. 4. – La vendita non è altro che la riunione dei buoni cugini Carbonari.
Art. 5. – La vendita adotta un titolo distintivo, ed il suo paese assume il titolo di Ordine: tutte travagliano sotto gli auspici del glorioso S. Teobaldo, la cui festa si celebra il 1° luglio.
Art. 6. – Ogni vendita di qualunque grado avrà indispensabilmente sette dignitari, cioè Gran Maestro, primo assistente, secondo assistente, oratore, segretario, tesoriere, archivista. Possono avere degli ufficiali, che saranno in appresso nominati. I primi tre dignitari si chiamano Luci.
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Pur nascendo nei paesini nascosti nella provincia siciliana più sperduta, nella massoneria si ritrovò una lunga schiera di silenziosi commis, classe che è poi diventata il vento anonimo della storia contemporanea.
Le vicende che videro protagonisti questa genìa di intellettuali dimostrarono quanto sia falso ciò che s’è creduto vero: la Sicilia borbonica non fu per nulla un mondo immobile, chiuso in un feudalesimo mai messo in discussione.
A Militello, per esempio, era molto presente e potente la categoria dei professionisti. Quando, dopo l’arrivo dei garibaldini, fu votata la decadenza del regime borbonico, in una popolazione che non arrivava a diecimila abitanti, si trovarono a dare il voto favorevole 28 sacerdoti, 6 padri benedettini, 15 avvocati, 12 medici, 5 farmacisti, 4 architetti e 3 notai.
Molti dei professionisti che formavano le classi dirigenti delle città provenivano dal Collegio Capizzi di Bronte, che nell’Ottocento e per buona parte del Novecento, insieme al Pennisi di Acireale, fu un pilastro dell’educazione isolana.
Infatti, divenuto laico dopo l’Unità d’Italia, col nome di Real Collegio Capizzi, ospitò personaggi destinati a farsi un nome, nella cultura e nella politica. Il giovane Luigi Capuana, fra gli altri, lì compose i primi versi e, in anni più recenti, vi studiò Marcello Dell’Utri, raffinatissimo bibliofilo e discussa testa pensante della politica di Silvio Berlusconi e di Forza Italia.
L’edificio stesso era simbolo della sua funzione. Aveva una solennità orizzontale e perentoria – posto come fu al centro della città -, incastonata negli angoli di pietra lavica.
Le pretese di eleganza poggiavano sul gioco delle linee grigio-scure, che incorniciavano porte e finestre. Tutto in esso dava l’idea di una solidità inattaccabile dalla povertà del contesto.
Era stato pensato così, col nome di Reggie (sic) Pubbliche Scuole di Educazione, dal Venerabile don Ignazio Capizzi e costruito in soli quattro anni, dal 1774 al 1778.
Ma, vista la generale tetraggine che ha dato ai collegiali nei secoli della sua esistenza – compreso a chi scrive -, parrebbe che ogni sua pietra sia stata tirata fuori da uggiose giornate di pioggia.
Quando, però, don Alfio Natale vi portò il figlio Vincenzo, l’istituzione viveva il suo momento d’oro.
“Grazie all’illuminata protezione di sua maestà Carlo III di Borbone” gli disse, infatti, il Rettore, “il nostro Collegio è diventato un faro del sapere. Nei pochi anni della sua esistenza ha già potuto conquistarsi un’acclarata fama, come centro di sapienza e dottrina. Questo per il rigore delle Regole, che sono quelle volute dal suo Fondatore. Esse prevedono obblighi e doveri, sia per i convittori, che per i professori. Latino, greco ed eloquenza sono per noi le materie regine e disponiamo di un ricco patrimonio librario, in parte proveniente dalla collezione personale dello stesso don Capizzi.”
Il prete non esagerava.
Gli ottimi professori che vi insegnavano ben presto permisero a Vincenzo di acquisire uno stile essenziale, chiaro ed improntato alla concretezza; in linea con canoni illuministici ed in sintonia con l’ambiente di appartenenza.
A Bronte, però, Vincenzo Natale, ebbe pure il primo contatto con personaggi appartenenti alla galassia dei movimenti genericamente definibili comunisti.
Aveva sedici anni e un giorno aveva avuto il permesso di uscire dal Capizzi, per andare a studiare nella casa di campagna del suo amico Spartacus, in contrada Colla, poco a sud del paese.
Era il giugno del 1797. Le piante, gli animali, le pietre e la stessa polvere sui mobili sembravano immobilizzati dalla cappa del sole. Non c’era un filo di vento e persino l’odore del gelsomino che si arrampicava sul muro esterno, vicino alla finestra socchiusa, aveva un qualcosa di dolciastro, di materia in decomposizione.
I due ragazzi si trovavano impegnati nello studio per gli imminenti esami e quel posto rappresentava l’unico punto, si fa per dire, di refrigerio.
Aspettavano il loro professore di latino e greco, padre Nunzio Longhitano, che doveva chiarire alcuni passi oscuri del libro VI delle Guerre del Peloponneso di Tucidide. Una caraffa di limonata sul tavolo rappresentava l’ultima difesa contro una sete inestinguibile.
D’improvviso sentirono lo svolazzare di una tonaca e il prete calò su di loro come un falco sulla preda.
Teneva in mano un foglio, probabilmente una lettera appena arrivatagli.
“Hanno condannato a morte Babeuf!” disse, senza salutare.
Vincenzo lo guardò perplesso. Non avrebbe dovuto esserci alcun motivo, per un sacerdote, di agitarsi tanto per la morte di un rivoluzionario ateo.
“So che era un senza Dio…” disse.
“Era un giusto!” ribatté padre Longhitano, con gli occhi fuori dalle orbite.
Voi parlate così?” si stupì Vincenzo. Ma, proprio allora, decise di non stupirsi mai più, di nulla.
“La storia racconterà che a Parigi c’è stata anche la rivoluzione del Movimento degli uguali” interloquì Spartacus. “E’ fallita, purtroppo. Sapevo del processo; ma, speravo che non si arrivasse a tanto. François Gracchus Babeuf, Filippo Buonarroti e Darthé sono e resteranno la parte migliore della Francia libera!”
“Ci avrei scommesso che anche tu eri rivoluzionario.” disse sorridendo Vincenzo.
“Ambedue facciamo parte del Cenacolo.” confermò padre Longhitano.
Vincenzo lo guardò con aria interrogativa.
“Il modello è quello del Comitatodi Babeuf…” aggiunse Spartacus.
“Non andare oltre!” lo interruppe bruscamente Vincenzo.
Il suo viso, però, si addolcì subito dopo; e, rivoltosi al sacerdote, prese un’espressione cordiale. “Padre, io non so se sono ancora pronto per sentirvi…”
Gli si avvicinò e gli prese la mano, portandosela sul cuore. “Anch’io credo che Babeuf fosse un illuminato. Ma, la sua strategia non è approdata a nulla. La rivoluzione e la prudenza sono due guerrieri che debbono combattere insieme, come gli Aiaci.”
Ciò che non sapevano, né padre Longhitano né Spartacus, era il fatto che Vincenzo si era già documentato sull’azione e sulla struttura del Comitato Insurrezionale del Movimento degli Eguali. Ma, per una legge personale, che non trasgredì mai, lasciava trasparire pochissimo di ciò che pensava e nulla di ciò che intendeva fare.
In questo senso, egli, molto più dei suoi interlocutori, era coerente con la mentalità del Comitato di Babeuf, rigorosamente clandestino e al vertice di una piramide organizzativa, i cui membri per lo più non si conoscevano fra di loro.
3
Più di sessant’anni dopo, con Vincenzo Natale ormai morto, la Storia si incaricò di confermare le potenzialità di disastri che erano capaci di combinare gli intellettuali rivoluzionari partoriti dall’ambiente del Capizzi.
Infatti, la lotta contro i privilegi feudali nel Regno delle Due Sicilie si concluse nel caldo agostano del 1860, quando nella piazza di Bronte irruppe una rivoluzione senza pietà del prossimo e senza timor di Dio.
Era la mattina del due, giovedì, e quel giorno i benestanti capirono che ci si può fare davvero male, se si cade dai piani alti della società. La folla si muoveva come un elefante impazzito, invincibile e completamente sorda ai richiami del suo padrone, che da qualche anno era il mazziniano avvocato Nicolò Lombardo.
“Costui” testimoniò Benedetto Radice, coevo scrittore brontese, “era a capo di quel partito definito comunista, che nell’impazienza degli oppressi aveva sperato di cogliere la palla al balzo, per recare nelle sue mani il potere.”
Il comunismo, ovvero la spartizione della terra, era un ideale che la vecchia setta dei carbonari aveva posto come ultima, segretissima meta. Ora, per arrivarci, in ogni città ed in ogni villaggio della Sicilia venivano agitati gli argomenti più adatti a suscitare la rivolta popolare.
E, dove ci sono rivoluzioni, ci sono pure i personaggi come l’avvocato Lombardo. Essi, in genere, sono uomini in perfetta buonafede, che vogliono un mondo migliore. Ma, peccano di impazienza. C’è troppa adrenalina in loro, per applicarsi con le armi pacifiche della costanza alla realizzazione delle giuste migliorie politiche. Pretendono da subito la liscia perfezione dei sogni. Molti disastri, per questo, sono nati dalla buonafede.
A Bronte, poi, non mancavano davvero i motivi del malcontento. Pesava su quella comunità di contadini e di pastori il feudo dei Nelson, grande quanto tutto il territorio della frazione di Maniace. Così, mentre il freddo invernale e le male annate falcidiavano i figli dei poveri, troppa terra restava sterile di cibo; terra, per di più, nella quale era severamente punito persino il furto di una fascina di legna, che tenesse vivo il braciere. Oggi, quindi, è facile dedurre che in quel 1860, se c’era spazio per la rabbia e le illusioni, non ce n’era per i ragionamenti. Era l’epoca dei capipopolo alla Lombardo, quella!
Entro certi limiti, naturalmente, poiché altre istanze bussavano per entrare nei libri di storia.
Infatti, il 22 maggio dell’anno prima, nel bel mezzo della guerra tra i franco-piemontesi e l’Austria, era morto Ferdinando II di Borbone. Purtroppo, suo figlio Francesco II, salito al trono, aveva commesso l’errore di non accettare subito la proposta del Cavour di partecipare al conflitto come terzo alleato. L’avesse fatto, forse, anziché un Regno d’Italia, sarebbero nati due regni, uno al nord ed uno al sud, lasciando disoccupato Bossi.
Ma, non lo aveva fatto. Perciò, quando il 25 giugno 1860 si era deciso a proclamare lo statuto (cioè, la Costituzione) e ad aderire all’offerta piemontese, era ormai troppo tardi. Quella vecchia volpe di Camillo Benso conte di Cavour aveva tergiversato, quanto bastava per permettere a Giuseppe Garibaldi di finire il suo lavoro.
Gli storici raccontano che a quel punto iniziarono le trame per un’insurrezione in Sicilia.“Un primo movimento avvenne il 4 aprile a Palermo, nel convento della Gancia, e un altro seguì due giorni dopo a Messina; ma vennero facilmente repressi. Si formarono tuttavia delle bande armate riunitesi poi intorno a Rosolino Pilo. A sostenere e diffondere la rivolta una spedizione fu preparata a Genova per opera di esuli siciliani, principale Francesco Crispi, e coll’aiuto della Società nazionale: prima e dietro di questa era pur sempre l’azione instancabile del Mazzini.”
Mazzini, appunto. E con lui tutta la galassia di società segrete che fiorirono nell’Ottocento. La diplomazia era stata efficace per annettere la Lombardia al Piemonte. Ma, l’alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II non c’era più, se si portava la conquista alle terre meridionali. Era stato, infatti, proprio l’imperatore francese a convincere il re Borbone a tentare di salvare il regno dall’espansionismo dei piemontesi intavolando trattative con loro.
“Un’Italia spezzata in due” aveva pensato Napoleone III, “è forte al punto giusto per dar fastidio all’Austria, senza essere ingombrante per la Francia.”
Da Cavour, al contrario, non era malvista un’azione di forza al Sud e l’unico che potesse realizzarla era Garibaldi.
A patto che fosse ben preparata.
4
“Onore a Garibaldi!” aveva esclamato l’avvocato Lombardo in casa di don Nunzio Caputo, fidato liberale, nella riunione che aveva preceduto l’insurrezione contadina. “Egli, già a gennaio, ha asserito che, se il Sud è pronto ad insorgere, possiamo contare sul suo aiuto.”
Le notizie sul successo dello sbarco dei Mille avevano elettrizzato gli animi. La setta mazziniana brontese, perciò, si era attivata in tutta fretta. Doveva farsi trovare pronta all’arrivo in paese delle camicie rosse.
“Pretende, però” aveva continuato Lombardo, “che ci siano chiare prove della nostra disposizione all’azione. Troppi patrioti sono morti per aver intrapreso, nell’indifferenza dei meridionali, la liberazione di Napoli e della Sicilia … Bentivegna, Pisacane, i due Bandiera…”
A questo punto, aveva fatto un cenno con la testa verso un bottiglione di vino, che stava pronto sopra il credenzone.
La stanza era in una profonda penombra, dato che la riunione avveniva alla luce di una sola candela e dei pallidi raggi lunari, che filtravano dalle grate dell’alta finestrella.
Nunzio aveva capito al volo ed aveva portato in tavola sei bicchieri, tanti erano i presenti. Poi, finalmente, era arrivato il bottiglione.
“Bisogna preparare il terreno” aveva ripreso Lombardo, senza allungare le mani sul vino. “Questo compito in tutta la Sicilia lo sta già svolgendo Crispi. E’ stato mandato qui in avanscoperta.”
Dopo qualche secondo di pensieroso silenzio, quindi, si era versato un bicchiere di vino e gli altri avevano fatto altrettanto. Il liquido era scuro, denso e di diciassette gradi. Una bella colata di lava nello stomaco. Tutti avevano bevuto d’un colpo, buttandosi alle spalle ogni incertezza.
“Ora” aveva concluso Lombardo, “in molti villaggi la gente si unisce alle camicie rosse, come mai si era visto neppure al Nord. Diciamolo ai nostri villani… Garibaldi vuole abolire le tasse sul sale e sulla pasta e promette di dividere i latifondi e distribuire la terra!”
Così, dal giorno dopo, i contadini avevano sentito i discorsi incendiari di Lombardo, per disgrazia dandogli credito. Alla fine si erano convinti che la parola Italia significava togliere le terre ai cappelli (cioè, ai possidenti), per darle ai berretti (cioè, a loro stessi).
Com’era naturale, però, anche i ricchi avevano preso sul serio quel concetto di Italia, per cui quel giorno avevano paura, una paura paralizzante, che li bloccava a Bronte, a difendere la robba, senza pensare che la vita viene prima e che forse era il caso di scappare.
5
Paura e rabbia accecavano da tempo soprattutto il notaio Ignazio Cannata. Per questo non ce l’aveva fatta, a tenersi dentro la bile, quando, un mese e mezzo prima di quel 2 agosto 1860, era stato inalberato il tricolore al balcone del Casino dei Civili.
Di contro agli applausi ed agli entusiasmi dei paesani, livido e provocatorio, s’era lasciato uscir di bocca:
“Perché non si leva ‘sta pezza lorda?”
Ora, addirittura, Cannata si presentava con una doppietta, netto nel suo rifiuto delle storiche novità che aveva davanti. I larghi baffi, irti sulle gote arrossate dall’ira, fronteggiavano i villani; i quali, sciolti i lacci del timore, cominciavano a ringhiargli intorno, a chiedergli conto e ragione delle sue ricchezze, a rinfacciargli prepotenze e malefatte…
Era troppa, però, la sua abitudine al comando (e troppo insufficiente la sua intelligenza), per mantenere la prudenza. La duttilità mentale non appartiene a chi ha avuto dalla sorte una condizione di privilegio.
“Sono i tempi di Frajunco, questi” disse al rispettato barone Meli, venuto sopra una sedia, perché sofferente di podagra, con l’incarico di placare gli animi. “Guardatelo, il nuovo caporione di Bronte!”
Il contadino Nunzio Ciraldo, detto Frajunco, era lo scemo del paese e scendeva in piazza con la testa coronata da pezzuole tricolori ed una fèrula come scettro. Già dalla notte, andava in giro, annunciando:
“Attenti, cappelli, che l’ora del giudizio si avvicina!”
Attorno a lui c’era tutto un serpeggiare di movimenti, di risa sguaiate, di minacce; c’era, ancora, un continuo chiamarsi a vicenda, il manifestarsi di rancori vecchi e nuovi, un battere ai portoni serrati.
“Popolo, non mancare all’appello!” urlava Frajunco al popolo, che per risposta gli marciava accanto.
“Volete farci linciare tutti?” sibilò il barone Meli, impressionato dallo spettacolo.
“Però. me ne porto dietro qualcuno, all’inferno!” rispose Cannata.
6
L’inferno il notaio non lo vide subito, dato che, un po’ dandogli ragione e un po’ minacciandolo loro per primi, gli altri galantuomini riuscirono a convincerlo a ritirarsi a casa. Lo vide, l’inferno, verso le tre pomeridiane, quando la folla ruppe ogni indugio ed andò a cercarlo dove moglie e figli lo obbligavano a starsene rintanato. Si cominciò da lui, perché era lui che aveva il vizio di dirlo chiaro ed in faccia a tutti, cosa pensava di Garibaldi.
“Scendi, notaio, che prima delle tue terre ci prendiamo la tua carne di porco!” uno sghignazzò alla porta.
“Affacciati con la doppietta, cornuto!” inveì un altro. “Che forse non t’è bastato tutto il sangue che ti sei succhiato!”
Cominciarono a tirare pietre alle finestre ed il frantumarsi dei vetri fu il sinistro avvio dell’Apocalisse. Mani che impugnavano falci, zappe, asce e martelli si levarono e presero a picchiare sui muri e sulla porta. Di minuto in minuto, la folla s’ingrossava e le intenzioni si facevano più truci. Una fervida impazienza di far male s’impadronì degli assedianti e ne centuplicò le forze. Fu portato un tronco d’albero da una vicina falegnameria e si buttò giù il portone.
Il notaio fu trovato nella stalla, non più tanto sicuro dei fatti suoi. Stava accovacciato in uno sportone di letame, col corpo che la paura aveva reso una tremolante massa gelatinosa.
“Sta in mezzo alla merda!” esclamò chi lo trovò.
“Ora laveremo la pezza lorda di Garibaldi nel tuo sangue di ladro!” latrò rauco un altro, brandendogli un’ascia davanti agli occhi dilatati per il terrore.
Allora, gli strapparono i vestiti e lo legarono per i piedi. Uno, con un secco colpo di roncone, lo evirò.
“Tanto dove vai non ti serve” sentenziò sarcastico, mostrando il pene staccato.
Poi, lo strascinarono sanguinante per le scoscese vie di Bronte, punzecchiandolo coi coltelli, affondando nella carne viva e dolorante calci e bastonate, facendogli “assaporare a centellini gli spasimi della morte (come, poi, raccontò Radice).
Ci fu uno, di Maletto, che, dopo avergli vibrato una coltellata nella pancia, portò alla bocca la lama insanguinata. “Lui s’è succhiato il mio sangue ed io mi lecco il suo!”
Quindi, un certo Bonina, detto Caino, gli aprì il fianco e gli strappò il fegato. “Sentiamo che sapore ha…” gridò e affondò un morso.
Dopodiché, le stragi diventarono come le ciliegie: l’una chiamava l’altra. I cappelli furono tutti cercati, senza sconti, né pietà. Di quelli che trovarono, nessuno venne risparmiato. Il padre di Benedetto Radice, sentendosi chiamare, si affacciò sulla soglia di casa e ingenuamente ebbe fede nella forza della sua coscienza pulita.
“Eccomi” disse. “Se ho fatto mai del male, uccidetemi.”
Vicino a lui, ginocchioni, il figlio del notaio Cannata, aveva soltanto la forza di guaire: “Grazia, vi prego, grazia…”
Gli era accanto la moglie, tutta discinta, che invasata, con l’energia della disperazione, urlava: “Ricordatevi che è padre di due figli!”
Ma, gli insorti non smisero di schiamazzare, chiedendo altro sangue. Partirono i lampi di due schioppettate ed il giovane Cannata stramazzò, mentre il Radice si salvò poiché, svenuto, fu creduto morto.
In tanto scatenarsi di ferocia, apparvero tardivi gli sforzi dell’avvocato Lombardo per placare la belva. A Bronte il sabba della rivoluzione infuriò senza alcun argine per tutta la giornata, guidato soltanto dall’unico sentimento di giustizia sociale che si ha in tali momenti: volere nella polvere chi sta sopra.
E in quel carnevale furibondo, scrisse con impareggiabile poesia Giovanni Verga, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Non era la rivoluzione sociale, però, ciò che Garibaldi e i suoi volevano. Almeno, non ancora. Per loro, prima della prosa dei rancori di classe, c’era la poesia del riscatto della patria. I contadini, con quegli ammazzamenti, non coincidevano mica con gli eroi dell’estetica romantica! Eppoi, borghesi e massari accettavano sì l’Italia unita, ma senza alcuna intenzione di dare in cambio la pelle.
Ecco perché, quando arrivarono a Bronte le camicie rosse, su ordine del generale Nino Bixio, l’avvocato Lombardo e quelli che erano stati più in vista vennero arrestati, processati e condannati alla fucilazione.
7
L’esecuzione avvenne nel piazzale dello Scialandro. Lì, un momento prima di ricevere la pallottola fatale, Lombardo, seppur innocente riguardo alle uccisioni, anzi attivamente impegnato nel cercare di evitarle, pensò al suo antico maestro Vincenzo Natale e sentì di pagare un giusto prezzo.
“Chi lotta per cambiare il mondo” gli aveva detto Natale, “ha l’obbligo di non perdere il controllo della situazione. Dare speranze per le quali non ci sono le condizioni storiche produce due stragi: quella dei reazionari uccisi dalla rivoluzione e quella dei rivoluzionari uccisi dalla reazione.”
Oggi, si può aggiungere che, a proposito delle tasse che s’era promesso di abolire: fatta l’Unità, il ministro Quintino Sella pagò i costi del Risorgimento con la tassa sul macinato, cioè sul pane e sulla pasta. E, di dare la terra ai contadini, non se ne discusse proprio.