
Giuseppe Barone, Ritratto di Francesco Laganà Campisi, olio, Raccolta Civica, Militello in Val di Catania (Sicilia)
1869, l’omicidio di Francesco Laganà Campisi a Militello in Val di Catania
di Salvatore Paolo Garufi Tanteri
Di che pasta fosse fatto il giovane Francesco Laganà Campisi, lo si vide chiaramente in quella scura mattina del gennaio 1869, con l’acqua che lacrimava sui vetri della chiesa di San Nicolò.
Si celebravano i funerali di Nicolò Portuso, uno dei suoi migliori amici, membro prestigioso del partito dei cavallacci, ucciso da una mano che, se restava nascosta, non poteva certamente dirsi sconosciuta. E la vendetta non avrebbe tardato. Era bene annunciarlo.
– Sulla tua bara prendiamo il solenne impegno di vendicarci! – aveva gridato Francesco, dimenticando il luogo dove si trovava.
I tempi stringevano, quindi. Il sangue sgorgato dalle ferite di Portuso chiamava altro sangue. Eppoi, la lotta tra mariani liberali (dei quali i cavallacci erano espressione) e i nicolesi filo-borbonici era precipitata nella violenza già l’anno prima, durante le elezioni amministrative.
Per questo, poco tempo dopo, nella casina che Giuseppe Calatabiano possedeva in contrada Madonna del Franco, alla presenza del loro capo riconosciuto, il deputato Salvatore Majorana Calatabiano, i carbonari avevano fatto giuramento:
– Morte al prepotente ed ai suoi ricottari!
Il prepotente, ovviamente, era la colonna del partito dei nicolesi, il vecchio barone Salvatore Majorana Cocuzzella.
Così, anche se molti pensavano che Nicolò Portuso fosse stato ammazzato dal padre di un bambino ucciso dai cavallacci (perché involontario testimone di uno dei loro tanti delitti), Francesco Laganà Campisi indirizzò subito (e neppure tanto velatamente) l’odio dei compagni contro il barone, trasformando il funerale in una manifestazione politica.
Nei giorni seguenti, poi, egli proseguì nella campagna di guerra, pubblicando, in collaborazione col baronello Vincenzo Reforgiato e col signor Antonino Caruso Pico, il libello intitolato Dopo l’intrigo il delitto.
L’opera non difettava di chiarezza nel denunciare i suoi intenti, potendovisi leggere:
“La mala erba deve sradicarsi sino alle radici.”
Oppure:
“Il tempo delle prepotenze è finito e ad ogni parola si darà una stilettata!”
Di certo, una tale… come dire?… vivacità nella partecipazione alla vita pubblica finiva per comportare fastidi non lievi nella vita privata. Ci fu qualcuno che nei suoi confronti applicò una delle più vigliacche (e, purtroppo, ancor oggi più diffuse) pratiche di ritorsione, deviando il corso delle acque che irrigavano il suo giardino di Passaneto. Ma, com’egli stesso amava dire, non era il tipo da stare con le mani alla cintola e le acque, d’amore o di forza, finirono per riprendere il corso di prima.
In verità, quello che succedeva a Militello era, in un certo senso, fisiologico in quei tempi di gran cambiamenti. Uomini nuovi premevano per assurgere al ruolo di protagonisti del potere politico e in politica la forma è sostanza e le parole finiscono per travolgere i fatti.
Se sono nuove, le parole, magari non serviranno per affermare nuove verità, ma saranno indispensabili per portare al governo nuovi uomini. Così, il gruppo dei cavallacci, detti pure comici, tutti baldi giovanotti della buona borghesia, si candidava ad essere il ricambio, l’alternativa all’ultratrentennale signoria del vecchio barone Majorana Cocuzzella.
Bisogna dire pure, però, che il legame di questi allegri giovanotti era un fatto pre-politico. Fino all’Unità essi si erano distinti soltanto per certe ribalderie memorabili. Nella casa di due poveri venditori di acciughe, per esempio, avevano provocato una vera e propria inondazione e spesso e volentieri avevano fatto man bassa nei vigneti e nei porcili non ben guardati.
Nel 1868, però, i liberali avevano vinto le elezioni amministrative e poi, in quello stesso anno, cioè nel 1869, vinsero le politiche, riuscendo nelle prime a far elegere consigliere comunale il baronello Reforgiato e nelle seconde consigliere provinciale Salvatore Majorana Calatabiano (quasi omonimo, ma nemico acerrimo del barone Salvatore Majorana Cocuzzella), sposato in seconde nozze con la madre del Laganà.
La verve dei comici, ormai, aveva abbandonato gli ozi pre-unitari e s’era evoluta in strumento di pressione politica, producendo articoli di giornali, biografie, libelli e proteste contro il Cocuzzella e la sua famiglia.
L’idea fissa di Francesco Laganà Campisi, insomma, divenne il voler arrivare alla definitiva sconfitta, anzi alla totale scomparsa dalla scena pubblica, del barone. In questo, c’era il desiderio di vendicare suo padre, morto d’infarto nel 1848, dopo un assalto dei bravi di casa Majorana Cocuzzella.
Il giorno decisivo fu l’otto settembre del 1869, festa della Madonna della Stella.
Già da molti giorni, in verità, si pensava che qualcosa di grosso dovesse succedere. Presidente del Comitato Festeggiamenti era il baronello Reforgiato e, a parere della fazione del barone Majorana Cocuzzella, la conseguenza prevedibile era qualche tiro da liberale birbone, irrispettoso d’ogni ordine e tradizione.
Per di più, al Cocuzzella bruciavano ancora le due sconfitte elettorali consecutive e, quindi, egli pretendeva che fosse ripristinata l’antica usanza dell’inchino (che, tra parentesi, egli stesso aveva abolito precedentemente, quand’era sindaco e padrone di Militello).
L’inchino, per chi non lo sapesse, consisteva in una particolare fermata della processione con la statua della Madonna sotto il balcone del barone, seguita da un vero e proprio inchino, aspettando l’offerta.
Per questo, di mattina presto, Rosario Alaimo Circello, uno dei bravi del barone, parlando a San Rocco per farsi sentire da San Pasquale, aveva detto in pubblica piazza:
– Qui, se non si dà soddisfazione al barone, finisce davvero male!
Ed il cocchiere D’Agata, un altro della stessa risma, era passato e ripassato per via Botteghelle a capo di un folto gruppo di campieri.
Uno, allora, gli aveva chiesto:
– Ohè, compare! A che servono tanti uomini?
– A dare i ceri alla Madonna – aveva risposto D’Agata.
I cavallacci non potevano tenersela, un simile provocazione. Anzi, se mai avevano avuto intenzione di acconsentire alle richieste del barone, il dispiegamento dei bravi fu un irresistibile invito alla rissa.
– Le torce faremo trovare a quel vecchio rancoroso! Altro che ceri! – si dissero, quando si riunirono nella farmacia Tinnirello, ch’era il serale covo carbonaro.
Tutti d’accordo, perciò, tutti pronti, gruppo contro gruppo, alla bastonatura e all’accoltellamento, i liberali fecero un poco devoto assembramento attorno alla bara della Madonna, che nel tragitto tra la chiesa e la casa del barone procedette in un silenzio carico di elettricità, dove gli opposti partitanti si guardavano in cagnesco e, al posto dei rosari, formulavano minacce a fior di labbra.
Ecco il balcone del barone, ecco il barone impettito che aspettava. Le nocche delle sue mani strette all’inferriata si erano fatte bianche. Ben più esangue era il viso, agitato da un lieve fremito delle labbra. I bravi si disposero ad entrare in azione. Altrettanto fecero i cavallacci.
Così, quando la Santa arrivò sotto i ghirigori barocchi del fatale balcone, ci fu come un grido liberatorio.
I bravi cercarono di trattenere la bara, affinché avvenisse il preteso inchino, non disdegnando l’eloquenza degli schiaffoni e dei calci.
Il neo-eletto consigliere comunale, baronello Vincenzo Reforgiato, che stava alla testa della processione, si prese un pugno in un occhio e per lui la luce del giorno si fece scura e piena di stelle. Il suo lamento non rimase inascoltato. Accorsero gli amici dalle retrovie ed il parapiglia divenne vasto e compatto.
Vinsero gli impertinenti cavallacci, perché, pur tra urla e spintoni che tolsero ogni ieraticità alla Divina Immagine, la processione tirò dritto.
Il barone, perciò, non soltanto non ebbe l’inchino, ma fu pure fatto oggetto di sghignazzate, pernacchie e fischi. Ed ovviamente la sua reazione non si fece attendere.
Egli si torse e si morse le mani, pestò i piedi ed alzò i pugni verso gli sberleffanti:
– Ci rivedremo! – gridò rauco al loro indirizzo. – Non dubitate, manica di delinquenti!
Il chiasso di un applauso sfottente fu la risposta a quelle parole e subito dopo ripresero i fischi e le pernacchie.
Majorana Cocuzzella, allora, visto che la sua ira finiva soltanto per ingrandire l’umiliazione, senza dire altro, rientrò nel chiuso delle sue stanze.
E’ facile immaginare la fulmineità con la quale il paese si riempì della notizia dello scacco che era stato dato al potente barone. I contadini non erano certo abituati a vederlo come perdente. Sfottuto, poi!
Fino a quel momento, sul barone, girava solo il solito raccontino del potente ingravida-lavandaie (ne ho ritrovato uno quasi uguale sul Re Vittorio Emanuele II a Racconigi, provincia di Cuneo).
Toc! Toc! bussava il barone.
“Cu è?” chiedeva la donna.
“Rapa, stiddicchia, ca sugnu u baruni…”
Per disgrazia, Stiddicchia era il nome più diffuso di Militello.
Quella mattina, perciò, crollava un mito che pareva eterno come la miseria. Poteva mai darsi pace, il barone?
Infatti, egli non riusciva a star fermo. Passava da una stanza all’altra e grugniva truculenti propositi di vendetta.
– Taglierò i cosiddetti, taglierò… a quei carbonari del ca…!
E qui si fermava, perché pensava che poteva sentirlo la figlia, che era nella stanza accanto.
– Ah, a cosa mi portano, i maledetti! A dar scandalo a casa mia!
Andò avanti così fino alle quattro del pomeriggio, quando tornò ad affacciarsi al balcone.
Se ne pentì subito, poiché vide i suoi nemici, tutti schierati davanti alla farmacia Tinnirello, che cominciarono a ridergli in faccia. Anzi, appena si accorsero di lui, fingendo di discutere fra di loro, riepilogarono ogni particolare della sua sconfitta. Naturalmente, a dirigere l’orchestra c’era Francesco Laganà Campisi.
Quindi, non gli restò altro che rientrare con ira rinnovata.
Alle diciotto capì che, se non usciva ad affrontare i cavallacci, rischiava di scoppiare.
– Vado a vedere la corsa dei cavalli – disse alla moglie.
C’era presente il sacerdote Di Maiuta, da anni fidato compagno delle sue passeggiate e confessore delle sue scappatelle, che cercò di sconsigliarlo.
– Vossignoria non dovrebbe uscire – gli disse. – Tolga l’occasione, a quella gente!
– E che? Non sono più libero di vedermi una corsa di cavalli? – rispose il barone, con un tono che non ammetteva repliche.
Il poveretto sospirò rassegnato e si dispose ad accompagnarlo.
– Vengo con voi – disse.
– Se vi fa piacere – rispose il barone.
Inoltre, per strada si unirono a lui don Fidenzio Cocuzzella, suo nipote, il cocchiere D’Agata, il fattore Ballarò, il contabile Valerio, mastro Turrisi, mastro Janni, mastro Faragone, mastro Pensavalle e tutto un seguito di camerieri e campieri.
Con tale codazzo arrivò al Casino dei Civili. Laganà Campisi era lì con i suoi amici euforici e baldanzosi per la vittoria. Tra questi, c’era l’avvocato Greco, che, fingendo di non averlo visto, ricominciò il concerto dei fischi.
– Senti un po’, porco villanzone! – disse allora il barone, battendogli il bastone sulle spalle.
Fu un gesto fatale, poiché Giuseppe Greco, fratello dell’avvocato e di professione fabbro ferraio, gli assestò sulla testa un colpo di legno tale da farlo cadere a terra tramortito. Subito si levò un grido:
– Hanno ammazzato il barone Majorana!
Il cocchiere D’Agata tirò fuori la pistola e sparò dei colpi in aria, per farsi largo e recare soccorso al padrone. Accorse pure il prete don Giuseppe Compagnimo. Purtroppo, però, egli era un noto amico dei cavallacci, per cui il suo gesto fu male interpretato da mastro Janni, che, per non sbagliare, gli assestò una coltellata.
– Sono morto! – squittì il prete e si lasciò andare per terra, piangendo.
Nel frattempo, qualcuno riuscì a sollevare il corpo del barone bastonato. La sua testa calva era coperta di sangue e non dava il minimo segno di vita.
– A casa Marino, presto! – suggerì qualcun altro.
Così, alla men peggio, il poveretto venne portato via e davanti al Casino dei Civili restarono soltanto i duellanti. Se i bravi del barone facevano lampeggiare i coltelli, i cavallacci si difendevano egregiamente impugnando bastoni e sedie.
Nella mischia c’era mastro Turrisi, uno che aveva molti motivi di gratitudine verso il barone ed un motivo di antipatia per Francesco Laganà Campisi … un motivo grave, essendo un marito all’antica, di quelli che non perdonano chi gli adorna la casa, come disse Santuzza a compare Alfio.
Insieme a lui, c’era mastro Janni, che altri non era che il padre del bambino ucciso da Nicolò Portuso, da pochi giorni venuto a porsi sotto la protezione del barone.
I due, perciò, non persero molto tempo. Sferrando colpi all’impazzata, riuscirono a farsi largo, fino ad arrivare davanti al giovane. Gli altri cavallacci, intanto, in evidente inferiorità numerica e d’armi, arretravano.
Laganà Campisi no. Era coraggioso. Od incosciente. Poteva scampare la morte. Ma non lo fece.
– Ora non mi scappi più! – gli disse Turrisi, quando lo vide stretto in un angolo.
– Non scappo, non scappo – rispose Laganà Campisi. Anche tua moglie sa bene che non scappo!
Fu la sua ultima battuta.
Nell’autopsia riscontrarono nel suo corpo ben sei coltellate in punti che andavano dalla mammella all’addome, più varie escorazioni, rotture e ferite secondarie.
Non morì invano, però, perché il suo patrigno, Salvatore Majorana Calatabiano, riuscì a far scordare i veri motivi dell’assassinio, per cui il barone Salvatore Majorana Cocuzzella venne moralmente linciato ed incriminato come mandante.
Il processo, è vero, si chiuse senza una condanna. Ma, la carriera politica del barone fu distrutta per sempre. Il che era ciò che contava davvero. In tal modo, infatti, il Calatabiano potè diventare l’unico detentore del potere a Militello e, successivamente, salire fino al grado di ministro del Regno d’Italia.
D’altra parte, a che servono i martiri?