
Igor Man, pseudonimo di Igor Manlio Manzella (Catania, 9 ottobre 1922 – Roma, 16 dicembre 2009), è stato un giornalista italiano.
Biografia
Figlio di Titomanlio Manzella, esperto di politica estera, e di una nobildonna russa, Elfride Neuscheler.
Esordì per un decennio cronista al Il Tempo di Roma sotto la direzione di Renato Angiolillo: alla vigilia della partenza come corrispondente in America, fu uno degli ultimi a fare visita al capezzale di Curzio Malaparte[1].
In seguito è stato una delle firme più prestigiose del quotidiano La Stampa di Torino dove cominciò a lavorare nel 1963 sotto la direzione di Giulio De Benedetti.
Ha avuto un figlio, Federico Manzella.
È stato testimone e cronista dei principali avvenimenti mondiali degli ultimi cinquanta anni.
Studioso delle religioni e delle società, aveva una spiccata sensibilità e competenza per i temi riguardanti il mondo arabo ed islamico.
Ha intervistato grandi personaggi, tra i quali spiccano i nomi di John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khruščёv, Fidel Castro, Che Guevara, Salvatore Giuliano, Gheddafi, Khomeini, Yasser Arafat e Shimon Peres.
Ha conosciuto Padre Pio da giovane giornalista.[2]
È deceduto nel 2009 all’età di 87 anni.[3]
Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana
«Di iniziativa del Presidente della Repubblica»
— 26 maggio 2005[4]
Volevamo essere come Igor Man
Un ricordo del grande inviato
Marcello Sorgi
08 Ottobre 2012 alle 06:25
2 minuti di lettura
«Yes, I know, listen my friend…»: dal suo gabbiotto in redazione, la voce arrivava tonante. Igor parlava insieme arabo e inglese. Aveva l’accento un po’ yankee di tanti della sua generazione a cui era capitato di conoscere gli americani durante la guerra. In quella calda primavera del 1986, nei giorni dell’attacco Usa a Tripoli alla casa di Gheddafi e dei due missili lanciati dal colonnello su Lampedusa, era uno spettacolo vederlo lavorare, appeso al filo incerto di una telefonata libica.
Igor Man era un tipo unico, a cominciare dal nome d’arte che s’era dato ed era riuscito non si sa come a far stampare sui suoi documenti.
Aveva un metabolismo mediterraneo, gli era rimasto attaccato il fuso orario dei vecchi giornalisti che andavano a dormire tardissimo, con la prima copia fresca di stampa ritirata alla rotativa.
Personaggio da film, era uno degli ultimi di un’epoca romantica e appassionata.
In Vietnam mentre la moglie adorata, Mariarosa, metteva al mondo suo figlio Federico: il telegramma per avvertirlo della nascita lo raggiunse quando il bambino era già tornato a casa.
E poi in Cile, a Cuba, a Panama e in Costarica: per molti anni non c’era guerra o guerriglia, crisi grande o piccola nel mondo che non lo vedesse schierato in prima linea.
Allora le missioni duravano mesi, l’informazione tv quasi non esisteva, gli articoli si mandavano col telegrafo o dettandoli a un dimafonista, e cominciavano con il fatidico distico «dal nostro inviato speciale ».
In quell’aggettivo c’era un che di avventura, di sogno, di coraggio, che faceva desiderare anche all’ultimo dei cronisti di essere, di diventare chissà, un giorno, come il leggendario Igor Man.
A un certo punto della sua lunga carriera, Man aveva preso una sorta di seconda cittadinanza in Medio Oriente e nel mondo arabo nostro dirimpettaio e non ancora soffocato dal fondamentalismo.
Andava e veniva, tornava e ripartiva, allungava orgoglioso il lungo medagliere di foto con i suoi intervistati.
Accanto a Che Guevara, ad Allende, a un gruppo di misteriosi guerriglieri boliviani armati fino ai denti, a un Kennedy avvicinato svagatamente a un ricevimento a Washington, da un elegantissimo Igor in dinner jacket e papillon, comparvero così l’israeliana Golda Meir, l’egiziano Mubarak, il vecchio re Hassan II del Marocco, il ras della Tunisia Bourguiba, e poi, in varie pose, un Arafat di cui Man era spesso ospite esclusivo e autorizzato – raro privilegio -, a descriverne la vita riservatissima nella casa araba dove il tè bolliva lento tutto il giorno, tra nuvole d’incenso e fiori di gelsomino sparsi con cura dappertutto.
Con molti anni di anticipo sul 2001 dell’attentato alle Torri Gemelle di New York, che doveva cambiare per sempre la convivenza mondiale, Man aveva capito quel che dalla sponda orientale a noi più vicina la polveriera islamica stava incubando, dentro e attorno a un Occidente del tutto impreparato a contenerla.
Per questo Igor, che aveva visto nascere il khomeinismo in Iran, era desolato quando gli americani avevano dovuto abbandonare la Somalia infestata dai fondamentalisti.
Ed era disperato di fronte alla prima guerra del Golfo, quella del ’91 in cui l’Italia si commosse per le gesta eroiche del maggiore Bellini e del capitano Cocciolone.
Ma non immaginava neppure cosa sarebbe accaduto dieci anni dopo, e coltivava l’illusione di una crisi reversibile, e non di una rottura ideologico-religiosa che avrebbe segnato il secolo successivo dal suo inizio.
Per questo, Man scelse di raccontare nella sua rubrica «Diario arabo» la cultura, i valori e anche gli eccessi del mondo islamico: lo faceva umilmente, in trenta righe, tutti i giorni sulla Stampa.
E ogni articolo si chiudeva con una «sura», una massima del Corano lasciata lì, in conclusione, per far riflettere.
Domani con La Stampa
Domani Igor Man avrebbe compiuto 90 anni. Per ricordare il suo grande inviato e editorialista La Stampa , in collaborazione con Nino Aragno Editore, pubblica Igor d’Arabia , un libro a cura di Marcello Sorgi (e con una testimonianza di Andrea Riccardi) che raccoglie reportage di guerra e di viaggio, interviste e ritratti, una vera e propria biografia professionale. Il volume (di cui anticipiamo un brano della prefazione di Sorgi) sarà in vendita da domani con La Stampa ae8,90 nelle edicole di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, oppure si può richiedere allo 011-2272118 o su www.lastampa.it/shop. Il libro è disponibile anche in formato ebook per smartphone, tablet e computer a € 3,99 e si può trovare su iBooks, Amazon, Book Republic.

Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana
«Di iniziativa del Presidente della Repubblica»
— 11 aprile 2001[5]
Numerosi i riconoscimenti da lui ottenuti, tra cui:
- 1991 – Premio Colombe d’Oro per la Pace[6]
- 1992 – premio Estense per Diario Arabo (Bompiani)
- 1992 – il premio Valle dei Trulli 1992 per Gli ultimi cinque minuti (Sellerio).
- 1993 – Premio Napoli per la deontologia
- 1999 – Premio Barzini all’inviato
- 1999 – Premio giornalistico Elio Vittorini
- 2000 – premio di giornalismo Saint-Vincent alla carriera[7]
- 2000 – è stato proclamato “giornalista dell’anno” nell’ambito del Premio Michelangelo.
- 2000 – è stato nominato Artisan de la Paix dall’Università internazionale Giorgio la Pira.
- 2009 – Premio America della Fondazione Italia USA
- Opere
- I morti non muoiono. Cronache, Roma, Pagine Nuove, 1951.
- Diario arabo. Tra il serio della guerra e il sacro del Corano, Milano, Bompiani, 1991. ISBN 88-452-1781-7
- Introduzione a Michael Harsgor e Maurice Stroun, Il rifiuto del passato. L’imbroglio israelo-palestinese, Milano, Baldini & Castoldi, 1991. ISBN 88-85988-05-9
- Gli ultimi cinque minuti. Cronache con forma di racconto, Palermo, Sellerio, 1992.
- Prefazione a Rita Porena, Il giorno che a Beirut morirono i panda. 1982, gli ultimi giorni dell’assedio israeliano alla capitale libanese nel racconto di una testimone oculare, Roma, Gamberetti, 1993. ISBN 88-7990-000-5.
- Postfazione a In treno verso l’Europa, Roma, Peliti associati, 1993. ISBN 88-85121-17-9
- Introduzione a Mario Alpi, Il bisturi nello zaino. Racconti di guerra e di prigionia, Roma, Carlo Mancosu, 1995.
- Il professore e le melanzane e altri racconti, Milano, Rizzoli, 1996. ISBN 88-17-66064-7
- Prefazione a Marco Impagliazzo e Mario Giro, Algeria in ostaggio. Tra esercito e fondamentalismo, storia di una pace difficile, Milano, Guerini, 1997. ISBN 88-7802-748-0
- Prefazione a Salvatore Parlagreco, L’uomo di vetro, Milano, Bompiani, 1998. ISBN 88-452-3665-X
- Prefazione a Edward W. Said, La convivenza necessaria. Il processo di pace tra palestinesi e israeliani visto da un grande intellettuale, Roma, Indice internazionale, 1999. ISBN 88-87028-13-3
- L’Islàm dalla A alla Z. Dizionario di guerra scritto per la pace, Milano, Garzanti, 2001. ISBN 88-11-68541-9
- Igor d’Arabia, a cura di Marcello Sorgi, Roma, Aragno, 2012. ISBN 978-8884195852
- Note
- ^ “In attesa che il cancro ai polmoni se lo portasse via, solo, nella stanza romana della clinica «Sanatrix», diventata una sorta di santuario per pellegrini che volevano rendergli visita, da Palmiro Togliatti al vescovo di Prato, Pietro Fiordelli, parlarci di politica e di fede e toccarlo come si tocca una reliquia”, ci fu “il giornalista Igor Man, mandato lì da Angiolillo, giorno dopo giorno, a distrarlo e fargli compagnia, uno degli ultimi a vederlo”: Umberto Cecchi, Per il volontario sedicenne Kurt Sukert la Grande Guerra iniziò un anno prima, Nuova antologia : 614, 2274, 2, 2015, p. 278.
- ^ L’incontro fra Igor Man e Padre Pio – La Stampa
- ^ La notizia della scomparsa sul Corriere della Sera
- ^ Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
- ^ Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.
- ^ Albo d’oro, su archiviodisarmo.it.
- ^ Premio Saint-Vincent per il giornalismo – Anno 2001 Archiviato il 15 luglio 2007 in Internet Archive.
L’ANNO DELLO SPIRITO SANTO I segni della speranza: i popoli “NON ABBIATE PAURA” Igor Man La storia è anche un regista ironico: a Cuba, durante l’omelia invero biblica (perché forte , intelligente, profetica) del Papa, la folla che straripava dalla Piazza Rossa dei Caraibi gridava «Libertà» e Fidel Castro si sprecava in applausi da comitato centrale del defunto pcus. Al suo arrivo all’Avana Giovanni Paolo II aveva detto: «Non abbiate paura». Si è visto che codesta esortazione evangelica era destinata non soltanto al popolo di Cuba (un popolo in un certo senso «martire») ma altresì al Lider Maximo. Sia l’uno che l’altro sembra l’abbiano accolta, visto che la gente ha spezzato il tabù del silenzio figlio del terrore poliziesco; visto che Fidel Castro non soltanto ha assistito alla Messa, seguendo la liturgia sull’apposito libretto, ma ha scambiato, «in segno di pace», strette di mano commosse con prelati felicemente increduli e straniti comunisti di ferro, e infine ha ringraziato il Pontefice, al momento del commiato, «anche» per le sue critiche. Accettando quelle che ha definito «critiche», a ben guardare il veterocomunista Castro ha fatto «autocritica». Ma non già davanti a un tribunale (cosiddetto) del popolo bensì davanti al tribunale della storia. Con elegante verità il Papa non ha rinfacciato nulla al Lider Maximo visibilmente segnato nel fisico da un male cattivo «che non è soltanto la vecchiaia». Tuttavia proclamando il primato della Verità che esalta la Speranza, Giovanni Paolo II ha demolito le affabulazioni, tipiche del comunismo residuale con cui Castro aveva farcito i suoi precedenti discorsi volti a «distinguere» la miseria degli altri Paesi latino-amercani dalla sofferenza del suo popolo vittima del feroce «dogma-embargo» degli Stati Uniti. Certamente, «il popolo cubano non può vedersi privato dei vincoli con gli altri popoli, soprattutto quando l’isolamento forzato si ripercuote in modo indiscriminato sulla popolazione accrescendo le difficoltà dei più deboli». Le misure economiche restrittive imposte dall’esterno sono «ingiuste ed eticamente inaccettabili», ha detto il Papa. Ma è altrettanto certo che non tutte le disgrazie che martirizzano il buon popolo cubano traggano origine dal blocco economico imposto dagli Usa. Ferma restando la crudeltà, intrisa di frustrazione, dell’embargo, va dichiarato come Castro abbia reagito maldestramente, caoticamente senza curarsi dei consigli, dei suggerimenti dei suoi esperti in economia (ce ne sono, anche a Cuba ce ne sono), col risultato di aggravare la situazione. Le sue famose «aperture» diremo all’economia di mercato, hanno spaccato in due la società cubana. Dopo l’arrivo del dollaro a Cuba, ci sono quelli che ne usufruiscono attingendo un livello di vita decente, mentre gli altri, i disgraziati, o gli onesti, ancorati al misero reddito in pesos, i poveri, insomma, sono diventati più poveri. Ancora: per suprema ingiuria al socialismo reale in salsa cubana, vale a dire al castrismo, con le «aperture» son tornati a Cuba quella prostituzione e quel mercato nero – una lebbra – contro cui trentanove anni fa lo stesso Castro e il mitico suo compagno Ernesto Che Guevara, s’erano coraggiosamente battuti a costo della propria vita. Qui, però, s’impone un inciso: Castro, già brillante allievo dei Gesuiti a Santiago de Cuba, non era comunista. Nel gennaio del 1961 a una mia precisa domanda rispose: «Noi non siamo né comunisti né anticomunisti: siamo humanisti». E che vuol dire? «Compañero, fa’ tu…» Guardava agli Stati Uniti e vi si recò per chiedere aiuti (cioè investimenti) «a Cuba liberata dal vizio e dalla dittatura», ma il suo appello venne ignorato. Questo perché allora era la United Fruit Co. a fare il bello e il cattivo tempo al Dipartimento di Stato; e Castro, da bravo rivoluzionario, per prima aveva nazionalizzato proprio la compagnia cara a Foster Dulles. Fidel fu, pertanto, costretto (lo stesso era già accaduto con Nasser, religiosamente anticomunista, reo di aver nazionalizzato il canale di Suez) a gettarsi nelle braccia di Mosca e, successivamente, di Pechino, «convertendosi» così al comunismo che cercò di castrizzare, coi risultati disastrosi che sappiamo. Il (relativamente) miserabile sussidio sovietico-cinese bastava appena a far sì che Cuba tirasse avanti con dignitosa povertà, curando (con successo) l’alfabetizzazione del Paese, la ricerca medico-scientifica. La fine dell’Urss e i sommovimenti interni in Cina troncarono la flebo degli aiuti, e la miseria divenne non più dignitosa ma insopportabile poiché il blocco economico americano, inasprito, non trovava risposta valida. Da qui, giustappunto, le «aperture» neoliberiste in salsa cubana, con gli effetti disastrosi che abbiam visto. Nel Vangelo secondo Matteo è scritto: «Bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato»: da ex chierichetto Castro dev’esserselo ricordato, sicché è venuto a Roma e ha bussato al portone di bronzo. Gli è stato aperto. Ha chiesto e gli è stato dato. Ma cosa? Non già la legittimazione, come qualcuno ha scritto, ma il dono della Verità che appunto esalta la Speranza; e sperare, come ha scritto Georges Bernanos, «è un casto fidanzamento con l’avvenire». Insomma, il Papa è venuto all’Avana non perché, come incautamente qualcuno ha detto, fra di lui e Castro sta scoppiando un amore a prima vista, bensì per portare il Vangelo (ecco il dono) in quella grande piccola isola carica di Storia terribile chiamata Cuba, nelle sue case degradate, senza crocefisso per ordine del Grande Fratello ma con la fede intatta nel cuore della gente. Quella gente che scandirà più volte durante l’omelia papale uno slogan oramai consegnato alla storia cubana e non: «el Papa libre nos quiere a todos libre», il Papa libero ci vuole liberi. Il Vangelo di domenica 25 di gennaio dell’Anno Domini 1998 dice: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia per il Signore». Sollecitato dalla forza profetica di codeste parole, mentre il libeccio scompigliava la sua veste sacerdotale, il Papa ha detto nell’omelia che lo Spirito Santo è come il vento, soffia dove vuole «e oggi vuole spirare a Cuba». Ed in grazia dello Spirito Santo, egli, il portatore del Vangelo, il vecchio ma indomito Pontefice di Roma, ha chiarito che un paese libero e moderno non può edificarsi né (soltanto) sulla religione, né (soltanto) sull’ateismo bensì sull’Amore, la Libertà, la Giustizia, coinvolgendo la Famiglia e i valori che ne discendono. Richiamandosi, così, ai principi del padre della patria cubana, José Marti, ma altresì alla predicazione di un sacerdote, Felix Varela, il quale, va ricordato, intravedeva una repubblica cubana incentrata su una «visione etico-democratica» della pubblica amministrazione, «per il bene dell’Uomo». Prima di arrampicarsi sulla per lui troppo erta scaletta dell’aereo dell’Alitalia, il Papa aveva visto e sentito cadere gocce di pioggia. Ai Tropici accade spesso, ma Giovanni Paolo II si è domandato: «Perché dopo tanto caldo arriva adesso la pioggia? Potrebbe essere un segno che il cielo piange perché il Papa se ne va. Ma sarebbe una ermeneutica superficiale. L’ermeneutica più profonda della pioggia può significare un incoraggiamento. Che questa pioggia sia un segno buono, per un nuovo avvento della vostra storia». Così ha concluso il Papa. Ora il grande silenzio seguito alla Parola recata e gridata da Giovanni Paolo II ai cubani, al mondo, tocca a Castro romperlo. E al vecchio cronista piace sperare che quella pioggia che ha benedetto le ultime ore del Papa a Cuba sia acqua lustrale che mondi il vecchio Lider Maximo: per il bene del suo popolo che chiede pane e libertà e un po’, soltanto un po’ di rispetto. |