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Salvatore P. Garufi, “La Rivoluzione ubriaca: idealisti e trasformisti ai tempi di Napoleone”

Idealisti e trasformisti: il generale borbonico Gennaro Valentini ed il vescovo giacobino di Vico Equense (NA), mons. Michele Natale

di Salvatore Paolo Garufi

I

  • Nel Regno borbonico dei  gran cambiamenti vennero portati da quel ciclone chiamato Napoleone Bonaparte. Di colpo sembravano superati tutti i riformismi dei Caracciolo e dei Caramanico. Eppure, specialmente con quest’ultimo, si era fatto molto per modernizzare la Sicilia. Con l’ordinanza dell’8 novembre 1788 erano state abolite le angarie (cioè, le prestazioni lavorative obbligatorie e gratuite) e con quella del 4 maggio 1789 si erano liberati i sudditi dalle servitù personali. Inoltre, nella deputazione del regno (nominata direttamente dal viceré e non più dal parlamento) i nobili erano passati da dodici (la totalità) a quattro. Era stata, ancora, introdotta la vaccinazione antivaiolosa e proibita la monacazione dei minorenni e dei figli unici.
  • A Milano, scrisse il conte Tommaso Gallarati Scotti:
  • La Rivoluzione Francese, contenuta oltre le Alpi per tre anni dal Piemonte, aveva straripato nella primavera del 1796 con l’esercito di Bonaparte.
  • “Con trentottomila sanculotti trascinati dal suo nuovo genio nascente, avidi di gloria e di conquista, senza viveri, senza denaro e senza cavalli, ma ricchi di una giovinezza elementare, e infiammati dalla parola magica libertà; battuti gli austriaci a Fombio l’8 maggio e forzata l’Adda a Lodi il 10, il generale era entrato il 15 a Milano, accolto dagli uni con stupito sgomento, dagl’altri come l’annunciatore di un’era nuova.
  • “Al sopraggiungere del giovanissimo condottiero corso, piccolo, magro, olivastro, dai lunghi capelli spioventi e dai fatali occhi d’aquila, il vecchio mondo settecentesco era crollato, roso alla radice dall’eleganza molle e dallo scetticismo beffardo.
  • “Dove egli passava cadevano troni e altari. Si innalzavano i simbolici alberi della libertà, sormontati dal berretto frigio, nelle piazze cittadine.
  • “Nuovi riti si svolgevano intorno alla Rivoluzione. Le folle erano attraversate da un brivido di fanatismo come al nascere di una religione nuova. Codini e tonache volavano all’aria – poiché alla gazzarra delle masse diventate giacobine corrispondeva l’improvvisa metamorfosi di larghi strati della borghesia e del mondo intellettuale, che da noi era stato penetrato dall’enciclopedismo dei Beccaria e dei Verri.
  • “Niente più cipria, niente parrucche – alle ortiche anche i titoli – si bruciavano le livree; si scappellavano gli stemmi, le lapidi nei sepolcri nobiliari delle chiese.
  • Battaglia dopo battaglia, in poco tempo Napoleone piegò l’intera penisola al suo volere. Sul modello francese nacquero la Repubblica Cisalpina, la Ligure, la Romana e, finalmente, la Partenopea. Non restò che la Sicilia, protetta dagli inglesi, per dare asilo a Ferdinando e rappresentare l’ultimo baluardo della resistenza alla rivoluzione.
  • II
  • Nel confuso contesto della campagna napoleonica in Italia, il giovane poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli in una lettera raccontò di un suo cugino, il generale Gennaro Valentini, molto amorevole con la regina, per cui si trovò a gestire alcuni dei disordinati momenti che seguirono la discesa in Italia delle truppe napoleoniche.
  • Lo scritto impressiona molto, perché si vede una viva figurazione del caos in cui si era piombati. La storia del Valentini era la storia di uno dei troppi eroi morti per niente, essendosi immolato con la divisa dei perdenti. Quei retorici rivoluzionari non avevano la grandezza di Omero, che, fra i vinti troiani, seppe render simpatica la figura di Ettore.
  • Scriveva Belli:
  • “Tu sai che poco dopo scoppiata la sanguinosa rivoluzione di Francia, torrenti di armi calarono in Italia ed inondarono Roma e le più belle provincie (sic).
  • “Fu allora che agli sforzi del Pontefice quelli si accoppiarono della Casa Siciliana, onde liberarsi dalla straniera violenza e Carolina d’Austria in que’ dì moglie di Ferdinando quarto di Borbone spedì da Napoli a Roma il generale Gennaro Valentini giovane valentissimo e di lei molto amorevole, perché segretamente trattasse dei modi più atti a discacciare dal suolo d’Italia la idra formidabile, che a’ danni nostri si vedeva menare le velenose sue lingue.
  • “Il generale dunque, come cugino di mio padre per canto materno, avuto nella nostra casa un misterioso ricetto ne fece il centro de’ suoi consigli, ed il deposito de’ regi dispacci. Né molto andò oltre il segreto; perché giunte da Napoli le formidabili forze, alle quali egli era preposto duce supremo, manifestandosi, uscì esse in campo; e, rotta la piccola guarnigione della Repubblica francese, sgombrò Roma dagli invasori e se ne proclamò giuridicamente comandante interino,, sotto gli ordini di un Naselli sopravvenuto col grosso dell’esercito del Mezzogiorno.
  • “I francesi però ingrossatisi coi presidj che dei loro raccoglievano ovunque, presto ricomparvero più feroci, e con onta e scorno indelebili del nome partenopeo, quasi senza un colpo di cannone né un lampo di spada ritolsero ai nemici la preda. Ottantamila soldati fuggirono avanti a seimila; ed il misero Valentini da tutti abbandonato e solo, non trovò altro scampo alla sua vita, che nella nostra fedele ospitalità.
  • “Ma sempre il suo asilo non poteva rimanere celato: per lo che, aperte negoziazioni col generale francese, al quale già prima da lui battuto aveva generosamente concesso sicurezza di vita, e libertà di persona; facilmente ne ottenne in contraccambio di potersene tornare salvo e rispettato alla sua patria, e ne ricevette in garanzia un autentico passaporto.
  •  “In que’ giorni mia madre sovrappresa da un subito terrore per la propria sicurezza, chiarì la sua determinata volontà di abbandonare la sua patria. A nulla valsero le preghiere del marito: a nulla le lagrime de’ figliuoli. Rimase ferma nella sua risoluzione, e conducendo me ancora fanciullo, partimmo subito alla volta di Napoli precedendo di poco il mio cugino il generale Valentini. Le nostre cose più preziose ci seguirono, e delle altre nostre proprietà rimase in Roma custode mio padre, che seco ritenne il mio minore fratello. Era necessaria la di lui permanenza e per le accennate ragioni e per non accrescere troppo con la sua fuga il sospetto, di cui qualche lampo già traluceva nelle autorità governative.
  • “Noi dunque partimmo. Ah, mai non avessimo mosso quel primo passo fatale! Inoridisci qui, o dilettissimo amico, tu, il cui bell’animo così dai tradimenti rifugge. Uscito appena il Valentini dalla città dalla porta di San Giovanni, fu preso, e contro ogni data fede, e ogni dritto delle genti ricondotto a Roma, e fucilato nel seguente giorno sulla piazza di Monte Citorio.
  • “Egli andò al sulplicio da eroe. Rivestito di tutte le divise del suo grado, volle senza benda guardare fermo quelle armi, dalle quali egli stesso invocò il foco e la morte.” (in Carlo Muscetta, Cultura e poesia di Giuseppe Gioacchino Belli, Bari, Laterza).
  • Questo accadeva nel 1798. utto ciò ed a causa di ciò che, dopo gli interregni dell’arcivescovo Lopez y Rojo e del principe di Luzzi, la Sicilia si trovò ad ospitare il re in persona, che, molto meno eroicamente del Valentini, davanti alle armate francesi, si era dato alla fuga.
    • III
    • Il 15 giugno del 1802, cinque giorni dopo la sua udienza col papa Pio VII, mons. Gian Vincenzo Monforte, vescovo di Nola, morì. Gli era stata fatale l’asprezza dei rimproveri ricevuti, anche se insieme ad essi erIa venuta l’assoluzione dall’anatema che l’aveva colpito qualche mese prima. Su di lui, così, cadeva l’ultima conseguenza di un’aggrovigliata catena di fatti, originata dal gesto di un altro vescova, mons. Michele Natale, che aveva abbracciato (anzi, se ne era fatto propagandista) le idee della Rivoluzione Napoletana del 1799.

In quell’occasione, velleitarismo ed ambizioni personali avevano creato uno strano connubio tra Dio e Robespierre, per cui la Chiesa-istituzione s’era trovata a combattere sui due fronti dell’attacco illuminista e della (in fin dei conti, eversiva) mobilitazione di popolo al seguito del cardinale Ruffo.

La storia, infatti, s’incarica sempre di smentire gli schemi ed ha pieghe intricate come un drappeggio ellenistico. Potette succedere, quindi, che mons. Natale scrivesse una sorta di catechismo repubblicano ed una lettera minacciosa di scomunica a dei popolani convinti di combattere per la religione e successivamente che un Papa si facesse vindice dell’impiccagione dello stesso con chi – mons. Monforte, per l’appunto – l’aveva permessa ed avallata col rito della dissacrazione.

Michele Natale veniva da Casapulla, in provincia di Caserta, dov’era nato il 23 agosto del 1751. Non apparteneva alla nobiltà e non fu precoce. Le conquiste della sua vita furono tutte lente e sudate, brani strappati con la ferocia della volontà e di un’intelligenza contadina.

Nel municipio di Vico Equense si conserva ancora un suo ritratto. Vi si indovina la pelle grassa ed i lineamenti, se non grossolani, sono marcati. Il naso è un tronco solido, le guance sono pesanti e ferrigne di peli duri, le arcate sopraciliari spesse e nere, la fronte un po’ stretta. Ma, più di tutto, parlano gli occhi: scuri, grandi, pazienti; eppure, al contempo, fermi e determinati.

Soltanto nel 1771, infatti, egli entrò nel seminario di Capua, usufruendo di una speciale licenza, dato che il limite di età per essere ammesso era di quindici anni. Così, il 23 dicembre del 1775, dopo quattro anni di studio, ne uscì sacerdote, consacrato dall’arcivescovo di Capua, mons. Capece Galeota. A ventiquattro anni, come inizio di carriera, non aveva di certo, come suol dirsi, bruciato i tempi.

Seguì un periodo relativamente oscuro. Nel decennio 1780/90 fu cappellano in una nobile famiglia napoletana. Per due anni, poi, fu cappellano a Capua, finché, nel 1792, per raccomandazione del principe Pignatelli, divenne segretario di mons. Agostino Gervasio, subito dopo la nomina di questi ad arcivescovo di Capua. Era il primo grande salto di qualità, da uomo di chiesa e da uomo di mondo.

Aveva quarantuno anni.

A questo punto, i pareri di coloro che ne hanno ricostruito la vita divergono. Secondo Giuseppe Acocella (Il catechismo repubblicano di Vincenzo Natale, Vico Equense, 1978),  il Nostro, accompagnando spesso l’Arcivescovo a Napoli, ebbe modo di entrare in confidenza con Ferdinando IV, tanto da essere nominato precettore dei reali bambini. Invece, Antonino Trombetta (La verità sul catechismo repubblicano attribuito a mons. Natale, vescovo di Vico Equense, Veroli, 1980), pensa ch’egli rimase un semplice cappellano a Capua fino alla nomina a vescovo.

Quale che sia la verità, una buona abilità nel procurarsi la raccomandazione, il Natale dovette averla, dato che, quando nel 1797 il Re ne decise la nomina a Vescovo di Vico Equense, non aveva alcun titolo accademico che lo rendesse idoneo a tale ufficio. Per questo, sostenne da privatista gli esami di teologia presso l’università di Napoli. Uscendone dottore, naturalmente.

Il nuovo vescovo non godeva certamente di floride condizioni economiche, tanto che dovette ipotecare i fondi della mensa vescovile di Vico, per ottenere un prestito.

Per quanto riguarda, poi, la sua attività pastorale, resta testimonianza soltanto del fatto che fece riparare il palazzo vescovile, danneggiato da una rivolta di popolani, come più sotto si vedrà.

In un uomo, tutto sommato, così conformista e poco brillante, quindi, stupisce – o, meglio, non stupisce affatto – l’estremistica scelta politica a favore della Repubblica Napoletana portata dai francesi, il 21 gennaio del 1799.

Già tre giorni dopo, Michele Natale vi aderì ufficialmente ed il 25 gennaio indisse “pubbliche grazie a Dio per aver salvato il Regno dagli orrori dell’anarchia”. Di conseguenza, venne eletto presidente della municipalità di Vico. Nei confronti del re Ferdinando di Borbone, la sua fu la tipica ingratitudine dei beneficiati. O, perlomeno, tale la videro i popolani, che in disprezzo gli saccheggiarono la casa.

In verità, i disordini duravano da tempo.

Lo strenuo accanimento dei lazzari per difendere il regno di un Re che se n’era fuggito in Sicilia non c’era stato soltanto a Napoli.

A Vico Equense, il 19 gennaio, istigati dal prete Giovanni di Napoli, la plebe aveva trucidato i fratelli Ascanio e Clemente Filomarino, del partito repubblicano. Il Natale rispose con durezza. Insieme al Vescovo di Gragnano e Lettere ed al Vicario del Duomo napoletano sconsacrò il Di Napoli e il 16 maggio lo mise a morte.

Gli altri rivoltosi – contadini e pescatori, gli stessi di tutte le rivolte, di destra e di sinistra, che sempre sono i primi, o gli unici, a pagarne le conseguenze – avevano subito la pena capitale già il 6 maggio.

Da marzo, però, il partito borbonico di Vico Equense si era riorganizzato. Nella città regnava la discordia e l’arbitrio. Così (ma, a quanto pare, contro i voti del Natale), da Napoli furono mandati alcuni soldati, francesi e della milizia cittadina.

La mossa risultò contrproducente. Irritati, i partigiani borbonici si fecero tanto pericolosi, che alla fine di marzo il nostro vescovo giacobino dovette fuggirsene a Napoli.

Era la defitiva sconfitta per chi, “richiesto dal Direttorio”, aveva pubblicato un Catechismo repubblicano per l’istruzione del popolo e la rovina de’  tiranni.

A parte il vecchio vizio dei progressisti di imporre il bene al popolo sulla punta delle armi straniere, la nuova escatologia illuministica trovava uno sbocco paradossale – o tragicamente naturale – nello scritto di un prete voglioso di carriera.

Oggi di questi preti ne circolano molti di più – forse, troppi -.

Della fallimentare attività rivoluzionaria del Natale si ha un’ultima notizia, datata 26 maggio, a Casapulla, suo paese natìo, quando in occasione della festa di S. Elpidio, arringò la folla e per poco non ne fu linciato.

Il ritorno dei borboni mise fine alle sue illusioni ed alle sue velleità. Venne catturato nel porto di Napoli, su denuncia di alcuni marinai sorrentini, che lo riconobbero mentre, vestito da capitano cisalpino, tentava di fuggire su di una nave inglese destinata al trasporto dei prigionieri francesi.

Dissacrato dal succitato mons. Monforte il 19 agosto del 1799, fu impiccato con altri sette nel pomeriggio del 20 agosto. Usciva, così, dalla prosa della sua realtà umana, per entrare nelle alate fantasie della memorialistica.

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Pubblicato da terrazze

Salvatore Paolo (detto Rocambole) Garufi Tanteri ha insegnato Lettere, Storia dell'Arte, Storia e Filosofia nelle scuole statali del Piemonte, della Liguria, della Campania e della Sicilia. Ha scritto opere di narrativa e teatrali ed è autore di monografie (Vitaliano Brancati, George Orwell, Santo Marino, Sebastiano Guzzone, Giuseppe Barone, Filippo Paladini).

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