DALLO CHATURANGA AL GIOCO DEGLI SCACCHI
Le origini degli scacchi si perdono nella notte dei tempi, anche se la maggior parte degli studiosi sembra d’accordo, senza peraltro avere prove irrefutabili, nell’ammettere che un gioco da tavolo simile agli scacchi, il Chaturanga, sia comparso in India fra il IV e il V secolo d. C.
Il caturaṅga (nella lingua ufficiale indiana ‘चतुरङ्ग’) si presume essere il più accreditato precursore del gioco degli scacchi moderni, dello shōgi, e del makruk e in qualche modo collegato anche allo xiangqi e lo janggi.
Il Chaturanga, anche se presentava alcune analogie col gioco attuale, era in realtà piuttosto diverso: era praticato da quattro giocatori che usavano i dadi per lo svolgimento di una partita in cui si confrontavano quattro eserciti. Il termine sanscrito significa letteralmente “esercito composto da quattro elementi”, in riferimento alle 4 tipologie dei pezzi (fanteria, cavalleria, carri ed elefanti).Secondo fonti che risalgono al VII sec. d.C nel chaturanga i pezzi erano divisi in quattro schieramenti, ciascuno condotto da un giocatore, per un totale di quattro giocatori.
Non c’era quella che oggi è la Donna (o Regina) e ogni giocatore disponeva quindi del Re, di una Torre, un Cavallo e un Alfiere e di quattro Pedoni. Per stabilire chi doveva muovere si ricorreva ai dadi. Una descrizione di questo gioco si trova nell’opera “India” dello storico arabo Al-Biruni (973-1048 d.C.), il quale afferma che presso gli arabi questa forma di gioco non era nota. Interessante notare che sono state trovate testimonianze del fatto che anche in Russia veniva giocato un gioco simile, con la differenza che al posto dei ‘carri da guerra’ vi erano delle barche.
A seguito degli scambi commerciali, nel VI secolo il Chaturanga era arrivato in Persia, dove era stato chiamato Chatrang e citato nello Shahnameh (Il Libro dei Re) del poeta persiano Ferdowsi (940 – 1020).
E’ possibile che gli scacchi nel loro cammino abbiano seguito un doppio percorso: quello orientale (Cina, India, Persia e Paesi Arabi) e un’altro europeo (Grecia e Roma), due percorsi che si sono unificati a seguito delle invasioni arabe del primo millennio. E proprio attraverso la mediazione degli Arabi gli scacchi sono arrivati in Spagna e in Portogallo e sono poi stati diffusi nell’intera Europa. Per quanto riguarda le regole del gioco, che si erano differenziate perle tradizioni dei diversi paesi, si ritiene che già nel XV secolo gli scacchi avessero raggiunto una forma simile a quella moderna. Nel 1497 era comparsa a Salamanca l’opera dello spagnolo Lucena (1465 – 1530 circa), Repeticion de Amores y Arte de Ajedrez, che conteneva le nuove regole del gioco.
Negli ultimi 500 anni circa il gioco degli scacchi, ha raggiunto una popolarità mondiale e stando alle parole del famosissimo campione del mondo di scacchi per ben 10 anni Anatolij Karpov: ”Il gioco degli scacchi è il perfetto incontro tra arte, scienza e sport”
Nel Seicento gli scacchi attraversarono un periodo bizzarro, condito di erudite polemiche e rivalità fra i maggiori trattatisti del secolo, nonché di “deviazioni” delle regole dallo stile classico. In altre parole gli scacchi, come in generale le arti, non sfuggirono agli effetti del secentismo, del gusto dello strano e del barocco.
A titolo d’esempio si deve citare la variazione al gioco classico degli scacchi inventata da Francesco Piacenza, che nella sua opera Campeggiamenti degli scacchi, ossia nuova disciplina di attacchi, difese e partiti del giuoco degli scacchi, pubblicato nel 1683, introduce due nuovi pezzi, cioè il Centurione ed il Decurione, e modifica anche le dimensioni della scacchiera, portandola a 100 caselle invece delle normali 64.
Il culmine di questa mania degli scacchi eterodossi raggiunse l’apice nel Settecento con l’opera Il Giuoco della Guerra, apparsa nel 1793, dell’avvocato genovese Francesco Giacometti. In essa viene descritto un gioco modificato degli scacchi ad uso dei militari, con tanto di pezzi denominati Generali, Cannoni, Mortai e Fortezze al posto dei pezzi classici. È quasi inutile aggiungere che nessuna di queste variazioni ebbe grande fortuna.
Il giocatore italiano maggiormente famoso del Seicento fu Gioachino Greco (1600 – 1634), detto “il Calabrese”. Egli fu forse quello che più peregrinò per tutta l’Europa, passando da una corte all’altra, fino a toccare le terre d’Inghilterra, di Francia e naturalmente di Spagna, dove primeggiò alla corte di Re Filippo IV. Scrisse nel 1620 il Trattato del nobilissimo gioco de scacchi, tradotto e stampato in inglese nel 1656 (cfr. foto) ed in francese nel 1669.
Fra i trattatisti del Seicento vanno menzionati il sacerdote Pietro Carrera (1573 – 1647), il cui grosso volume Il Giuoco de gli Scacchi, del 1617, incontrò la risposta polemica del napoletano Alessandro Salvio (1575 – 1640, immagine a lato) nella pomposa opera Il Puttino, altramente detto il Cavaliere errante, del Salvio sopra il giuoco dei scacchi con la sua apologia contro il Carrera, pubblicato nel 1634.
Di Salvio è da citare anche il libro Trattato dell’inventione et arte liberale del giuoco degli Scacchi, apparso in prima edizione a Napoli nel 1604.
Ma è il Settecento che ospita il primo vero giocatore teorico, cioè il francese André Francoise Danican Philidor (1726 – 1795), detto “il Grande”, nato a Dreux nel Centro-Valle della Loira, che può essere considerato senza ombra di dubbio il maggiore trattatista del XVIII secolo. Distintosi anche come musicista – fu fra i fondatori dell’opera buffa francese e scrisse parecchie composizioni di musica vocale da camera e strumentale – Philidor divenne famoso sia per la sua innegabile forza di giocatore, sia per avere partorito un’opera fondamentale per la storia del Nobil Giuoco, ovvero Analyse du jeu des échecs, pubblicata a Londra per la prima volta nel 1749. Questa fu l’unica opera di Philidor sul gioco degli scacchi, ma introdusse tanti concetti nuovi e sconosciuti all’epoca, riassunti nella sua celebre frase “I Pedoni sono l’anima del gioco degli scacchi”.
In effetti, i giocatori fino ad allora si erano distinti per praticare un tipo di gioco abbastanza spericolato e basato solo sulla tattica, cioè sulla capacità di calcolare mentalmente le “varianti”, ovvero sequenze abbastanza brevi di mosse più o meno forzate, quindi senza nessuna valutazione a lungo termine. Con Philidor fa invece capolino nella teoria scacchistica un concetto nuovo, la strategia, con l’idea basilare che pure l’umile Pedone deve avere alla lunga un’importanza fondamentale nella conduzione accorta di una partita. Il libro di Philidor ebbe un tale successo che in breve tempo se ne stamparono sessanta edizioni in varie lingue.
Fu nel periodo di Philidor che i giocatori di scacchi presero l’abitudine di incontrarsi nei caffè delle città, luogo di ritrovo anche di artisti e letterati. In Francia uno dei caffè più rinomati di Parigi, il Caffè De La Régence, nella piazza del Palazzo Reale, fu frequentato da personaggi illustri come Voltaire e Rousseau, che amavano trascorrere il tempo libero fra le chiacchiere e qualche partita a scacchi. In Inghilterra, fra il 1700 ed il 1770, furono molto frequentati dai giocatori di scacchi il Caffè Parshoe in via St. James ed il Caffè Tom nel cuore della City, entrambi a Londra. Il Caffè Tom divenne successivamente la sede ufficiale del famoso London Chess Club, al quale erano iscritti i migliori scacchisti inglesi.
In Italia i luoghi di ritrovo dei giocatori di scacchi non furono i caffè, bensì le Accademie, che altro non erano che riunioni periodiche di persone allo scopo di scambiarsi opinioni od idee su ogni tipo di argomento o semplicemente per divertirsi con giochi di società. Celebri furono le Accademie di Napoli, Parma, Modena, Padova e Reggio Emilia, ma bisogna aggiungere che ormai i giocatori più forti dell’epoca erano tutti stranieri.
Non che in Italia mancassero scacchisti di una certa levatura, tuttavia il principale ostacolo era costituito dal fatto che nella nostra penisola i giocatori non seguivano le regole classiche del gioco, ma ne avevano di proprie, talvolta abbastanza diverse da quelle seguite dai giocatori francesi, inglesi e spagnoli. Per esempio, secondo le regole italiane, il Pedone poteva essere promosso solo ad un pezzo mancante (e se nessun pezzo mancava allora il Pedone restava “sospeso” in attesa di promozione), l’arrocco poteva essere effettuato ponendo il Re e la Torre in qualunque casa intermedia, inoltre non era ammessa la presa al varco (in francese, presa en passant).
Nonostante la peculiarità delle regole scacchistiche italiane, si distinsero notevolmente tre forti Maestri di Modena, sia a livello di gioco che in campo trattatistico: Domenico Ercole del Rio (1723 – 1802, immagine a lato), che scrisse l’opera Osservazioni sopra il giuoco degli scacchi, pubblicata nel 1750, Domenico Lorenzo Ponziani (1719 – 1796), che integrò lo scritto di Del Rio nel famoso trattato Il giuoco incomparabile degli scacchi sviluppato con nuovo metodo, di cui la prima edizione venne stampata nel 1769, e, infine, Giambattista Lolli (1698 – 1769), autore di Le osservazioni teorico pratiche sopra il gioco degli scacchi (1763), un poderoso manuale in cui sono analizzate alcune aperture allora molto in voga: la Partita di Gioco Piano, la Difesa dei 2 Cavalli ed il Gambetto di Re.
Le opere italiane citate, a differenza del trattato di Philidor, non ebbero però una grande influenza sull’evoluzione teorica del gioco degli scacchi, d’altra parte costituirono una fonte interessante nel campo della problemistica, dato che la scuola italiana poneva in gran conto l’abilità nella risoluzione di complesse posizioni sulla scacchiera, in pratica dando ancora preminenza alla tattica rispetto salla strategia.